Shiat'Ali: una ricerca sull'Islam sciita

Un progetto, work in progress, di Q Code Mag. Un viaggio, tra interviste e reportage, nell’anima dell’Islam sciita alla fine di un decennio chiave
di Christian Elia
“Beirut, il più straniante degli scenari, e il meno straniero: una città araba ma diversa, una città diversa ma araba”. Così Samir Kassir, nel suo bellissimo libro Beirut, storia di una città, edito in Italia da Einaudi. Samir è stato assassinato il 2 giugno 2005, a Beirut, da un commando che ha fatto esplodere la sua auto. Auto che esplodono, come una sveglia impazzita, a segnare date rosso sangue nella storia del Libano.
Quella contro la caserma occupata dai marines Usa, durante la guerra civile in Libano, dove persero la vita 241 soldati, nel 1983. Quella contro Rafiq Hariri, ex primo ministro libanese. Quella del 19 novembre scorso, nei pressi dell’ambasciata iraniana. Che non è come le altre. Dall’inizio della guerra in Siria, il Libano è destabilizzato. Ma quello dell’altro giorno è un attacco differente. Che ha radici lontane, ma ormai sempre più radicate e tortuose.
Cronache da una strategia della tensione
La mattina del 15 febbraio 2003, a Roma, era luminosa di promesse, elettrica di aspettative, fresca di speranze. Da tutta Italia, in tre milioni, per dire no alla guerra in Iraq. L’attacco sarebbe arrivato più o meno un mese dopo, ferendo a colpi di impotenza uno dei più partecipati movimenti pacifisti italiani e internazionali dai tempi della guerra del Vietnam.
Tutti coloro che quel giorno sfilarono erano festosi, convinti di poter arrestare la macchina di morte guidata dall’esercito degli Stati Uniti d’America, alla testa di una ‘coalizione dei volenterosi’, lanciata contro il regime di Saddam Hussein. Una forza d’urto militare che, al solito, aveva al seguito anche un contingente italiano, che un po’ ci siamo un po’ no, perché l’Onu non ha garantito la copertura.
Shi'ite Muslims pray in a mosque in Yangon
La delusione, all’alba dell’attacco, fu dolorosa. Il diritto internazionale, bersaglio preferito dei guerrafondai, aveva subito un nuovo e forse decisive colpo. I cittadini, in gran parte contrari all’attacco armato all’Iraq, sentirono ignorata la propria opinione. Quel movimento, da quella delusione, non si è più ripreso.
Sono passati dieci anni. Questo decennio ha segnato un punto di svolta molto importante, anche se la maggior parte dell’opinione pubblica dell’epoca non se ne rendeva conto fino in fondo. Tutto preso dalla solita visione autoreferenziale, sedato dai falsi profeti dell’islamofobia, l’Occidente ha trascurato il processo interno al mondo islamico che questo decennio generava. Una cesura, storica, nei tradizionali equilbri interni al mondo dell’Islam. Perché la caduta del regime di Saddam sanciva un rovesciamento di potere che avrebbe avuto effetti dirompenti in tutta la regione, effetti che si sarebbero amplificati l’anno dopo, quando le elezioni presidenziali in Iran sanciscono la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad.
In che modo questi due elementi sono legati? Due fatti differenti si avvolgono attorno al fuso dell’identità sciita nel mondo musulmano. In Iraq, oltre il 60 percento della popolazione è di confessione sciita, ma fin dall’indipendenza non avevano mai avuto accesso al governo della potenza petrolifera. Dopo la caduta di Saddam, per la prima volta, gli sciiti si ritrovano al potere. In Iran, dove gli sciiti sono la maggiornaza della popolazione, la vittoria nella rivoluzione del 1979 aveva instaurato una teocrazia che però, dopo la sanguinosa guerra con l’Iraq negli anni Ottanta, aveva portato la leadership di Teheran a ragionare in termini di ‘rivoluzione in un solo Paese’.
L’arrivo di Ahmadinejad, invece, segna una svolta importante. Un ritorno all’internazionalismo sciita, un rinascimento, il sogno di sostenere le comunità sciite vessate in tutti i paesi dove sono minoranza.
Nel 2006, dopo la guerra in Libano, il potere del partito armato Hezbollah cresce a dismisura. Israele si ritira dal suo scellerato attacco, lasciando il Libano meridionale saldamente nelle mani degli sciiti, che contano sulla cinghia di trasmissione con l’Iran garantita dalla Siria della famiglia Assad, alevita, setta vicina allo sciismo, che pur essendo minoranza governa Damasco. Un asse sciita, un bastione di potere che corre dal Mediterraneo al Golfo Persico. Un’onda che arriva fino in Bahrein, dove gli sciiti sono maggioranza, ma il Paese è nelle mani della monarchia sunnita, e che infiamma anche le petromonarchie sunnite del Golfo.
Dopo dieci anni, mentre in Siria si combatte una sporca guerra, Ahmadinejad ha lasciato il potere in mani più pragmatiche. In Iraq la situazione è esplosiva, come in Libano. Sembra, al di là di come andrà a finire, che la stagione del risveglio sciita sia finita. Che bilancio si può stilare di questi dieci anni? Quali gli effetti sull’identità sciita, da sempre legata alla persecuzione e all’esclusione dal potere? Come cambia, se cambia, l’autorappresentazione degli sciiti all’interno del loro mondo? Lungi dall’esistere una reale guerra confessionale, quanto le retoriche e gli interessi contrapposti stanno surriscaldando il conflitto sunnita-sciita?
Shīʿat ʿAlī, che significa ‘fazione di Alì’, contratta poi nella parolashia (sciita), è un progetto che guarda la futuro e al passato nello stesso tempo. Per dieci anni ho raccontato quello che ho visto accadere, sentendo adesso l’urgenza di mettere assieme interviste e reportage su questo tema, di raccogliere questo materiale in un progetto multimediale, in progress, che si formerà su Q Code Mag. Esperti di tutto il mondo, reportage e storie di persone comuni, come in un mosaico, diventeranno la narrazione di un decennio che come mai prima ha posto gli sciiti di fronte alla possibilità di mutare l’equilibrio della storia.
Pagando, come in Bahrein, un prezzo molto alto per questo tentativo. Correndo il rischio di pagare ancora, rispetto alla costante minaccia di un attacco armato internazionale in Iran e rispetto alla crescente tensione verso le comunità sciite in paesi come l’India e il Pakistan. Il tutto in un contesto che di religioso ha solo il pretesto, perché il meccanismo dell’odio ha un’agenda tutta politica ed economica.
Questo progetto non ha un termine, ma sarà un flusso costante, durante il quale verrà rielaborato il materiale prodotto in dieci anni di lavoro sul tema e verranno realizzate le interviste, i reportage e saranno raccolte le storie di coloro che vorranno raccontare la loro identità sciita. Pezzo per pezzo lo pubblicheremo su Q Code Mag. Componendo nella primavera del 2014 il mosaico, il tentativo di bilancio del decennio iniziato nel 2003-2004. Buona lettura.

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