Alcune interpretazioni sulla vicenda egiziana

LA SITUAZIONE IN EGITTO PONE NON POCHE PERPLESSITA'. LA CADUTA DI MORSI - FRATELLI MUSULMANI - E IL COLPO DI STATO MILITARE CAMBIANO LO SCENARIO EGIZIANO E REGIONALE PER L'ENNESIMA VOLTA IN POCO TEMPO. ECCO DI SEGUITO ALCUNE INTERPRETAZIONI, ANCHE IN ANTITESI TRA LORO, PER CERCARE DI STUDIARE MEGLIO IL FENOMENO; I SEGUENTI ARTICOLI NON RAPPRESENTANO NECESSARIAMENTE LA LINEA EDITORIALE DEL BLOG.



 Valeria Talbot
Mentre la comunità internazionale segue con preoccupazione l’evoluzione degli eventi in Egitto, dall’Arabia Saudita sono giunte le congratulazioni di re Abdullah al nuovo presidente egiziano ad interim Adly Mansour. Il regime di Riyadh può finalmente tirare un sospiro di sollievo. L’avversità saudita nei confronti del governo guidato dai Fratelli musulmani, infatti, non è un ministero e uno scenario più favorevole sembrerebbe aprirsi nelle relazioni tra i due paesi dopo che i militari hanno destituito il presidente Morsi e dato l’incarico a interim al presidente della Corte costituzionale, che tra le altre cose può vantare nel suo curriculum una lunga esperienza da consulente legale presso il ministero del Commercio saudita.
Dallo scoppio della Primavera araba la monarchia saudita, alleato di lunga data dell’Egitto di Hosni Mubarak su diversi dossier regionali, ha guardato con timore agli sviluppi politici nel più popoloso paese arabo. Contrastare il dilagare di un possibile “effetto contagio” delle rivolte a tutta la penisola arabica e mantenere lo status quo è stato l’obiettivo di Riyadh dall’inizio del 2011, esemplificato dall’intervento militare in Bahrein e dalla mediazione diplomatica in Yemen. 
L’emergere della Fratellanza musulmana in Egitto non è stata accolta con favore da Riyadh le cui relazioni con il movimento islamista non sono mai state facili, soprattutto alla luce del timore da parte di Riyadh di possibili interferenze nei propri affari interni. La Fratellanza è infatti espressione di una declinazione dell’Islam che, seppur sunnita, è diversa dal wahabismo praticato in Arabia Saudita e per questo considerata una minaccia per l’ortodossia religiosa dalla monarchia saudita. Ma l’Egitto è un paese cruciale per la stabilità, gli equilibri e la sicurezza del Medio Oriente e dei regimi del Golfo e Riyadh, con una buona dose di realismo e di cautela, ha cercato di fare buon viso a cattivo gioco. L’Egitto è tra l’altro una componente chiave di quell’asse sunnita guidato dall’Arabia Saudita che si contrappone, tanto sul piano geopolitico quanto su quello religioso, all’influenza di Tehran nella regione, palesatasi nell’ascesa della cosiddetta “mezzaluna sciita”. Ed è anche il paese di provenienza della più ampia comunità di expatriates – circa 1,6 milioni – nel regno saudita.
In generale, la prospettiva di un collasso politico e soprattutto economico egiziano, con gravi conseguenze non solo sul piano interno ma anche a livello regionale, non sarebbe certo nell’interesse dell’Arabia Saudita. Per questo, seppur tra alti e bassi, le relazioni bilaterali sono andate avanti e non è un caso che la monarchia degli al Saud sia stata la destinazione della prima visita ufficiale nella regione del presidente Morsi dopo l’elezione un anno fa. Gli aiuti sauditi all’economia egiziana ammonterebbero a 1 miliardo di dollari, poco rispetto alle ampie possibilità della ricca monarchia e al supporto finanziario del Qatar – che ha già sborsato 5 degli 8 miliardi di dollari promessi –, ma significativo in assenza di altri aiuti internazionali al di fuori dei paesi mediorientali. 
Ma l’Arabia Saudita non è stata la sola monarchia del Golfo a congratularsi. Piena soddisfazione per il cambio ai vertici egiziani è stata espressa da Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Proprio questi ultimi sono stati al centro, negli ultimi mesi, di una crisi diplomatica con l’Egitto per gli arresti di numerosi egiziani affiliati alla Fratellanza musulmana per un presunto complotto nei confronti del regime di Abu Dhabi. Anche dal Qatar, seppure in maniera più sommessa, sono giunte le congratulazioni al nuovo presidente egiziano. Negli ultimi due anni Doha è stata il principale sostenitore, non solo economico, dei Fratelli musulmani in Nord Africa e Vicino Oriente e la destituzione di Morsi, unita all’arresto dei vertici della Fratellanza in Egitto, sono l’esatto contrario di quello su cui la monarchia qatarina aveva puntato e potrebbero rappresentare un duro colpo per le ambizioni regionali dell’emirato. 
Le monarchie del Golfo guardano dunque al nuovo corso degli eventi in Egitto con grande attenzione e con un misto di soddisfazione e cautela nella consapevolezza che, proprio in virtù del suo peso politico, militare ed economico, la stabilità del paese rimane un elemento chiave per i destini dell’intera regione mediorientale.
Valeria Talbot, ISPI Senior Research Fellow


La protesta dell’Egitto è diretta contro gli Stati Uniti
F.  William Engdahl, Global Research, 4 luglio 2013
1372857757347_cachedLa rapida azione dei militari egiziani che hanno arrestato Mohamed Morsi e i leader dell’organizzazione dei Fratelli musulmani, il 3 luglio, segna una battuta d’arresto importante per la strategia della “Primavera araba” di Washington, che utilizza l’Islam politico per diffondere il caos dalla Cina alla Russia attraverso il Medio Oriente petrolifero. Morsi ha respinto la richiesta del ministro della Difesa di dimettersi per evitare un bagno di sangue. Ha detto che rispettava la sua “dignità costituzionale” e ha chiesto il ritiro dell’ultimatum dell’esercito. Ciò potrebbe diventare il punto di svolta del declino degli USA quale unica superpotenza mondiale, come le future generazioni di storici vedranno tali eventi.
La setta dei Fratelli musulmani, un anno dopo aver preso il potere mettendo il proprio uomo, Mohammed Morsi, alla presidenza e dominando il Parlamento, i militari egiziani l’hanno deposta, in un contesto in cui milioni di persone protestano per le piazze contro l’imposizione di Morsi della rigorosa sharia, mentre non sapeva affrontare il collasso economico. Il colpo di Stato è guidato dal ministro della Difesa e capo dell’esercito, Generale Abdel Fattah al-Sisi. Significativamente, al-Sisi è stato definito da Morsi il generale più giovane e devoto musulmano, lo scorso anno. Si è anche addestrato ed è ben considerato a Washington, dalla leadership del Pentagono. Gli autori del colpo di Stato indicano la profondità del rifiuto verso la confraternita in Egitto. Al-Sisi aveva annunciato, la sera del 3 luglio, che il capo della Corte Costituzionale agirà da presidente provvisorio e formerà un governo ad interim di tecnocrati per governare il Paese fino alle prossime elezioni presidenziali e parlamentari. È stato affiancato dai leader dell’opposizione laica, cristiana e musulmana. Al-Sisi ha detto che l’esercito avrebbe fatto ogni sforzo per avviare il dialogo e la riconciliazione nazionale, accolti da tutte le fazioni ma respinti dal presidente Morsi e dalla sua Fratellanza musulmana.
Una rabbia contro gli USA
Forse l’aspetto più significativo della mobilitazione in massa dei manifestanti che, nelle ultime settimane, ha spinto i militari a decidere di prendere attivamente il controllo, era il chiaro carattere anti-Washington delle proteste di piazza. I manifestanti inalberavano manifesti rudimentali che denunciavano Obama e la sua ambasciatrice pro-Fratelli musulmani a Cairo, Anne Patterson. L’ambasciatrice a Cairo, in Egitto, Anne Patterson, è il bersaglio speciale delle proteste. Patterson, il 18 giugno, fece osservazioni per scoraggiare i manifestanti anti-Morsi. Disse che “Alcuni egiziani dicono che l’azione nelle piazze produrrà dei risultati migliori che non le elezioni. Ad essere onesti, il mio governo e io siamo profondamente scettici”. Poi in un’intervista ancora più esplicita con l’egiziano al-Ahram online, a maggio, la diplomatica statunitense si rifiutava di criticare Morsi e dichiarava: “Il fatto è che hanno partecipato a legittime elezioni ed hanno vinto. Certo è sempre difficile avere a che fare con un nuovo governo. Tuttavia, a livello istituzionale, ad esempio, siamo ancora in contatto con gli stessi funzionari militari e civili e, quindi, manteniamo le stesse vecchie relazioni“. [1]
L’azione dei militari s’è avuta anche contro l’intervento esplicito del presidente degli Stati Uniti Obama e del suo presidente degli Stati maggiori riuniti, Generale Martin Dempsey. Obama ha chiamato il presidente egiziano e Dempsey ha telefonato al Capo di stato maggiore Sadqi Sobhi, sperando di disinnescare la crisi tra il regime, l’esercito e il movimento di protesta. Ora Obama ha un altro grattacapo in più. [2] Significativamente, il re saudita Abdullah e il leader dei conservatori Emirati Arabi Uniti, con la notevole eccezione dell’emiro pro-Fratelli musulmani del Qatar, hanno apertamente salutato l’azione dei militari in Egitto. L’agenzia stampa statale saudita SPA ha riferito, “In nome del popolo dell’Arabia Saudita e da parte mia, ci congratuliamo con la leadership dell’Egitto, in questo momento critico della sua storia. Preghiamo Dio di aiutarvi a sopportare la responsabilità che poggia su di voi nel realizzare le ambizioni del nostro fraterno popolo d’Egitto“, comunicava ufficialmente il re. [3] Un blog notiziario che sarebbe vicino ai militari e ai circoli dell’intelligence israeliani, afferma che l’esercito egiziano ha agito con l’appoggio discreto dell’Arabia Saudita e di altre nazioni conservatrici del Golfo. Secondo questi rapporti, qualora l’amministrazione Obama sospendesse l’annuale assegnazione degli 1,3 miliardi di dollari di aiuti statunitensi ai militari dell’Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti compenserebbero il deficit del bilancio dei militari. Inoltre, afferma, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altre nazioni del Golfo, come il Bahrain e il Kuwait, “inizierebbero immediatamente ad inviare ingenti finanziamenti per mantenere attiva l’economia egiziana. Mostrando alle masse egiziane che in un’economia gestita correttamente, verrebbe garantito un livello minimo di vita senza dover morire di fame, come è successo a molti sotto il dominio dei Fratelli musulmani. Secondo le nostre fonti, i sauditi e gli Emirati Arabi Uniti si sono impegnati a corrispondere i fondi che il Qatar ha trasferito nelle casse della Fratellanza musulmana di Cairo lo scorso anno, pari alla notevole somma di 13 miliardi di dollari USA.” [4]
Che il presunto aiuto si materializzi o meno, l’intervento dei militari egiziani suscita onde d’urto in tutto il mondo islamico. Una settimana fa, mentre le proteste di massa in Egitto aumentavano, il Qatar apertamente filo-Fratelli musulmani dello sheikh Hamad al-Thani, sorprendentemente passava il dominio al figlio 33enne, che sarebbe un moderato. Il figlio ha licenziato immediatamente il Primo ministro pro-Fratellanza sheikh Hamad bin Jassim. Il Qatar aveva dato alla Fratellanza egiziana di Morsi qualcosa come 8 miliardi di dollari e il leader spirituale dei Fratelli musulmani, Yusuf al-Qaradawi, ha vissuto a Doha per decenni, usandolo come base per proiettare i suoi spesso controversi sermoni. Il canale governativo del Qatar, al-Jazeera, è stato anch’esso criticato per essere passato, negli ultimi anni, da rispettato notiziario arabo indipendente a voce faziosa dei Fratelli musulmani. [5] È significativo che uno dei primi atti dell’esercito egiziano sia stato chiudere lo studio di al-Jazeera a Cairo. La grande sconfitta della Fratellenza in Egitto causerà grandi onde d’urto anche in Turchia, sul partito pro-Fratellanza AKP del Primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Le grandi proteste sono state brutalmente represse dalla polizia di Erdogan, che ha usato gas lacrimogeni e potenti cannoni ad acqua. Erdogan aveva permesso che la Turchia venisse utilizzata come grande retrovia per inviare mercenari, finanziati in gran parte dal Qatar, in Siria, cercando di rovesciare il governo di Bashar al-Assad e sostituirlo con un regime dei Fratelli musulmani. Morsi, in Egitto, poco prima della caduta, ha invocato la Jihad per rovesciare Assad. La domanda cruciale, ora, sarà la risposta di Obama al collasso della Primavera araba di Washington. La primavera araba di ieri è appena diventata l’incubo dell’inverno siberiano di Washington.
BN3SUdaCUAA1_3A_jpg-large_lightboxNote:
[1] John Hudson, Knives Come Out for US Ambassador to Egypt Anne Patterson, Foreign Policy, 3 luglio 2013
[2] DebkaFile, Army deposes Morsi. In TV statement, army chief names judge provisional president. Tahrir Sq. jubilant, DEBKAfile Special Report, 3 luglio 2013.
[3] Reuters, Saudi king congratulates new Egyptian head of state, 4 luglio 2013
[4]  DebkaFile, Saudis, Gulf emirates actively aided Egypt’s military coup settling score for Mubarak ouster, DEBKAfile Exclusive Report, 4 luglio 2013
[5] Simeon Kerr, Fall of Egypt’s Mohamed Morsi is blow to Qatari leadership, Financial Times, 3 luglio 2013
Copyright © 2013 Global Research
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
http://aurorasito.wordpress.com/2013/07/05/la-strategia-islamista-di-washington-in-crisi-con-morsi-rovesciato/




Se nei paesi della "primavera araba" vuoi far votare il popolo, preparati a un probabile governo islamista.

Se non vuoi gli islamisti, vai sul sicuro e non far votare il popolo. Se poi il popolo ha votato e rivotato gli islamisti e tu sei abbastanza certo di non poter mai vincere un’elezione, scatena la piazza, accendi la mischia e chiama i militari a scioglierla.

Questa regola, sperimentata nel 1991-92 in Algeria, quando dittatori più o meno utili alla causa occidentale punteggiavano la galassia araba, è confermata oggi in Egitto. Dove il fallimentare esperimento dei Fratelli musulmani, incarnato dal presidente Mohammed Morsi, è stato liquidato per vie brevi dal potere militare, invocato da Piazza Tahrir e dintorni.

Paradosso: coloro che - con qualche ottimismo - consideriamo meno distanti dai valori democratici, si affidano al colpo di Stato per affermarsi sui vincitori - certo non inclini al modello Westminster - di tutte le elezioni più o meno democratiche tenute in Egitto dopo la caduta di Mubarak.

Ma il generale Abdel Fatah al-Sisi, capo delle Forze armate e quindi del massimo conglomerato economico nazionale, non intende intestarsi la responsabilità di un paese ingovernabile. Dal suo cappello ha quindi estratto il presidente della Corte costituzionale, Adly Mansour, cui è stato affidato ad interim il portafoglio di Morsi, in vista della formazione di un altrettanto provvisorio governo che dovrebbe preparare nuove elezioni.

Siccome errare è umano, perseverare diabolico, s’immagina che se e quando gli egiziani saranno richiamati alle urne, verranno prese le opportune misure perché il risultato non costringa i militari a ulteriori chirurgie d’urgenza. Magari adottando il suggerimento del celebre scrittore dentista Ala al-Aswani, icona degli intellettuali “liberali”, per il quale conviene negare il diritto di voto agli analfabeti, ossia a un egiziano su quattro - una donna su tre.

Ciò che ai militari interessa è il controllo del vasto apparato produttivo di cui sono i capofila, la gestione in perfetta autonomia del proprio bilancio e la garanzia del supporto finanziario americano: quasi un miliardo di dollari e mezzo all’anno.

Ma per intascare questa tangente - il prezzo che gli americani pagano per potersi considerare azionisti di riferimento dei militari egiziani, a tutela della sicurezza di Israele - ad al-Sisi occorre che il governo sia presentabile al peraltro assai geopolitico vaglio di legalità del Congresso Usa. Di qui lo sbarramento semantico del generale, che mentre metteva agli arresti domiciliari il primo presidente democraticamente eletto del suo paese e colpiva d’interdetto la Fratellanza musulmana, lanciava i blindati nelle piazze e censurava i media ostili, curava di comunicare che non era in corso alcun colpo di Stato.

Il golpe che non si può definire tale non elimina certo le cause che l’hanno originato. Il rebus egiziano resta insoluto nelle sue componenti economica, politica e socio-culturale.

L’Egitto è sull’orlo del collasso, con la lira in picchiata, le casse dello Stato vuote,la disoccupazione galoppante, turismo e rimesse degli emigrati ai minimi termini. Non sono bastati i pelosi oboli dell’emiro del Qatar - interessato a mettere le mani sul Canale di Suez - e di altri finanziatori affini alla galassia della Fratellanza musulmana a impedire che la crisi precipitasse, finendo per esasperare buona parte della popolazione, insofferente per la mala gestione di Morsi e associati.

Il campo politico è polarizzato e paralizzato. I Fratelli musulmani, dopo 85 anni di opposizione semiclandestina, si sono rivelati incapaci di convertirsi in forza di governo. Si sono illusi che bastasse vincere le elezioni per governare. E nelle componenti più conservatrici, di cui Morsi è espressione, hanno immaginato di poter non troppo gradualmente imporre la propria agenda al resto del paese.

Quanto alle opposizioni, che vanno dalla sinistra radicale agli ipernazionalisti, dai (pochi) liberali occidentalizzanti agli avanzi (corposi) del vecchio regime - le notizie sulla sua morte si confermano premature - non hanno mai considerato Morsi un presidente legittimo, o con il quale si potesse comunque stipulare un compromesso. Per tacere della galassia salafita, che conta di profittare della sconfitta dei Fratelli per ingrossare le proprie file.

L’eco del golpe egiziano risuona in tutta la regione e nel mondo. Esulta il presidente siriano al-Asad, contro il quale Morsi, in uno dei suoi molti gesti inconsulti, aveva chiamato alla guerra santa. Protesta inquieto il leader turco Erdoğan, finito a suo tempo in galera nell’ultimo “golpe bianco” delle Forze armate kemaliste, vieppiù allarmato dal rimpallo non solo mediatico fra Piazza Taksim e Piazza Tahrir.

E gli americani, che tanto avevano puntato sui Fratelli musulmani allo scoppio delle “primavere”? A Obama va bene tutto, purché sia scongiurato il fantasma dell’ennesima guerra civile, a massacro siriano ancora in corso, che rischierebbe di risucchiare gli americani nei conflitti mediorientali da cui cercano in ogni modo di districarsi, per dedicarsi alla sola priorità: la Cina.

I prossimi mesi ci diranno se dall’intervento delle Forze armate egiziane potrà scaturire la pacificazione fra le principali componenti politico-religiose, islamisti inclusi. Oppure se le opposizioni approdate al governo sull’onda della piazza anti-Morsi e dei carri armati di al-Sisi vorranno continuare nella prassi dei Fratelli, solo a segno rovesciato: il potere è tutto nostro, guai a chi lo tocca.

In tal caso, la reazione violenta degli islamisti frustrati è scontata. Battesimo ideale per l’ennesima leva jihadista.

LUCIO CARACCIOLO - LIMES 

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