Cosa sarà l’islam europeo

http://www.stefanoallievi.it/2008/11/cosa-sara-lislam-europeo/

S. ALLIEVI
 

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1. Clashes, encounters, feedbacks

A proposito di islam e occidente (identificando l’Europa con quest’ultimo) ritorna spesso, nel dibattito intellettuale, mediatico e politico, il richiamo alla tesi del clash of civilizations come chiave di lettura dominante. Poco ci interessa in questa sede ritornare sulla pertinenza di questa celebre definizione del politologo americano Samuel Huntington, molto citata e non altrettanto approfondita (come del resto il ponderoso volume dal medesimo titolo).
Quello che ci interessa qui è ragionare sulla sua fortuna. Non solo in occidente, ma anche in una parte importante del mondo islamico, dove un comune sentire di fatto ispirato a questa definizione si è dimostrato vincente e convincente, e manifesta i suoi effetti nel quotidiano e soprattutto nella sua rappresentazione. Quest’ultima, del resto, è decisiva.
Come ci insegna una delle poche definizioni che in sociologia abbia acquisito lo statuto di teorema – quello che viene chiamato teorema di Thomas, dal nome del sociologo americano, tra i fondatori della scuola di Chicago, che l’ha introdotta nel 1928 – se una cosa è percepita come reale, essa sarà reale nelle sue conseguenze; ovvero, non importa che una cosa sia vera: è sufficiente che sia creduta vera perché produca effetti reali. Così è anche del clash of civilizations e della sua popolarità, trasformatasi rapidamente in plausibilità, poi in descrizione con pretesa (talvolta esclusiva) di oggettività, e infine in quadro di riferimento interpretativo all’interno del quale collocare i fatti, e ancora prima – un aspetto molto importante e sottovalutato – selezionarli1.

In estrema sintesi, la visione huntingtoniana è riassumibile come segue: ci sono diverse civiltà, tra loro contrapposte. In passato si contendevano e conquistavano territori. Oggi che non c’è più terra da conquistare, le civiltà si scontrano tra loro, e aumentano i conflitti su base culturale e religiosa.
Huntington ha avuto ottime ragioni nel pronosticare l’evoluzione della realtà: ci sono, effettivamente, sempre più conflitti interpretati come aventi base culturale e religiosa, e letture o manipolazioni della realtà basate su questi presupposti2.
Il primo problema è che questa è solo una metà della realtà: si basa, per l’appunto, su una rigorosa selezione dei fatti – l’altra metà è infatti che, insieme agli scontri, sono aumentati anche gli incontri (come qualsiasi operatore economico sa per esperienza, e uno sguardo appena accennato a fenomeni come le globalizzazioni – non solo commerciali e finanziarie, ma delle stesse visioni del mondo –, il turismo di massa, le migrazioni o le evoluzioni e le direzioni prese dai media mostrerebbe con abbondanza di esempi).
Il secondo problema, legato al primo, è che se è corretta (per metà) l’evoluzione della malattia, di cui sono effettivamente verificabili molti sintomi (l’11 settembre è stato quello più decisivo nel rendere plausibile questo quadro interpretativo), essa è tuttavia fondata su una diagnosi errata. Non è perché sono separate e magari incompatibili che le civiltà (accettiamo per semplicità questa terminologia impropria) si scontrano: ma precisamente perché si incontrano sempre di più. Ed è precisamente l’aumentare degli incontri che produce anche un aumentare degli scontri e delle incomprensioni.
Se è vero che ci sono sempre più conflitti su base culturale e religiosa, non è perché civiltà separate si scontrano, ma perché civiltà sempre più interrelate si trovano a fare i conti l’una con l’altra (il che, naturalmente, non rende i conflitti meno dolorosi: ma li interpreta eventualmente come conseguenze spesso solo temporanee ma comprensibili e in certa misura inevitabili, di fronte ad una situazione nuova e non ancora spiegata in altra chiave, non ancora ‘normale’, o meglio normalizzata). Oltre tutto i conflitti non esplodono su qualche immaginaria terra di confine, in quei “conflitti di faglia” su cui il politologo americano si è a torto concentrato: ma negli stessi paesi, nelle stesse città, negli stessi condomini in cui non le civiltà, ma gli uomini e le donne che da esse provengono e con esse più o meno si identificano, si ritrovano a convivere.
Oltre ai clashes, inoltre, ci sono gli encounters (incontri), le interrelations (interrelazioni) e i feedbacks (retroazioni) che, nelle pagine che seguono cercheremo di approfondire, a proposito dei rapporti tra islam ed Europa.

2. Islam ed Europa: stadi di approssimazione

Non possiamo qui entrare nel dettaglio di processi storici lunghi e complessi, e tutt’altro che unilineari. Tenteremo tuttavia di riassumere in maniera necessariamente schematica quello che è in realtà un intero ciclo storico di rapporti tra islam ed Europa, al fine di sottolinearne le evoluzioni e soprattutto le tendenze.
Prima fase: islam ed Europa. In una lunga prima fase, durata per almeno i primi dieci secoli di storia dell’islam, che è quella di alcuni grandi conflitti del passato (elaborati come tali, peraltro, in tempi successivi) simboleggiabili dalle Crociate, abbiamo visto affrontarsi islam ed Europa (cristiana), che sono concepiti e si percepiscono come reciprocamente impermeabili ed autoreferenziali. Questo anche a dispetto della realtà e della storia, che ci mostra come permeabilità e scambi (di idee filosofiche, nozioni scientifiche, forme artistiche, ma anche economiche e commerciali) fossero più la norma che l’eccezione.
Seconda fase: l’Europa nell’islam. Nella seconda fase è stata l’Europa a penetrare profondamente nelle terre d’islam (il momento simbolico più forte di questa penetrazione può essere individuato nella spedizione napoleonica in Egitto, nel 1798): prima nell’età degli imperi e nel periodo della colonizzazione, quando ha dominato direttamente i paesi musulmani, e poi nella fase tuttora in corso dell’influenza “a distanza”, neo- o post-coloniale, che passa attraverso i processi di globalizzazione economica, la pervasività dei mass media e dei modelli di consumo occidentale, l’inglobamento progressivo del mondo musulmano nelle dinamiche economiche e nelle istituzioni politiche transnazionali.
Terza fase: l’islam in Europa. In una terza fase, più recente (che per la Francia, ad esempio, comincia già tra le due guerre mondiali, e nella maggior parte dei paesi europei nel periodo della ricostruzione post-bellica e poi del boom economico degli anni ’50 e ’60 nell’Europa del centro-nord, e ancora più tardi, dalla fine degli anni ’70 in avanti, nell’Europa del sud), comincia la presenza dell’islam in Europa, attraverso le migrazioni. È una fase caratterizzata ancora essenzialmente da immigrati di prima generazione. Le provenienze sono in questo caso inizialmente da paesi ex-colonizzati (algerini per la Francia, indopakistani per la Gran Bretagna), ma anche pianificate ex-novo (come nel caso dei turchi in Germania) e progressivamente si allargano con l’allargarsi del ventaglio dei paesi esportatori di manodopera a seguito della domanda europea.
Quarta fase: l’islam d’Europa. In una quarta fase vediamo attuarsi – attraverso un progressivo inserimento attraverso i processi di integrazione lavorativa in primo luogo, poi sociale e in qualche caso anche politica, e soprattutto attraverso il passaggio generazionale, che contribuisce al formarsi anche di una borghesia e di un’intellighenzia di origine islamica – la nascita e il consolidamento di un islam d’Europa. Non proveniente da fuori, quindi – seppure in rapporto con l’islam dei paesi d’origine – ma nato e socializzato in Europa, in essa formatosi e confrontatosi, e con essa costretto o stimolato a costruire la propria identità e il proprio spazio.
Quinta fase: l’islam europeo. Il seguito di questo processo dovrebbe essere il formarsi di un vero e proprio islam europeo, con una identità propria e marcata, diversa da quella ad esempio dell’islam arabo o di altri paesi e aree culturali di provenienza. Questo islam è e ancor più sarà caratterizzato dall’essere un prodotto autoctono europeo, in buona misura il frutto di un progressivo e sostanziale processo di cittadinizzazione dei musulmani residenti in Europa, in prospettiva nella pienezza dei diritti, a parità con gli altri europei, con cui condividere un destino comune. Di questa fase, per ora appena delineata, non è possibile dir molto, se non che i suoi esiti dipenderanno tanto dalle evoluzioni interne alle popolazioni e alle comunità musulmane, influenzate anche dalle dinamiche dell’islam globale, quanto e forse soprattutto dalle reazioni e dalle politiche adottate nei loro confronti dai governi dei singoli paesi europei, a loro volta influenzati dai loro partiti e dalle loro opinioni pubbliche. In una parola, dipenderà largamente da noi, dal nostro modo di affrontare il problema, dall’impostazione del dibattito sul tema, dalle nostre paure, dalle nostre visioni del mondo.
Oggi la maggior parte dei paesi europei si trova tra la terza e la quarta fase, anche se vi sono alcuni accenni di un inizio della quinta, che saranno più visibili nei prossimi anni e decenni. Va tenuto presente comunque che il ciclo continuamente ricomincia con i nuovi immigrati che mano a mano arrivano. E che le tendenze delineate sono appunto tali: tendenze maggioritarie, empiricamente verificabili, ma che non coinvolgono la totalità delle popolazioni musulmane, tra le quali sono e saranno evidenziabili anche resistenze a questi processi, controtendenze e posizioni differenziate, riscontrabili anche tra le seconde generazioni. Come tutti i fenomeni sociali, anche questi non sono generalizzabili, e hanno elementi di complessità, di contraddittorietà, di ambiguità.
Quello che è importante acquisire è che siamo usciti, fin d’ora, da quella contrapposizione descrittiva, che possiamo a questo punto riconoscere come una falsa alternativa, che vuole islam ed Europa come due corni di un dilemma irrisolvibile: oggi l’islam è in Europa, ed è qui per rimanerci, seppure progressivamente in forme diverse. È importante quindi vedere in quali forme.

3. Effetti dell’incontro sul suolo europeo

In Europa ci si incontra, e ci si mischia. Ordinariamente. Quotidianamente. Non è nemmeno questione di volontà: semplicemente accade. Dalla scuola al mondo del lavoro, dalla vita di quartiere ai consumi culturali, dalle attività commerciali e di consumo ai luoghi dello sport e del divertimento.
Si possono attuare molte strategie di resistenza, qualche volta con temporaneo successo: vanno in questa direzione i tentativi di alcuni leader delle popolazioni musulmane (e non solo musulmane) immigrate, e di una parte dei rappresentanti delle prime generazioni (la generazione dei padri, contrapposta a quella dei figli e delle figlie), di chiudersi in se stessi, in comunità-ghetto e quartieri separati, o le indicazioni e le opinioni di taluni imam importati dai paesi d’origine, che predicano la non commistione con i valori occidentali e la separatezza, nonché le pratiche sociali di talune famiglie, che tentano di proteggere i loro figli e soprattutto le loro figlie dal “contagio” occidentale, cercando di farli vivere all’interno di comunità chiuse o magari di rispedirli a proseguire gli studi o a sposarsi al paese d’origine o con parenti provenienti dal medesimo.
Si tratta di costi sociali talvolta soggettivamente tremendi e in qualche misura, tuttavia, inevitabili, che è possibile e doveroso cercare di ridurre, ma ai quali abbiamo assistito in tutti gli episodi d’incontro tra popolazioni e in tutti i fenomeni migratori, incluso nella storia delle migrazioni italiane all’estero. Semmai è importante imparare a interpretarli per quello che sono – forme di spaesamento e di disagio talvolta anche gravi, e che perciò è doveroso monitorare con attenzione (oltre tutto su base etnica e culturale, e in cui sono fattori determinanti anche il livello di istruzione, il provenire da ambienti rurali o urbani e la classe sociale, più che la religione in senso stretto) – e non per quello che molte letture mediatiche dicono che siano: espressioni a livello micro (locale) del clash of civilizations esistente a livello macro (globale).
Del resto, in questo processo pesano fortemente le paure, più reciproche di quel che immaginiamo. È difficile pensare di mischiarsi con chi, sul versante islamico, non lo vuole, o con chi, come accade spesso dal punto di vista della società d’accoglienza, non ti vuole e ti respinge, a costo d’accentuare le stesse tendenze che dice di voler combattere. Tuttavia, sono le premesse stesse del vivere occidentale, del vivere europeo, che portano nella direzione dell’incontro.
Da questo punto di vista, l’Europa costituisce un laboratorio eccezionale: libertà d’associazione e di manifestazione del pensiero, uguaglianza di diritti tra uomo e donna (e, nonostante le resistenze, col tempo s’impara a rispettarli e ad usarli più rapidamente del previsto3), situazione di concreta pluralità culturale e religiosa come norma di legge e come normalità sociale, elevati livelli di mixité (in molti sensi, di cui quello delle relazioni personali e di coppia non è che l’esempio più evidente), un’elaborazione intellettuale e teologica assai più libera che in molti paesi dell’islam d’origine, maggiori possibilità di emergere, per leadership intraprendenti e non convenzionali, sono altrettanti elementi che fanno dell’Europa non solamente territorio di sfida, ma anche di opportunità importante per tutto l’islam.
Un islam che in Europa vede attuarsi trasformazioni tanto rapide quanto radicali e persino spettacolari. Perché, innanzitutto, è plurale al suo interno: un musulmano – da qualunque paese, tradizione e scuola giuridica e interpretativa dell’islam provenga – si trova in Europa confrontato, all’interno della medesima moschea o di una qualche associazione, in ogni caso nei giochi plurali dei tentativi di rappresentanza e di visibilità nello spazio pubblico, con altre tradizioni, altre modalità di vivere, di praticare, di dire e di pensare quello stesso islam che credeva uno e scopre invece fortemente plurale, diviso, frammentato, internamente conflittuale. E questo accelera ulteriormente i processi di riflessività e di trasformazione interna.
Ma anche un islam che è e rimane in interazione e in interrelazione profonda con le sue terre d’origine, grazie all’esistenza di “comunità transnazionali”4 fortemente favorite dalla diminuzione del costo e delle difficoltà dei trasporti, con la possibilità di viaggi di ritorno più brevi e più frequenti, e dall’innovazione tecnologica (da internet alle tv satellitari, che, contrariamente a quel che si pensa, viaggiano nei due sensi: dai paesi musulmani alle minoranze islamiche in Europa, e viceversa) che consente l’identificazione permanente – quando la si vuole attivare, e non sempre lo si vuole, o solo a intermittenza – con sistemi culturali di riferimento ormai de-localizzati.
Questo insieme di fattori apre la possibilità di mantenere interrelazioni forti con la famiglia allargata e la cultura d’origine, ma anche di costruire percorsi individuali assai più movimentati che in passato, che dall’ethnic business alla politiche associative, dalle pratiche matrimoniali ai percorsi di studio, consentono flessibilità e diversità di orizzonti molto maggiori rispetto alle generazioni d’immigrati passate. E questo consente anche di praticare, talvolta di teorizzare, la possibilità e i benefici di un islam europeo sganciato dai legami etnici e tradizionali5.
A questi aspetti si aggiunge la constatazione, importantissima eppure sorprendentemente inosservata, che un musulmano d’Europa, già con le prime generazioni, e ancor più con le seconde (e terze, ecc.) è mediamente più alfabetizzato, più colto, con un reddito pro-capite più alto, con possibilità di scelta e con opportunità di inserimento maggiori rispetto al suo correligionario rimasto nel paese d’origine.
Questo vale per un pakistano in Gran Bretagna rispetto a un pakistano in Pakistan, per un turco in Germania rispetto a un turco in Turchia, per un algerino in Francia rispetto ad un algerino in Algeria, ma anche per un marocchino, un egiziano o un senegalese in Italia rispetto ai loro omologhi nei rispettivi paesi d’origine.
Non solo: questo stesso musulmano trapiantato in Europa ha a disposizione mezzi e possibilità di elaborazione culturale, di confronto teologico e di pratiche spirituali – e stiamo parlando solo di quelle interne all’islam, per non parlare di quelle che lo portano a contatto con altre tradizioni – molto maggiori di chi vive nella maggior parte dei paesi musulmani. Il che, insieme ai diritti di cui è comunque titolare, specie se cittadino (come è il caso, ad esempio, della maggior parte dei musulmani di Francia o di Gran Bretagna), e almeno quando è uscito dalla fase iniziale in cui prevale la necessità della soddisfazione dei bisogni primari, gli fa perdere abbastanza rapidamente – dal momento, almeno, in cui se ne rende conto – ogni e qualsiasi senso di inferiorità rispetto all’islam dei paesi d’origine, soprattutto a seguito del passaggio dalla prima alla seconda generazione.
Produce anzi, in molti casi, una sorta di fierezza per un islam de-etnicizzato, de-tradizionalizzato, slegato anche linguisticamente dall’islam d’origine, a torto o a ragione considerato come più puro, più strettamente religioso, che comincia ad esercitare un certo interesse, e un certo fascino, anche tra i musulmani, soprattutto giovani, che vivono in paesi islamici. Il fatto ad esempio che nei paesi di immigrazione, dalla seconda generazione in avanti, si legga sempre più spesso il Corano nella lingua del paese in cui si vive, fa sì che implicitamente si taglino i ponti con quattordici secoli di tradizione interpretativa disponibili solo in arabo.
Un fatto, questo, di cui solo pochi europei si sono accorti, che pochissima politica percepisce nel valore aggiunto di cui è portatore, che all’intellettualità e al giornalismo che discetta di islam per lo più sfugge, ma che pure è un fattore di lungo periodo che già sta cominciando a cambiare, e cambierà ulteriormente, gli equilibri religiosi, e in prospettiva geopolitici ed economici, tra l’islam europeo e quello dei paesi d’origine, e del mondo arabo in particolare. E di cui l’Europa potrebbe seriamente e intelligentemente beneficiare. Non solo per meglio integrare i suoi musulmani, ma per meglio e più profittevolmente rapportarsi con l’islam nel suo complesso.
Certo, sono processi più visibili, oggi, a Londra, a Parigi o a Berlino, che non a Milano, a Roma o a Napoli, ma che per l’Italia potrebbero avere conseguenze ancora maggiori, essendo essa strutturalmente collocata, per destino geografico, al centro di queste dinamiche, precisamente al centro di uno dei poli, quello Mediterraneo o Euromediterraneo, in cui si stanno ridefinendo gli equilibri multipolari del globo. Un polo – un’economia mondo, se si vuole – intrecciato in una stretta rete di interscambio commerciale e finanziario, di risorse energetiche, di migrazioni e di rimesse, di flussi turistici, di interessi potenzialmente comuni sul piano politico e strategico.
È la fine dell’atlantismo classico, che abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra alla fine del secolo, e quindi anche di una certa immagine dell’occidente; ma anche l’inizio di una nuova storia, che sarebbe meglio osservare con attenzione e assecondare. Nel nostro interesse, innanzitutto.
Perché questo significa tra l’altro una cosa particolarmente rilevante anche, e soprattutto, dal punto di vista dell’Europa non musulmana: il fatto che, venendo messi in questione gli attuali equilibri centro/periferia all’interno dell’umma (comunità) islamica, e facendo della periferia europea un nuovo centro, attraverso un significativo slittamento progressivo delle frontiere culturali, l’Europa diviene, o meglio diventerà progressivamente, una posta in gioco sempre più importante della geopolitica musulmana. E il Mediterraneo sarà uno dei luoghi elettivi di questi processi.

4. Percezione e realtà

Non abbiamo la possibilità di accennare nemmeno minimamente ai dati non solo demografici o economici, relativi alla presenza islamica in Europa, che ci limitiamo qui a dare per acquisiti6.
Quello che possiamo dire, riassumendo con uno slogan certo troppo sintetico le principali ricerche finora svolte, è che ci troviamo di fronte ad un processo d’integrazione sostanziale, ma di percezione conflittuale.
L’integrazione sostanziale è quella che vediamo nel mondo del lavoro, della scuola, in molti quartieri: ambiti in cui i dati relativi ai musulmani non sono dissimili da quelli di altri immigrati, anche europei, nel bene (presenza nel mercato del lavoro, imprenditoria etnica e non, contributo al PIL, ma anche alcuni indicatori più squisitamente sociali e culturali, e anche politici, laddove gli immigrati partecipano alla politica attiva e passiva) come nel male (elementi di marginalità sociale, dropouts scolastici, difficoltà di alfabetizzazione e apprendimento della lingua del paese ospitante, numero di persone al di sotto della soglia di povertà, morbilità specifiche, mortalità infantile, reati commessi e presenza nelle carceri, ecc.).
Quest’assimilabilità dei comportamenti nelle comunità immigrate significa che la variabile religiosa (e tanto meno la variabile specificamente islamica) non è necessariamente la più rilevante nell’indirizzare questi indicatori, ma lo sono piuttosto altre variabili: provenienza da alcuni specifici paesi, da ambiente rurale o urbano, livello di istruzione, classe sociale di appartenenza, nonché certe specificità legate alla situazione del paese d’inserimento: maggiore o minore presenza di irregolari, dimensione del mercato del lavoro in nero e dell’illegalità diffusa, leggi che favoriscono l’integrazione o producono invece esse stesse situazioni di irregolarità, pratiche sociali che favoriscono o meno la presenza e l’inserimento delle famiglie e dei minori, ecc.
Persino riguardo ad alcuni elementi di problematicità culturale, legati ad una concezione patriarcale e padronale del rapporto genitori figli o dei rapporti di genere, ai matrimoni forzati, non si riscontrano specificità gravi dei musulmani in quanto tali, ma semmai specificità di tipo etnico, indipendentemente dalla religione di riferimento – tanto che, ad esempio, in Gran Bretagna la questione dei matrimoni forzati ed anche alcune problematiche di genere vengono analizzate come problemi della popolazione Asian, includendovi musulmani, hindu e sikh, e spesso prescindono del resto da riferimenti religiosi (si pensi ad alcuni aspetti della vita interna delle comunità cinesi).
Le sole specificità islamiche evidenziabili, certamente di grande rilievo, riguardano da un lato alcune serie problematiche di diritto familiare (più che la poligamia, i ripudi e i tentativi d’appropriazione ( a volte penalmente rilevanti: si pensi a certe forme di kidnapping) e di rinvio della prole al paese d’origine da parte del genitore musulmano, di solito il padre, favoriti dalla legislazione, in particolare, di alcuni paesi arabi) e dall’altro, naturalmente, il fenomeno del fondamentalismo e del terrorismo islamico.
Problema enormemente serio, che le esplosioni nella stazione di Atocha a Madrid dell’11 marzo 2004 (191 morti, oltre 1.000 feriti, il più grande massacro in Europa dopo la strage di Lockerbie del 1989) e quelle nel sistema di trasporto pubblico londinese del 7 luglio 2005 (56 morti, inclusi 4 terroristi suicidi, e 700 feriti), nonché l’assassinio ad Amsterdam del regista Theo van Gogh il 2 novembre 2004, hanno reso di un’attualità terribilmente bruciante, tanto più dopo il crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Tuttavia non è lecito né sensato, né aiuta a comprendere i processi sociali in atto, far coincidere il fenomeno del terrorismo islamico transnazionale, pur presente e di cui è opportuno e necessario un controllo adeguato accompagnato da efficaci misure di prevenzione, con l’insieme della popolazione islamica in Europa (circa 15 milioni di persone, di cui probabilmente solo un terzo attiva in qualche modo i propri riferimenti religiosi, assimilabile quindi alla figura del praticante, e molti meno sono definibili attivisti).
La percezione conflittuale è quella che mostra il dibattito culturale (e sottoculturale) in una parte significativa dei media, del mondo politico, ma anche in parti importanti e certamente le ben visibili dell’establishment culturale e religioso europeo e italiano in particolare.
Si tratta di una percezione legata alla generalizzazione del caso eccezionale, ai conflitti sul velo e sui crocefissi, al fallacismo culturale e alle teorie del complotto sull’islamizzazione occulta dell’Europa, agli imprenditori politici della xenofobia e dell’islamofobia, alla polemiche intorno alla costruzione di moschee e sale di preghiera, alla storiografia “leggera” di rivisitazione dell’immaginario crociato (con ampie digressioni tra Poitiers e Lepanto), fino all’uso di un linguaggio colloquiale, a proposito dei musulmani e dell’islam, nel quale è facile ravvisare elementi di discriminazione che nel passato colpivano altre appartenenze religiose o culturali. Per rendersene conto sarebbe sufficiente sostituire la parola “musulmano” con la parola “ebreo” a molte frasi pronunciate quotidianamente da esponenti politici, giornalisti, intellettuali e talvolta persino esponenti religiosi: un esercizio che ci consentirebbe di percepire la serietà e la gravità di questi discorsi – che non costruiscono e non rappresentano necessariamente un comune sentire diffuso, ma sono purtuttavia la parte più spettacolarizzata e visibile del dibattito in materia.
Un linguaggio, delle azioni e degli attori sociali che trovano un contraltare anche più grave in alcuni leader e in certa pubblicistica religiosa islamica reazionaria, che descrive solo in negativo e spesso in termini morali e moralistici l’occidente (decadente, depravato…); nel vittimismo speculare al complottismo altrui; nell’antiebraismo carsico e diffuso, che oltrepassa i termini del conflitto israelopalestinese; nella chiusura bigotta di taluni imam e leader religiosi; nella complicità culturale rispetto al maschilismo e al patriarcalismo duri di alcuni padri di famiglia o pseudorappresentanti di comunità, che porta a una non sufficientemente esplicita condanna delle violenze perpetrate nel chiuso degli universi familiari e comunitari; nei messaggi obliqui di sostegno a cause di liberazione pur legittime, ma che si sostengono con mezzi non giustificabili e troppo poco esplicitamente condannati (pensiamo in particolare al terrorismo suicida in Palestina, Iraq e altrove); nella eccessiva facilità con cui in alcune realtà si lascia circolare un linguaggio e un immaginario bellico rispetto a certi aspetti del modello occidentale o a certe sue concrete e pur discutibili politiche; nella sufficienza con cui ci si scrollano di dosso le critiche relative ai rapporti di genere o alla legittimazione della violenza, troppo semplicisticamente derubricate ad islamofobia preconcetta. Ed altro ancora.
Da un lato quindi abbiamo quella che potremmo chiamare la normale realtà dell’immigrazione, nei suoi successi come nelle sue difficoltà (non diversa come abbiamo visto per musulmani e non musulmani); dall’altro l’eccezionalità della sua percezione, che non si ritrova in forme e modalità analoghe a proposito di altre immigrazioni, pure non meno “altre” rispetto alla storia europea.
È evidente che l’eccezionalità dell’interpretazione è sostenuta dai recenti attentati jihadisti che hanno colpito materialmente e psicologicamente l’occidente, ma è altrettanto vero che questo non spiega tutto.
L’interpretazione conflittuale della presenza islamica in Europa precede, infatti, l’11 settembre 2001 e gli altri eventi delittuosi citati, anche se da questo e dagli altri è stata evidentemente enormemente potenziata. È dunque un prodotto autoctono europeo (e americano) più di quanto siamo abituati a pensare, che deve certo qualcosa, ma certamente non tutto, al concreto agire dei musulmani, e in particolare dei musulmani in Europa
Per distaccarci da questa lettura di fatto conflittuale della presenza islamica in Europa, quella certamente più diffusa e mediatizzata, è quindi il caso di approfondire alcune dinamiche ed alcuni esempi di feedback che è possibile fin d’ora osservare ed analizzare, che contrastano questa lettura, ma soprattutto danno una centralità diversa all’islam europeo: non più solo tributario di opinioni e dinamiche costruite altrove, soggetto quindi ad influenze “estere” dei paesi d’origine, ma soggetto a sua volta attivo, produttore e non solo recettore di sviluppi di un certo interesse che potrebbero influenzare lo stesso islam d’origine.

5. Qualche esempio di interrelazione: i feedback e le loro conseguenze

In Europa, dove ci si sente più tutelati anche in quanto musulmani e dove vengono accolti molti leader politico-religiosi, ha luogo oggi una rielaborazione della shari’a da parte di intellettuali islamici, che implementa il pluralismo e la competizione tra le religioni e plasma le idee di molti musulmani europei, talvolta chiamati moderati, e che sono semplicemente coloro che rendono compatibile il riferimento all’islam con i principi fondamentali della democrazia occidentale7.
Questi ultimi (e tra loro importanti dirigenti economici e politici anche donne), rientrando al loro paese d’origine importano nuove idee all’interno dei loro tradizionali contesti sociali, influenzandone di conseguenza gli sviluppi politici e socio-culturali, spesso finanziando le organizzazioni promotrici di tali cambiamenti.
Infine, le modalità di partecipazione politica europea, come quella associativa (le reti waqf al-islam, o “proprietà dell’islam”) e quella sindacale, le richieste legate al ciclo produttivo ma originate da motivazioni religiose, o i community relations councils (organi consultivi), diventano sempre più spesso la base di partenza di impegni politici successivi a livello più elevato, rappresentando talvolta una fase di transizione alla vita politica nel proprio paese d’origine.
Questi feedback, messi in moto dall’unione della prassi islamica con la cultura europea, sono d’altra parte difficili da quantificare, a causa delle loro dinamiche tutt’altro che univoche, e dallo stato della ricerca in questo campo ancora in fase iniziale. È importante tuttavia sottolinearne l’importanza e la crescita, ai fini del nostro discorso. Verranno dunque indicate in seguito le forme che questi feedback stanno oggi cominciando a prendere.

5.1 Feedbacks socio-culturali

Sul piano culturale, innanzitutto. L’incontro tra pensiero islamico e libertà europee conduce ad un’elaborazione delle tradizioni d’origine sul territorio europeo che arricchisce il nostro capitale sociale e la nostra capacità di analizzare e comprendere la realtà. Non solamente la nostra realtà di ogni giorno, ma soprattutto quelle realtà che, sebbene i processi di globalizzazione abbiano condensato attorno a noi, continuano ad essere a noi estranee. Il plasmare e tradurre valori culturali e religiosi islamici crea così un ponte geopolitico tra visioni del mondo che coesistono all’interno degli scenari internazionali incontrandosi con difficoltà, scontrandosi con evidenza e comprendendosi con molta fatica.
L’avvicinarsi della civiltà europea e di quella islamica, ci si presenta con un insieme di opportunità impreviste, riflesse proprio nelle diversità degli attori: opportunità che minano, in molti modi, l’immaginario legato al clash of civilizations.
Infatti le minoranze musulmane presenti in Gran Bretagna, Spagna, Germania e Francia, e in tutta Europa, sembrano essere molto meno propense delle loro controparti al di là del Mediterraneo e del pubblico generale europeo a credere inevitabile il tanto temuto clash. E questo ad esempio uno dei risultati presentati da una recente ricerca del Pew Global Attitudes Project. Condotta a marzo 2006 in 13 paesi, la ricerca ha analizzato le visioni reciproche di musulmani e occidentali. Le sue conclusioni sottolineano come le opinioni dei musulmani europei si trovino più o meno a metà strada tra le percezioni degli europei sui musulmani nel resto mondo e quelle di questi ultimi sugli europei8.
I prossimi paragrafi analizzeranno dunque le opportunità nascoste dietro tali sviluppi quando essi vengono percepiti come un accrescimento strategico del capitale sociale europeo, e non come una minaccia interna.
Innanzitutto va sottolineato che il peso intellettuale dei musulmani in Europa è potenzialmente molto consistente. Londra, ad esempio, assieme a Parigi, è oggi uno dei principali centri intellettuali, culturali e mediatici del mondo arabo (come lo sono Berlino, Colonia e Francoforte rispetto alla Turchia). Basti pensare che nel 2004 sono stati pubblicati più libri in arabo in Gran Bretagna e Francia che nell’intero mondo musulmano9. Esiste una fertile produzione teologica islamica sul territorio europeo. Si pensi all’elaborazione proveniente dalle prime e seconde generazioni di intellettuali islamici, la cui personalità più conosciuta tra i non musulmani, ma lungi dall’essere la sola, è quella di Tariq Ramadan. E si pensi anche al tentativo di costruire un nuovo corpus d’interpretazione della legge islamica intrapreso dall’European Council for Fatwa and Research.
Diverse sono le iniziative che promuovono lo sviluppo di un islam aperto e moderno: progetti che l’Europa sta iniziando a sostenere. Vi è infatti una crescente consapevolezza, sia a livello europeo che a livello nazionale, di dovere appoggiare lo sviluppo di una nuova leadership musulmana nata e formata in Europa, visto che, ad oggi, ancora molti leader sociali arrivano da paesi terzi in età adulta, e derivano l’impostazione delle loro idee dalle loro società d’origine.
Collaborazioni tra università e comunità islamiche sono sempre più frequenti. Due esempi recenti sono la cattedra offerta in Teologia Islamica dall’Università di Münster, Germania, nel 2004, rivolta alla formazione degli imam; e il corso di lezioni in “Scienze religiose: Islam”, offerto all’Università Cattolica di Louvain a partire dal marzo 2007. E altri tentativi sono rinvenibili in altri paesi europei.
Infine ci sono anche iniziative private musulmane che in collaborazione con istituzioni pubbliche, come per esempio l’Islamic College for Advanced Studies (ICAS), riconosciuto dall’Università di Middlesex, Londra, e il Muslim College associato al Birbeck College, si aggiungono alle iniziative private islamiche autonome, a cominciare, sempre in Gran Bretagna, dall’Islamic Foundation di Leicester, ed altri luoghi di formazione specialistica in scienze islamiche in Francia, Olanda e altrove.
I frutti dell’elaborazione sulle questioni religiose nei centri europei dell’islam non rimangono confinati all’interno dell’Europa. La produzione di conoscenza e idee da parte di musulmani integrati all’interno di una sfera pubblica più libera della loro tradizionale ha ripercussioni anche nelle società d’origine grazie al consolidamento di spazi transnazionali avvenuto a seguito delle migrazioni, dello sviluppo delle comunicazioni, di internet e dei viaggi low-cost.
Nell’era della globalizzazione sono tanti i canali che permettono alle nuove idee di rientrare nelle società tradizionali islamiche e di iniziare a trasformarle dal basso. Tra i più evidenti c’è ovviamente internet. Nel cyberspazio i musulmani moderati hanno costruito un’arena di condivisione transnazionale. Molte organizzazioni utilizzano i siti web per propagare le proprie elaborazioni religiose: partendo anche dall’Europa (e dagli Stati Uniti) in direzione dei paesi musulmani.
L’influenza d’internet e della televisione satellitare è stata evidenziata da una ricerca sponsorizzata dalla rivista Prologue e dalla Fondazione King Abdelaziz per gli Studi Islamici e le scienze umane pubblicata a febbraio 2007. La ricerca mostra come in Marocco sempre di più la religione venga vissuta individualmente nella sfera privata dell’individuo e tra le fonti principali di conoscenza religiosa vi sia un ruolo sempre maggiore per i canali satellitari e soprattutto internet, mentre il ruolo delle istituzioni tradizionali come famiglia, scuola e moschea sembra non essere più quello di prima.
Un canale importante di collegamento tra Europa e paesi musulmani sono i knowledge networks che permettono il trasferimento di capitale intellettuale dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo. Almeno 41 knowledge networks sono stati rilevati nel mondo che collegano tra loro 30 paesi diversi e sono stati di provata rilevanza per lo sviluppo economico di molte industrie, il cui esempio più noto è l’industria del software in India, ma si manifestano in molti ambiti e in molti paesi (dalla Somalia all’Afghanistan, dall’Iran alla Turchia a molti paesi arabi), anche se spesso in forma meno visibile e strutturata.
Un ultimo canale di trasmissione culturale da sottolineare sono le iniziative finanziate dalla Commissione Europea come il programma Eumedis (Europe Mediterranean Information Society) e, al suo interno, il progetto Eumedconnect. Eumedis (65 milioni di Euro per il periodo 2000-2006), è il più grande programma mai intrapreso dalla Commissione Europea per lo sviluppo di una società informatica globale.
Eumedconnect, uno dei suoi progetti, ha creato il primo network nella regione del Mediterraneo e ha messo in relazione tra loro centri di formazione e ricerca europei con quelli dell’Algeria, dell’Egitto, della Giordania, del Marocco, della Palestina, della Siria e della Tunisia. I settori coinvolti sono: la salute, l’e-commerce, il turismo, i beni culturali, la ricerca applicata all’industria, l’educazione e lo sviluppo delle imprese. Progetti come questi comprendono la costruzione pianificata di reti regionali e costruiscono una comunità regionale di professionisti, studenti ed accademici, provenienti da diversi paesi ed istituzioni. I musulmani europei dovrebbero essere coinvolti negli sviluppi futuri di questi progetti, per sfruttare la loro strategica posizione culturale e religiosa, a metà tra un mondo e l’altro.
Altre opportunità di condivisione di idee e pratiche tra i musulmani residenti in Europa e quelli rimasti all’interno delle società tradizionali sono infine offerte oggi dal basso costo dei trasporti internazionali, come dimostrato da uno studio recente sui musulmani in Europa. Il 42% degl’intervistati dichiara infatti di tornare al paese d’origine a visitare la propria famiglia almeno una volta all’anno. In un altro studio, il 50% dei turchi residenti in Europa dichiara inoltre di tornare in patria anche per visitare località turistiche10.

5.2 Feedbacks economici

All’interno dello spazio transnazionale musulmano i legami interpersonali si mantengono dunque ancora molto forti. Tra questi legami i più evidenti sono rappresentati soprattutto dalle rimesse, che continuano ad influenzare la società del paese d’origine. I paesi musulmani sono tra i maggiori recipienti di rimesse nel mondo. Il Libano riceve 5 miliardi di dollari, pari al 26% del PIL; la Giordania 2,3 miliardi di dollari, 20% del PIL; lo Yemen 1,3 miliardi di dollari, 10% del PIL; il Marocco 4,2 miliardi di dollari, 9% del PIL; il Pakistan 3,9 miliardi di dollari, 4% del PIL; ed infine l’Egitto 3,3 miliardi di dollari, 4% del PIL11.
La maggior parte di queste rimesse rientra in patria attraverso networks sociali e familiari e ha un importante effetto volano per le economie locali, lo sviluppo di infrastrutture e lo sviluppo delle società tradizionali. Un esempio spesso citato è quello della regione del Rif in Marocco, dove investimenti in imprese medie e piccole, soprattutto nel settore delle costruzioni, hanno completamente trasformato il paesaggio. Negli ultimi anni in Marocco le rimesse dei migranti sono state investite nello sfruttamento di terreni agricoli attraverso tecnologie moderne, nell’espansione del settore turistico, e in piccole e medie imprese nel settore alimentare e di materiali da costruzione. I migranti hanno avuto anche un ruolo importante nello sviluppo della Borsa a Casablanca ed hanno investito infine anche nel settore dei trasporti pubblici.
Nel caso dei feedack economici, si osservano anche interessanti dinamiche che vedono beneficiare la stessa Europa da una crescente integrazione del mondo della finanza con le tradizioni islamiche. I tassi di crescita del risparmio islamico (78% l’aumento dei bond atteso per la fine del 2007, 20% quello dei depositi, 25% quello degli equity fund) hanno condotto molte istituzioni a muoversi per intercettare la liquidità dei petroldollari (che dovrebbe raggiungere 20mila miliardi di dollari in vent’anni). E oggi la Gran Bretagna, con ben tre banche islamiche, è ormai accreditata come il quarto hub mondiale del credito islamico, dopo Emirati Arabi, Bahrein e Malaysia.
Infine è da sottolineare inoltre che l’acquizione recente dell’Aston Martin è stata finanziata da due fondi islamici del Kuwait e che il Land tedesco della Sassonia-Anhalt, ha emesso un bond islamico da 100 milioni di dollari.12

5.3 Feedback politici

La nascita di una leadership musulmana europea produce inevitabili risvolti anche all’interno delle sfere politiche dei paesi al di là del Mediterraneo. Essa rappresenta la creazione di una forza politica strategica in grado da un lato di sfruttare la crescente dimensione religiosa delle relazioni internazionali, e dall’altro di influenzare dall’esterno lo sviluppo democratico di molti stati a rischio di diventare avamposti del fondamentalismo islamico.
Va tenuta presente inoltre la presenza in Europa di un numero significativo e influente di rifugiati politici musulmani, ovvero di persone che hanno trovato in Europa asilo politico e la possibilità di svolgere una attività politica religiosamente motivata e orientata, che nel paese d’origine non avevano potuto svolgere, subendo repressione e minacce13. Tali persone, a torto considerate di default come nemici dell’occidente da letture giornalistiche e da un dibattito politico superficiali, sono attori sociali che svolgono un ruolo decisivo di orientamento sia delle popolazioni musulmane in Europa che di quelle rimaste nei paesi d’origine, alle quali si rivolgono direttamente, essendo queste il loro orizzonte di riferimento potenziale, se l’obiettivo è un ritorno nel paese d’origine14.
La partecipazione al processo politico in Europa offre infatti a molti musulmani l’opportunità di una esperienza di formazione che può essere ricondotta al paese d’origine generando così impulsi positivi di sviluppo. La diaspora musulmana presente in Olanda può rappresentare un esempio di questa opportunità. Durante le elezioni locali del 7 marzo 2006, molti musulmani sono stati eletti nei consigli comunali e regionali con mandati di quattro anni. Alcuni di loro avevano già servito altri mandati quadriennali, acquisendo così una considerevole esperienza dei meccanismi della politica e della democrazia europea e la capacità di importare nei loro paesi di provenienza nuove idee e pratiche.
Come membri di partiti politici olandesi, questi politici si trovano in una posizione strategica che permette loro di costruire networks utili ai loro partiti politici originari, promuovendo potenzialmente in tal modo anche la trasparenza nei sistemi di governo nei paesi d’origine. Esempi di leadership sociali e politiche islamiche formatesi sul suolo europeo e ora attive nel paese d’origine si sono avute in maniera molto visibile nel caso dei turchi in Germania, ma anche in maniera meno evidente tra i maghrebini in Francia, così come tra senegalesi, somali e altri ancora.
Inoltre, ricollegandosi così anche all’importanza di internet, vanno menzionati i forum politici on line, strumenti di importanza significativa per la disseminazione di valori politici liberali e democratici, capaci di collegare le diverse forze politiche sia nei paesi d’origine che nella diaspora, e organizzare discussioni aperte e gruppi d’azione. I forum on line sono esempi tangibili di come i musulmani in Europa possano offrire un appoggio morale e pratico alle forze rimaste nei paesi d’origine a restaurare ordine e stabilità politica e sociale
Infine tra i futuri ruoli dei leader musulmani in Europa, ci sarà anche quello d’interagire con le loro controparti democratiche soprattutto nei paesi del Mediterraneo Meridionale. Le interazioni tra l’Europa e i musulmani democratici della regione mediterranea sono ancora infatti abbastanza deboli. Se il clash of civilizations dev’essere e può essere evitato, l’Europa deve trovare tutti i modi di aprire canali di comunicazione con i governi nel Mediterraneo e soprattutto con i musulmani democratici.
Tuttavia va specificato che non deve trattarsi della scelta di un interlocutore a proprio uso e consumo, docile e disponibile: i musulmani democratici non sono musulmani laicizzati che la pensano come noi, come spesso si tende a credere e conseguentemente si agisce, ma attori sociali e politici d’ispirazione islamica che perseguono i loro fini in base ai principi e ai valori della democrazia.
Sebbene questa strategia possa screziare le relazioni con diversi governi in carica nei paesi musulmani, l’Unione Europea deve iniziare un dialogo diretto con gli elementi democratici dei paesi musulmani, da un lato per riconoscerli come legittime forze politiche all’interno degli scenari internazionali, e dall’altro per ritrovare in loro un naturale alleato per avversare gli scontri culturalreligiosi che altre fazioni, in entrambe le regioni, sembrano tanto desiderare.
Intraprendendo un dialogo con loro, l’Unione Europea deve essere consapevole che i musulmani democratici nei paesi del Mediterraneo non si vedono come rappresentanti di specifici interessi economici, ma piuttosto sono orientati verso le questioni morali della loro società, orientamento che prende la forma di un vivo interesse nel campo dell’educazione, della cultura e dei media.
Per esempio tra il 2000 e il 2005 nel parlamento egiziano, i diciassette deputati dei Fratelli Musulmani hanno impegnato l’80% dei loro interventi a risolvere tali questioni, lasciando alle problematiche di politica economica, estera e alle questioni di sicurezza solamente il 20% del loro tempo.
Inoltre, pur non esprimendo profonde riserve sull’Europa, e restando sempre cauti per ciò che riguarda le interferenze europee su questioni socioculturali e religiose, essi hanno dimostrato di sapere ben poco delle politiche mediterranee dell’Europa: la Partnership Euromediterranea e le politiche europee di buon vicinato. La loro attenzione è stata catturata da altro. La guerra in Libano del 2006, la guerra civile in Iraq, il conflitto tra israeliani e palestinesi, e la questione iraniana hanno lasciato pressoché nell’ombra le politiche europee, che di conseguenza hanno avuto un impatto minimo sul territorio.
I musulmani democratici hanno dunque poche possibilità non solo di conoscere e valutare tali politiche, ma ancora meno di partecipare alla loro formulazione. Piuttosto che su basi empiriche, la loro opinione dell’Europa si fonda su percezioni generali facilmente manipolabili dai media. I leader musulmani europei, grazie alla loro naturale familiarità con il linguaggio politico islamico, possono riequilibrare questa asimmetria d’informazione che altrimenti renderebbe vano tale uso strategico del soft power.
In questa direzione si sono già percorsi alcuni passi, non sempre esenti da controversie, come per esempio l’affidamento di ruoli diplomatici a propri cittadini di religione islamica da parte di paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, così come l’inclusione sistematica di rappresentanti di rilievo delle popolazioni musulmane europee, come imprenditori e dirigenti associativi ma anche membri di partiti politici, nelle delegazioni commerciali ed economiche in paesi musulmani.

6. Conclusioni

È importante oggi, a fronte della propaganda diffusa e potente dei predicatori del clash di ambo le parti, sottolineare la molteplicità delle interrelazioni che la presenza islamica in Europa crea, produce e potenzia.
Gli effetti di feedback che abbiamo cercato di evidenziare, in particolare, hanno tra l’altro un importante effetto collaterale, che nasce come secondario ma si avvia a diventare di primaria importanza, anche e soprattutto dal punto di vista dell’Europa non musulmana: il fatto che, venendo messi in questione gli attuali equilibri centro/periferia all’interno della umma islamica, e facendo della periferia europea un nuovo centro, attraverso un significativo slittamento progressivo delle frontiere culturali, l’Europa diventerà progressivamente una posta in gioco sempre più importante della geopolitica musulmana.
Nello stesso tempo la presenza di popolazioni islamiche in Europa, intrecciando nuovi legami tra i paesi in cui vivono (che rappresentano il loro orizzonte di insediamento) e i loro paesi d’origine (che come abbiamo visto non rappresentano solamente il loro passato, ma anche un orizzonte di significato con una valenza attuale), può avere effetti benefici di lungo periodo anche per i vari paesi europei e per l’entità Europa in quanto tale, che cominciano del resto a far vedere i loro effetti negli ambiti più diversi: nelle relazioni commerciali, economiche e finanziarie, ovviamente, ma anche in ambiti di interesse strategico come gli approvvigionamenti di energia, la cooperazione nel controllo delle migrazioni e la stessa difesa dal terrorismo islamico transnazionale.
Più in generale, questa nuova situazione, se pensata, accompagnata e guidata, può avere effetti di rilievo anche nello stabilire un sistema di relazioni internazionali più efficace e giusto, dare un contributo originale allo sviluppo stesso del dialogo interreligioso, e in definitiva contribuire al processo di costruzione della pace almeno in quest’area del mondo.
D’ora in poi quindi non sarà più possibile, e non sarebbe del resto nell’interesse europeo, parlare di occidente e di Europa dimenticando la presenza e l’apporto dell’islam. L’immagine descritta sarebbe inesatta, imprecisa, incompleta. L’Europa ha ormai già al suo interno una significativa presenza islamica, che ne costituisce la principale minoranza religiosa non cristiana. La storia d’Europa sarà dunque, almeno in parte, anche storia islamica. E la storia dell’islam, anche storia europea.
I paragrafi da 1 a 4 e 6 sono stati elaborati da Stefano Allievi; il paragrafo 5 è stato curato da Elisabetta Gnudi.
1 Su questo tema, qualche riflessione introduttiva in S. Allievi, Le trappole dell’immaginario: islam e occidente, Udine, Forum, 2007.
2 Dal terrorismo islamico transnazionale al conflitto israelo-palestinese presentato oggi in questa chiave, dai conflitti interreligiosi nel sub-continente indiano alla persecuzione delle minoranze religiose in alcuni paesi islamici, dall’esplosione-implosione dell’ex-Jugoslavia e dei Balcani a certe letture occidentali del conflitto odierno con l’Iraq, e prima ancora con l’Afghanistan, fino alla percezione dei rapporti con le comunità immigrate in Europa. Anche se, da parte di chi propone questa chiave interpretativa, sarebbe opportuno esplicitare meglio il termine a quo: da quando, cioè, i conflitti religiosi sarebbero in aumento, e di quanto. E quanto essi siano frutto, invece, di una precisa e voluta selezione dei fatti, che tende a dimenticare: a) conflitti religiosi anche recenti ma precedenti all’emergere di questa tesi interpretativa (persino sul suolo europeo: si pensi a quello tra cattolici e protestanti in Irlanda, che peraltro si intrecciava, come ancora oggi altrove avviene, con questioni politiche, etniche, economiche, di potere); b) la continuità e la persistenza dei conflitti non su base religiosa (si pensi alla carneficina ruandese, a tante altre guerre tribali e post-coloniali, così come alle aggressioni imperialiste ‘classiche’ o a molti conflitti regionali); c) il fatto che spesso i conflitti, inclusi quelli più sanguinosi della storia, avvengano all’interno delle civiltà (dalle due guerre mondiali ai conflitti tra sunniti e sciiti) e spesso per motivazioni nazionalistiche, ideologiche e/o economiche.
3 A rispettarli perché ci si adatta, perché a partire dalle seconde generazioni e talvolta anche prima è semplicemente ovvio e normale, essendo i diritti di riferimento nel contesto in cui si vive; e ad usarli perché conviene. Non è per caso che le donne provenienti da paesi musulmani, magari appena arrivate e provenienti da strati sociali relativamente poco acculturati, si sposano magari islamicamente, sotto la spinta della famiglia e della comunità, ma poi, se si tratta di divorziare, vanno più volentieri dal giudice, per far tutelare i diritti loro e della prole, che non dall’imam. E’, anche questo, un modo fondamentale di appropriarsi dei principi di una società. Spesso, anche per gli autoctoni.
4 Su questo tema, si veda S. Allievi e J. Nielsen (a cura di), Muslim Networks and Transnational Communities in and across Europe, Leiden, Brill, 2003.
5 Su questi temi fondamentali si vedano, tra gli altri, J. Nielsen, Muslims in Western Europe, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1992, F. Dassetto, La construction de l’islam européen. Approche socio-anthropologique, Paris, L’Harmattan, 1996, S. Allievi, Musulmani d’occidente. Tendenze dell’islam europeo, Roma, Carocci, 2002, O. Roy, Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Milano, Feltrinelli, 2003, J. Cesari, When Islam and Democracy Meet: Muslims in Europe and in the United States, Palgrave, Macmillan, 2004, F. Dassetto, L’incontro complesso. Mondi occidentali e mondi islamici, Troina (EN), Città Aperta, 2004, J. Cesari, L’islam à l’epreuve de l’Occident, Paris, La Découverte, 2004, e molti studi che analizzano la situazione di singoli paesi europei.
6 Rinviamo per questo alla non cospicua letteratura di analisi e di ricerca empirica (diverso è il caso per la letteratura di dibattito di idee e polemica, al contrario molto diffusa) reperibile, con pochi esempi tuttavia in lingua italiana. La più ampia ricerca finora uscita sulla presenza islamica in Europa, commissionata dall’Unione Europea, che ha visto coinvolto un ampio pool di specialisti di tutti i paesi dell’Unione, inclusi quelli che vi sarebbero entrati solo successivamente, è quella contenuta in B. Maréchal, S. Allievi, F. Dassetto, J. Nielsen (a cura di), Muslims in the Enlarged Europe. Religion and Society, Leiden, Brill, 2003 (vincitore, tra l’altro, del riconoscimento di “Outstanding Academic Title – The Best of the Best in Published Scholarship” dell’American Library Association). Su di essa si basa ampiamente anche l’importante e recentissimo (maggio 2007) rapporto al Parlamento Europeo intitolato Islam in the European Union: What’s at stake in the Future?, accessibile su http://www.europarl.europa.eu/activities/expert/e.Studies.do?language=EN.
7 Non useremo qui l’espressione musulmano moderato, che nel linguaggio politico italiano ha assunto spesso una connotazione ambigua, circoscritta ai musulmani che “la pensano come noi”: che, possibilmente, attivano in maniera discreta se non invisibile, comunque individuale e non comunitaria, il riferimento alla religione, meglio se in maniera laicizzata, culturale e non esplicitamente religiosa, e possibilmente critica con le altre componenti musulmane che non rinunciano ad un riferimento esplicito a principi islamici magari discutibili ma diffusi (dal considerare un obbligo il velo all’attivismo nella costruzione di moschee, passando per la solidarietà con la causa palestinese e la critica alla politica estera occidentale in Medio Oriente), e tacciate per questo di rappresentare un islam radicale. Tale espressione, così intesa, impedisce di cogliere la complessità della presenza islamica nel nostro paese, che comprende entrambe le posizioni citate e quelle intermedie alle due, nessuna delle quali è considerabile illegittima né di per sé radicale (rappresentano semplicemente il pluralismo interno a tutte le confessioni religiose, fatto di posizioni rigorose e di prassi spesso tiepide), almeno fintanto che non viene espressa in maniera radicale e polemica. E, in questo senso, sono spesso radicali anche talune posizioni etichettate come moderate…
8 The Great Divide: How Westerners and Muslims view each other , Pew Global Attitude Project, June 2006. I paesi della ricerca: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Turchia, Russia, Giordania, Egitto, Nigeria, Pakistan, India, Indonesia.
9 “Islam in Europe, Poltical & Security issues for Europe; implications for the United States” workshop, CAN Corporation’s Center for Strategic Studies, January 14, 2005.
10 Euro-Turks: a bridge or a breach between Europe and Turkey, CEPS, Brussels, 24/1/2005
11 “Global Economic Prospects: Economic Implications of Remittances and Migration”, The World Bank, Washington D.C, 2006
12 “E’ boom di bond e fondi islamici”, M. Cappellini, Il Sole 24 Ore, 04/12/2007
13 Spesso provenendo da paesi solo cosmeticamente democratici, in cui esistono elezioni ma non una libera attività politica, negata in particolare precisamente ai partiti islamisti, critici nei confronti di questi regimi.
14 Un aspetto, questo, che a una diplomazia europea accorta dovrebbe stare a cuore. Non è raro che gli esuli di oggi possano essere i governanti di domani, specie nel caso di regimi autoritari (anche se magari sostenuti dall’occidente), che si reggono sulla forza, e per questo nel lungo periodo traballanti, soggetti a rivolgimenti e trasformazioni.
ALLIEVI S. (2008). Cosa sarà l’islam europeo. In: OSSERVATORIO SCENARI STRATEGICI E DI SICUREZZA. Nomos & Khaos. Rapporto Nomisma 2007 sulle prospettive economico-strategiche. (pp. 127-147). ISBN: 97888611400955. ROMA: Agra. (con E. Gnudi). A R e R/I

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