Islamismo politico e primavera araba: il fallimento della politica attendista statunitense in Medio Oriente

Di seguito una rielaborazione del saggio "Islamism, the Arab Spring, and the failure of America’s do-nothing policy in the Middle East" (Shadi Hamid, ottobre 2015, Brookings, centro studi di orientamento democratico, USA) - a cura di Ali Reza Jalali - in cui emerge da un lato una insoddisfazione per l'approccio "poco interventista" di Obama in Medio Oriente, soprattutto a sostegno dell'Islam politico moderato, dopo gli eventi della primavera araba, e dall'altro l'ammissione della poca adattabilità dell'Islam politico arabo alla gestione della cosa pubblica. 






Negli anni precedenti alla primavera araba, i partiti islamici hanno sviluppato una sorta di ossessione per il ruolo delle potenze occidentali nel sostenere (o non sostenere) la democrazia nel mondo arabo. Gli islamisti stavano combattendo su due fronti: non solo contro i regimi repressivi, ma anche contro i loro sostenitori internazionali. I fantasmi dell'Algeria erano manifesti. Nel gennaio del 1992, il più grande partito islamista algerino, il Fronte Islamico di Salvezza (FIS), si è trovato sull'orlo di una storica vittoria elettorale, annullata dall'intervento dei militari per riportare ordine nel paese, scongiurando l'ascesa dell'islamismo politico locale. 

Dopo quell'evento, in tutto il mondo arabo, i partiti islamisti, consci anche del fatto che gli occidentali sembravano prediligere lo status quo militarista, hanno cercato di venire a patti col potere, evitando, quasi di proposito, di vincere le elezioni per scongiurare un nuovo caos algerino. 

Era meglio aspettare, e così hanno fatto.

La tattica attendista degli islamisti del mondo arabo, si è dissolta con la primavera araba, non perché tali movimenti avessero voluto un ruolo principale, ma perché il vuoto di potere gli ha quasi costretti all'azione. Con quali risultati? La situazione, alla fine, non è stata dissimile dall'Algeria del 1992. Dall'Egitto alla Siria infatti, la galassia del principale movimento islamista, la Fratellanza Musulmana, è stata respinta con la forza militare dei regimi al potere. 

La Fratellanza, alla prova dei fatti, è stata abbandonata dagli occidentali, che si sono rifugiati in un silenzio totale e nell'inerzia. In questi casi, soprattutto per una grande potenza come quella americana, il confine tra inerzia e complicità, vista l'assurdità del concetto di neutralità per un grande paese influente come gli USA, è veramente labile. 

Prima, durante e dopo la primavera araba, una cosa è rimasta costante nel Medio Oriente: l'influenza fuori misura delle potenze esterne. Quando gli Stati Uniti preferiscono restare disimpegnati, gli altri si muovono per riempire il vuoto.

Quando iniziarono i disordini in Tunisia nel 2010, gli USA hanno detto di non voler intromettersi e di non volere prendere le parti di nessuno. Dopo Ben Ali è fuggito il 14 gennaio 2011, rifugiandosi in Arabia Saudita, allora l'amministrazione Obama ha rapidamente adattato la propria posizione, esprimendo il suo sostegno alla rivoluzione. 

Gli Stati Uniti potrebbero sicuramente vivere senza il regime tunisino, ma potrebbe vivere senza un fedele alleato come Hosni Mubarak in Egitto, un avversario tenace dell'Iran e un sostenitore convinto del processo di pace arabo-israeliano? Certo che no.


Fin dall'inizio, c'era la tentazione di sottovalutare l'importanza delle potenze straniere nella primavera araba. Ma da subito il tutto è stato smentito; gli attori internazionali hanno influenzato la prima fase della primavera araba e, in molti paesi, come in Libia, Yemen e Siria, l'occidentale e le potenze regionali del Golfo persico hanno giocato un ruolo significativo e decisivo. In Bahrain si metteva in moto la macchina militare saudita, in Libia quella occidentale (principalmente inglese e francese) e cosi via.  


Dopo il golpe egiziano del 2014, gli occidentali e gli USA, nonostante dovessero sospendere gli aiuti economici all'Egitto per via del mancato processo di democratizzazione, hanno continuato a intrattenere le proprie relazioni col paese arabo e hanno sostenuto l'importanza del ruolo dei militari per la stabilità dell'Egitto, decidendo quindi, in linea con lo spirito del 1992 in Algeria, di lasciare al proprio destino la Fratellanza Musulmana.  


Il relativo silenzio dell'America non era casuale. Per offrire una forte, coerente risposta alle uccisioni degli avversari di Al Sissi, ci sarebbe voluta una strategia, che avrebbe richiesto il coinvolgimento diretto americano.  

Ma Obama non voleva ciò, egli ha preferito attendere e dare spazio ai paesi della regione.


Durante il mandato di Morsi, il Qatar è diventato il più grande donatore straniero in Egitto, con oltre $ 5 miliardi (con la Turchia che ha contribuito per altri $ 2000000000). Pochi giorni dopo che i militari si sono mossi contro Morsi, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, e il Kuwait hanno promesso un aiuto di 12000000000 $ per il nuovo governo.



Il problema dei paesi arabi in generale è una eccessiva dipendenza economica dei regimi dall'estero. Chiunque vada al potere è vincolato economicamente da aiuti dall'estero. Ed è per questo che Morsi, tutto sommato, nonostante qualche piccolo cambiamento, non si è discostato molto dalla politica estera di Mubarak; in fondo i suoi modelli erano il Qatar e la Turchia, paesi legati militarmente con gli occidentali. 


Alla fine, visto che con gli islamisti poco è cambiato rispetto all'epoca dei militari, e visto che il caos regionale poteva danneggiare molti, si è preferito nuovamente lasciare da parte i propositi di democratizzazione per tornare al paradigma del sostegno ai militari autoritari. 

L'unico modello mediorientale stabile che riesce a coniugare l'alleanza con gli occidentali, la democrazia e l'Islam politico sembra essere ancora la Turchia. 

Per il resto, nel mondo arabo, il processo di democratizzazione rischia ancora di favorire le fazioni islamiste che, al contrario della Turchia, non sembrano avere la maturità per andare al governo e garantire la pace sociale. Il leader degli islamisti algerini del 1992 disse che la vittoria è più difficile da gestire rispetto alla sconfitta: il caso della Fratellanza egiziana sembra dargli ancora una volta ragione. 

Tutto ciò dimostra come la politica di Obama di voler imprimere un processo di democratizzazione indigeno e non eterodiretto come ai tempi di Bush, all'area islamica, è fallita, sia per l'eccessivo attendismo americano, sia per l'assenza di forze islamiche popolari, mature e democratiche nei paesi arabi. 



http://www.brookings.edu/blogs/markaz/posts/2015/10/14-islamism-and-us-policy-middle-east-hamid

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