Considerazioni riguardo alle rivolte nel mondo arabo

Considerazioni riguardo alle rivolte nel mondo arabo


Ali Reza Jalali


Ormai siamo a quasi due anni dall’inizio di quello che i media occidentali, seguiti da quelli arabi, hanno chiamato “primavera araba”. Inizialmente alcuni intellettuali in Europa interpretarono le ribellioni scoppiate in alcuni Paesi dell’Africa settentrionale e dell’Asia Sud-occidentale come sommosse caratterizzate dalla volontà dei popoli arabi di una migliore condizione sociale ed economica.

Si diceva ad esempio che, il popolo algerino, in quanto l’Algeria fu il primo Paese, insieme alla Tunisia, a vedere manifestazioni contro il governo in modo massiccio, si era ribellato per via del prezzo del pane salito alle stelle; oppure si disse che i tunisini protestano perché, pur essendo mediamente e rispetto ai popoli dell’area, abbastanza istruiti, non trovano un lavoro adatto agli studi compiuti. Emblematico al riguardo la vicenda di quel giovane tunisino, laureato e venditore ambulante, che per via dei soprusi della polizia, come forma estrema di protesta, decise di darsi fuoco, provocando una reazione a catena e grandi sommosse in tutto il Paese e soprattutto a Tunisi. L’evolversi delle vicende e l’allargarsi delle ribellioni a macchia d’olio in diversi Paesi, come l’Egitto, la Libia, la Giordania, il Bahrain, lo Yemen e altri ancora, ha però smentito queste analisi superficiali. Allora, aggiustando il tiro, molti commentatori, soprattutto in Occidente dissero che queste in realtà sono rivolte contro la dittatura e l’autocrazia; in pratica, gli arabi si sarebbero stufati di presidenti e “rais” che gestiscono il potere politico per tutta la vita, trasformando di fatto la repubblica in qualcosa di simile ad una monarchia ereditaria, in quanto, non solo un presidente in carica rimane al suo posto finché non muore, ma a succedergli spesso è il figlio, in perfetta linea con lo stile delle monarchie, sia assolute che costituzionali. Ma anche questa interpretazione ha degli evidenti limiti, in quanto nel mondo arabo, secondo gli standard delle democrazie liberali, le monarchie propriamente dette sono molto più repressive e reazionarie delle repubbliche.

Potremmo fare innumerevoli esempi, ma qui basterà confrontare in modo rapido e superficiale la Repubblica Araba di Siria con il Regno dell’Arabia Saudita. La nostra analisi quindi si baserà sui quegli stessi canoni reputati corretti dalla cultura occidentale di stampo liberaldemocratico e illuministico. In Siria esiste a tutti gli effetti una tripartizione del potere tra esecutivo (governo bicefalo guidato dal tandem presidente-premier), potere legislativo (parlamento) e magistratura. In Arabia Saudita invece non esiste alcuna tripartizione e nessun “bilanciamento dei poteri”, concetti tanto cari al pensiero liberale, ma solo un Re padre padrone, che addirittura nomina un Consiglio dei Ministri, questi ultimi tutti legati al sovrano da un legame di sangue e di parentela. Alcuni studiosi, scherzando sulla questione, dissero che in Arabia Saudita il Consiglio dei Ministri si riunisce quando c’è una riunione di famiglia.


Inoltre il parlamento siriano è eletto dal corpo elettorale a suffragio universale, ed esercita in tutto e per tutto le funzioni di potere legislativo. In Arabia Saudita invece non esiste nemmeno un parlamento vero e proprio che eserciti il potere legislativo; quella sorta di “Camera” composta prevalentemente da persone “vicine” al Re, esercita semplicemente una funzione consultiva e non legifera un bel niente. La Repubblica Araba di Siria può essere considerata come uno Stato laico, anche se alcuni studiosi non la considerano tale, visto che la Costituzione siriana dispone apertamente che il presidente della Repubblica deve essere di religione islamica, ma per via del ruolo importante nelle istituzioni siriane del partito socialista arabo (Baath), di impostazione nazionalista, la vita pubblica siriana ne ha risentito in senso secolare, e non è un caso che il principale gruppo di opposizione al governo sia la fratellanza musulmana, di chiara estrazione islamista.

Se sorgono dubbi sulla laicità dello Stato siriano però, non ve ne sono circa la matrice teocratica e massimalista del regime saudita, governato da persone vicine all’ideologia wahabita, famosa come la più estremista tra le scuole islamiche. Il livello di fanatismo in quel regime è talmente elevato che su circa due milioni di chilometri quadrati di superficie non c’è nemmeno una chiesa cristiana, quando in Siria, storicamente, pur essendo un Paese a maggioranza schiacciante musulmana, i cristiani hanno sempre vissuto bene e sono rispettati dalle istituzioni, addirittura riescono ad accedere a ruoli importanti come la dirigenza di taluni Ministeri. Non parliamo poi del ruolo delle donne nelle due società: in Siria vi sono donne parlamentari e anche Ministri, in Arabia Saudita tutto ciò è fantascienza allo stato puro. Addirittura nel XXI secolo, le donne saudite non hanno ancora esercitato il diritto di voto, sottolineando comunque che l’unico tipo di elezione esistente in Arabia è, a parte quelle riguardanti gli amministratori di condominio, quelle dei consigli locali, visto che, come detto prima, il “parlamento consultivo” è nominato dal Re. Le donne poi, ancora oggi, in Arabia Saudita, non hanno il diritto di guidare l’automobile e una donna al volante viene considerata una pericolosa eversiva, e quindi viene punita dalla polizia religiosa.

Quindi, volendo tirare le somme di questo breve studio comparato, se ipotizzassimo che nel mondo arabo è in atto un processo di democratizzazione, la Siria sarebbe a buon punto, mentre l’Arabia Saudita sarebbe nel novero dei Paesi medievali. Magari la Siria, sempre in base agli standard occidentali, non sarebbe la Francia o la Gran Bretagna (ovviamente anche su questi Paesi ci sarebbero tante cose da dire, sempre usando come metro di giudizio i canoni del liberalismo), ma in paragone al regime saudita può essere considerata senza esagerazioni il “paradiso in terra”. Ma allora perché i media occidentali parlano così tanto delle rivolte in Siria, e non dicono nulla del ruolo controrivoluzionario dell’Arabia Saudita nella regione e nella Penisola araba in particolare? Se le rivolte nel mondo arabo sono finalizzate alla lotta contro la dittatura e all’instaurazione di democrazie “presentabili” per l’Occidente, perché della repressione operata dal regime saudita contro i propri cittadini e non solo, non si dice nulla? Vi sono stati negli ultimi anni centinaia, se non migliaia di morti tra Yemen, Arabia Saudita e Bahrain, per via delle dirette ingerenze del regime saudita, eppure tutto ciò sembra non esistere e la maggioranza assoluta degli analisti e dei commentatori occidentali puntano il dito contro il “sanguinario regime siriano”.


Ma se ci spostiamo nel mondo arabo e cerchiamo di vedere una visuale diversa, la cosa drammatica è che le opinioni degli occidentali e degli analisti arabi spesso combaciano. Per cui etichette approssimative come “primavera araba”, sono state immediatamente recepite dal mondo arabo. La rivoluzione tunisina è diventata allora la “rivoluzione dei gelsomini”, sia per gli occidentali che per gli arabi. Già il nome dato a questa rivolta ha dei tratti inquietanti, facendola assomigliare, almeno dal punto di vista lessicale alle rivoluzioni “colorate” di ucraina e georgiana memoria, per non parlare del movimento “verde” in Iran.

Ovviamente chi scrive non pensa che la rivolta tunisina sia equiparabile a ciò che avvenne nello spazio dell’ex URSS o in Iran negli ultimi anni, ma ciò che inquieta è la leggerezza con la quale una certa “casta” intellettuale del mondo arabo, riconducibile principalmente a media come Al Arabya e Al Jazeera, segua senza se e senza ma le direttive degli occidentali. La cosa più triste in assoluto però è che certi fenomeni, come l’attuale attacco terroristico alla Siria, siano letti in modo ancora più radicale di certi ambienti conservatori dell’Europa e degli USA. La Siria, volenti o nolenti, è stato l’unico grande Paese arabo confinante con la Palestina occupata, a non accettare alcun trattato di pace coi sionisti; la Siria è l’unico grande Paese arabo tra quelli confinanti con la Palestina occupata a non ospitare sul proprio suolo una ambasciata legata al regime di Tel Aviv. Senza il sostegno siriano alla resistenza libanese nel 2006 e alla resistenza palestinese nel 2008-2009, le vittorie del fronte antimperialista del mondo islamico non sarebbero stati possibili. Dove erano Arabia Saudita e Qatar, per non dire della Giordania, quando le squadre sioniste invadevano Gaza? Che ruolo ha avuto il regime saudita ai tempi dell’invasione sionista del Libano nell’estate del 2006? Forse a Riad erano distratti dai mondiali di calcio in Germania? Uno dei pochi Paesi arabi a non dimenticarsi dell’oppresso popolo palestinese, sunnita e arabo, era proprio la Siria del presidente Assad.

Certi intellettuali arabi, invece di sostenere chi sostiene la causa per la liberazione di Gerusalemme, oggi sono schierati di fatto, accanto ai regimi più reazionari del Vicino Oriente, per non dire dell’alleanza approssimativa e “sui generis” di taluni islamisti col mondo occidentale “democratico” e “liberale”; l’attacco terroristico alla Siria, rappresenta una dimostrazione palese di come ancora oggi nel mondo arabo non esiste una linea rivoluzionaria chiara, e che spesso, quando c’è da fare una scelta di campo, la decisione presa invece di aiutare la liberazione della regione dal colonialismo straniero, è sempre funzionale ai piani dell’egemonia imperialista. Queste considerazioni portano necessariamente a delle conclusioni, che al momento possono essere sintetizzate nel seguente modo:

1- La matrice delle rivolte nel mondo arabo è da riscontrare da un lato nella volontà dei popoli della regione all’emancipazione dall’influenza colonialista; ciò è stato visibile in modo chiaro quando gli egiziani hanno attaccato e momentaneamente occupato l’ambasciata di Tel Aviv al Cairo, costringendo il personale diplomatico ad una “ritirata strategica” dalla capitale egiziana.


D’altro canto non possiamo negare la volontà e la speranza di alcuni settori della società ad una vita materiale migliore e a maggiore giustizia sociale, visto che, sempre per rimanere all’Egitto, una parte consistente della popolazione vive nel disagio più assoluto.

2- Se da un lato la gente sembra aver capito, anche se in modo ancora confuso, la via da seguire, la propaganda mediatica proveniente dalla Penisola araba, interessata a prorogare in altre forme l’egemonia americana e sionista nella regione, tende a confondere ulteriormente le idee al popolo. Senza dimenticare poi la pochezza della classe dirigente della “rivoluzione”, divisa al proprio interno e senza idee chiare sull’ideologia da seguire e su chi e come debba prendersi la responsabilità di guidare le masse oppresse arabe. Fino a qui, a parte qualche eccezione, abbiamo potuto apprezzare, principalmente in contesti come Yemen e Libia, più che una rivoluzione, un “colpo di Stato” di una parte del vecchio regime contro altri esponenti del regime stesso. Emblematico al riguardo il caso dello Yemen, nel quale fino a qui a cavalcare le proteste è stato addirittura uno dei più stretti collaboratori dell’ex dittatore Ali Abdullah Saleh. Lo stesso dicasi per la Libia, dove i leader della rivolta, a un certo punto erano diventati persone come l’ex Ministro della Giustizia e l’ex vice di Gheddafi. Ciò dimostra l’incapacità della “vera” opposizione a trovare dei leader adatti per portare avanti il processo rivoluzionario.

3- Vi sono poi due Paesi nei quali le rivolte hanno preso delle forme particolari, ovvero Siria e Bahrain. Nel primo caso come abbiamo detto in precedenza, siamo dinnanzi ad un attacco orchestrato dall’esterno, come ha chiaramente detto uno dei leader storici di Hamas (questo gruppo sembra avere degli orientamenti molto diversi al proprio interno), ovvero Al Zahhar. In Siria, ha detto apertamente il politico palestinese, non c’è nessuna rivoluzione.


Anche se i media arabi e occidentali vorrebbero evidentemente far credere il contrario. Tutto il progetto antisiriano è finalizzato alla caduta dell’”anello d’oro” dell’Asse della Resistenza che lega l’Iran ai resistenti antisionisti in Libano e Palestina. Questo è chiaramente un progetto ordito dagli USA e dall’Occidente per far riprendere fiato a Tel Aviv ed evitare il collasso del sogno sionista della “Grande Israele”. In Bahrain poi, c’è in corso una rivolta antiregime basata su principi chiaramente antimperialisti che mettono in pericolo la permanenza in questo piccolo, ma fondamentale Paese per gli equilibri del “cuore” energetico del mondo, ovvero il Golfo Persico, di una base americana che ospita una flotta dell’esercito a stelle e strisce. La rivolta in Bahrain è stata fino a qui repressa per via dell’occupazione militare saudita e nei media, sia occidentali che arabi, vi è una totale censura di questi fatti, a dimostrazione di come in Bahrain si stia giocando una partita fondamentale.

4- Infine possiamo dare anche un giudizio sul ruolo degli attori principali fuori dal mondo arabo: da un lato abbiamo un asse NATO-Israele, che cerca in tutti i modi, e sfruttando principalmente il prestigio acquisito negli ultimi anni nel mondo arabo dalla dirigenza turca, di modificare il corso degli eventi a proprio vantaggio, cercando, attraverso una politica “camaleontica”, di cambiare tutto, senza cambiare nulla. Insomma il progetto è il seguente. I regimi collaborazionisti in Paesi come Egitto, Yemen, Tunisia ecc. devono essere rimpiazzati da altri regimi, a prescindere dall’orientamento ideologico, laico o islamista che sia, che si muovano nel solco tracciato dagli americani e dai sionisti. Questo progetto per essere compiuto ha bisogno della collaborazione della Turchia, per via del prestigio accennato prima, ottenuto grazie a delle prese di posizione apparentemente antisioniste e filoiraniane negli ultimi anni, anche se poi nei fatti, Ankara è rimasta nella NATO e l’ambasciata israeliana nel suolo turco c’è ancora. I soldi per questo piano molto dispendioso devono arrivare dalla Penisola araba, visto che le casse occidentali, per via della crisi economica, sono al momento, se non prosciugate, almeno ridimensionate. D’altro canto, si sta stabilizzando un’altra alleanza tattica, che vede in prima linea l’Iran, ma ha altri attori importanti tra le proprie fila, ovvero la Russia, e successivamente la Cina. Questa alleanza, che potremmo definire “eurasiatica”, cerca in primo luogo di difendere il governo siriano dagli attacchi dell’asse NATO-Israele, e soprattutto l’Iran, sta cercando di tenere contatti costruttivi con l’Egitto, anche se la dirigenza della Fratellanza musulmana, capeggiata dal presidente Morsi, ha fatto capire di non gradire, per usare un eufemismo, la permanenza di Assad a Damasco. Bisogna però in questo contesto notare una evoluzione interessante delle ultime settimane. Era diffusa tra molti analisti, l’idea che la salita al potere della Fratellanza in Egitto avrebbe favorito la Turchia, per via dell’affinità ideologica tra persone come Morsi e l’islamico moderato e conservatore AKP di Erdogan.


Oggi però vediamo che, nell’approccio alla crisi siriana, Ankara e Il Cairo, hanno idee diverse. La Turchia, almeno fino a qualche tempo fa, non disdegnava di un intervento militare della NATO, come si è visto all’indomani del caccia turco abbattuto dai siriani. L’Egitto però fino ad oggi ha sempre rifiutato l’intervento bellico straniero, e si è adoperato per costituire una sorta di gruppo di contatto regionale, per dirimere in modo diplomatico la crisi siriana. Sembra che l’Egitto non voglia allinearsi totalmente ad Ankara, per preservare uno spazio autonomo di trattativa, soprattutto con l’Iran.

La dirigenza egiziana sembra quindi orientata verso il ripristino di un ruolo importante nel mondo arabo-sunnita, al di fuori della sfera d’influenza turca; ovviamente dire che l’Egitto di oggi diventerà nel breve periodo quello che era al tempo di Nasser, sarebbe un errore, ma il solo fatto che Morsi cerchi di smarcarsi dalla “tutela” turca, è una cosa da non sottovalutare, che potrebbe rompere le uova nel paniere a Erdogan e ai suoi piani “neo-ottomani”. Infatti, se nel mondo sciita la leadership iraniana è indiscutibile, nel mondo sunnita, Paesi come Turchia, Egitto e Arabia Saudita si giocano la leadership, e soprattutto per via della storia di Paesi importanti nella regione, come Egitto e Turchia, in prospettiva, è difficile pensare che uno di questi possa andare a finire sotto la tutela dell’altro.

tratto da:
http://europeanphoenix.it/component/content/article/8-internazionale-/398-considerazioni-riguardo-alle-rivolte-nel-mondo-arabo

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