A dieci anni dalla cattura di Saddam. L'incerto futuro dell'Iraq



MAURIZIO MOLINARI

Alle 20.30 del 13 dicembre di dieci anni fa la Task Force 121 del colonnello James Hickey catturava Saddam Hussein in una buca sotterranea di ad-Dawr, nei pressi di Tikrit, aprendo la strada alla nascita di un nuovo Stato iracheno oggi a rischio di disgregazione a causa della convergente minaccia di separatismo curdo nel Nord e rafforzamento di Al Qaeda nell’Ovest. 

L’operazione «Alba Rossa» venne affidata alla IV divisione di fanteria del generale Raymond Odierno e, sulla base delle indicazioni raccolte dall’interrogatorio di un fedelissimo di Saddam, portò ad identificare il rifugio del deposto dittatore nei pressi di una baracca lungo il fiume Tigri, in un’area sunnita di fedelissimi del Raiss. Quando gli uomini di Hickey sollevarono la botola di ferro, celata sotto terra fresca, Saddam si arrese senza combattere consegnando quanto aveva con sé dentro la buca in cemento dotata di un perfetto sistema di areazione: una pistola, kalashnikov e 750 mila dollari liquidi.  

L’immagine di Saddam che uscita dalla «buca di un topo» - come titolò il «New York Post» - con una barba lunga e il volto sfinito raffigurò la fine del dittatore considerato per decenni il più spietato del Medio Oriente. L’indomani mattina il presidente americano George W. Bush annunciò la cattura di Saddam come il «momento decisivo per la nascita del nuovo Iraq» dopo il rovesciamento del suo regime avvenuto in aprile a seguito dell’intervento militare guidato da Washington. A dieci anni da allora, passando attraverso l’esecuzione di Saddam nel dicembre 2006 e la fine del ritiro delle forza americane cinque anni dopo, l’Iraq appare sull’orlo di una disgregazione a base etnica che vede protagonisti curdi e sunniti. È stato lo stesso premier Nuri al Maliki a parlarne con Barack Obama durante un colloquio avvenuto a inizio novembre alla Casa Bianca con Barack Obama che ha visto riprendere in considerazione un’ipotesi che sembrava oramai tramontata: la possibilità di siglare intese sulla presenza di basi Usa in Iraq. 

I timori di Al Maliki, alla guida di una coalizione di governo dominata da partiti sciiti, si devono a quanto su avvenendo su due fronti. Il primo è quello del terrorismo, in ragione del fatto che da aprile le violenze inter-etniche hanno causato oltre 6000 vittime in tutto il Paese soprattutto a causa degli attacchi di Al Qaeda. Le cellule jihadiste che hanno assunto la denominazione di «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» operano in particolare nelle aree del deserto occidentale ai confini della Siria dove la gestione dei rifornimenti di armi per i gruppi di Al Qaeda che si battono contro il regime di Bashar Assad si è sviluppata fino a «produrre il controllo di uno Stato nello Stato che sfugge al governo di Baghdad» secondo quanto recita un rapporto dell’intelligence irachena recapitato questo mese al Pentagono.  

In particolare, secondo l’analista iracheno Hashim a-Habobi, il «piano di Al Qaeda in Iraq è di insediarsi nelle città di Ramadi, Fallujah e Mosul per tornare a controllare il triangolo sunnita» da dove fu espulsa nel 2006-2007 con le operazioni di controterrorismo americane guidate dal generale David Petraeus. L’insoddisfazione dei sunniti nei confronti di un governo centrale considerato filo-sciita e troppo vicino a Teheran contribuisce a far crescere le fila delle unità jihadista che, secondo il ministro degli Esteri Hoshyar Zebari, sommano almeno 12 mila combattenti «la cui presenza pone rischi all’integrità dell’Iraq come al futuro della Siria». 

Poiché i quattromila militari Usa rimasti in Iraq svolgono in prevalenza operazioni di sicurezza dentro e attorno alla sede diplomatica a Baghdad, Al Maliki vorrebbe da Obama più sostegno contro Al Qaeda ma l’assenza di accordi bilaterali sulle basi lo rende assai difficile. All’emergenza terrorismo bisogna sommare quanto sta avvenendo nel Kurdistan iracheno, dove il governo autonomo di Erbil ha siglato intese per la vendita diretta di greggio ad Ankara che sollevano forti obiezioni da Baghdad, dove Al Maliki teme la nascita di un’«"economia parallela e divergente da quella nazionale». 

La debolezza di Jalal Talabani, il presidente curdo dell’Iraq affetto da una grave malattia, priva Al Maliki del canale istituzionale finora servito per arginare il separatismo di Erbil, dove il leader locale Masud Barzani preme per accelerare le intese energetiche con Ankara, destinate ad includere anche il gas naturale. Il governo di Recep Tayyp Erdogan ha fretta di siglare l’intesa con il Kurdistan irachena perché, in ragione di prezzi e tariffe favorevoli, potrebbe ridurre il deficit commerciale nazionale di 5 miliardi di dollari entro il 2017 e il governo autonomo curdo vede nella sigla la possibilità di far leva sul potente vicino turco per rafforzare l’autonomia da Baghdad. Se a ciò si aggiunge che Ankara ed Erbil stanno lavorando da mesi alla realizzazione di un oleodotto curdo-turco non è difficile immaginare perché Al Maliki abbia chiesto a Obama di intervenire su Erdogan per frenare un’intesa energetica che rischia di innescare un pericoloso domino: non solo per l’accelerazione del distacco dei curdi iracheni da Baghdad ma anche per l’irritazione fra i leader delle tribù sunnite che sin dalla deposizione di Saddam rivendicano il controllo sull’area petrolifera di Mosul. 

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