le-scelte-di-posizione-di-hamas-e-il-processo-di-pace-israelo-palestinese


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Pierfrancesco Cardalesi
La nascita di Hamas risale al periodo della Prima Intifada, quando la rivolta che divampa nei Territori conferisce ai movimenti islamici palestinesi nuovo slancio; il Movimento Islamico di Resistenza (Harakat Muqawwama al Islamiyya), tuttavia, costituisce anche l’ apice di una lenta opera di conquista degli spazi religiosi, politici, sociali ed economici posta in essere dai Fratelli Musulmani in Palestina e, in primis, nella Striscia di Gaza. Architetto ed artefice di tale progetto è lo sceicco Ahmed Yassin che nel 1973 realizza una moschea in una delle aree più povere della Palestina: nel corso degli anni alla moschea si aggiungerà un ospedale, un centro sportivo, un asilo, un centro per donne ed adolescenti, un salone per i festival islamici ed un ufficio per la zakat, la donazione che, secondo le prescrizioni dell’Islam, è dovuta ai poveri; il Centro Islamico di Gaza, di fatto, rappresenta un’importante esemplificazione della penetrazione di Hamas nel tessuto palestinese, fornendo anche un’ indicazione, non esaustiva, delle molteplici attività a favore della popolazione palestinese fornite nei Territori dal Movimento.
Il periodo della Prima Intifada, tuttavia, è anche il periodo in cui muta rapidamente il quadro di riferimento mediorientale: nell’agosto del 1988, infatti, termina la guerra tra Iran ed Iraq e, l’ anno successivo, muore l’Ayatollah Khomeini; stremato dalla guerra e politicamente isolato, Rafsanjani pone al primo punto della sua agenda politica la ricostruzione economica ed infrastrutturale del paese e, allo scopo di superare l’isolamento internazionale, apre a Occidente e a numerosi regimi arabi attraverso un’attenta moderazione delle posizioni ideologiche tenute da Khomeini.
Quando la variopinta coalizione internazionale formata da trentaquattro paesi, Israele escluso, lancia l’operazione Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein, la Repubblica Islamica mantiene un’atteggiamento neutrale astenendosi dal fomentare la dissidenza interna della componente sciita della popolazione irachena; una volta conclusasi la Seconda Guerra del Golfo, tuttavia, appare chiaro ai più che l’Iran può elevarsi a potenza regionale di prim’ordine in competizione, e confronto, con un Iraq indebolito ed uno Stato d’Israele sempre più isolato in un contesto regionale ostile.
A partire dal 1993 gli Stati Uniti d’America varano la ben nota Dual Containment Policy avente come scopo dichiarato quello di controllare e contenere Iran ed Iraq rinunciando a fomentare ogni possibile contrapposizione tra i due Stati; Washington, di fatto, priva la Repubblica Islamica del ruolo di potenza regionale che le spetterebbe favorendo l’ascesa mediorientale dello Stato d’Israele. La doppia politica adottata dagli Stati Uniti in Medio Oriente, tuttavia, produce un effetto non previsto dal Dipartimento di Stato nordamericano in un momento in cui, dietro pressione dell’amministrazione Clinton, riprendono i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi; l’Iran, infatti, si pone a capo di una coalizione contraria al processo di pace che pone alla base del suo modus operandi il finanziamento di organizzazioni ostili ad Israele tra le quali la libanese Hezbollah e le palestinesi Hamas e Jihad Islamica.
Questa apertura dell’Iran verso Hamas rende possibile la realizzazione di un vero e proprio asse che lega per oltre un ventennio la Repubblica Islamica alla Siria, al partito di Dio libanese e ad Hamas; si tratta di un asse composito in cui, in nome della resistenza e della lotta contro lo Stato d’Israele, l’islamismo sunnita si legherà a quello sciita giungendo compatto, senza soluzione di continuità, fino ai giorni dello scoppio della rivolta che attualmente divampa in Siria.
Allo scoppio della rivolta siriana il governo di Damasco ha chiesto ufficialmente ad Hamas di illustrare le posizioni del Movimento circa la situazione interna siriana; i portavoce del Movimento hanno chiarito al governo di Bashar al-Asad che l’alleanza di Hamas nei confronti della Siria ha come scopo la politica d’opposizione ad Israele piuttosto che la repressione degl’insorti siriani. In conclusione Hamas ha rilasciato un comunicato ufficiale in cui dichiarava la propria neutralità in merito alla querelle siriana suscitando l’irritazione di Damasco e del suo alleato iraniano.
Il 2011, tuttavia, ha mostrato quanto potesse essere difficile una permanenza di Hamas, o meglio del suo braccio politico, proprio a Damasco; la repressione del regime alawita in Siria, di fatto, ha colpito la maggioranza sunnita presente sul territorio siriano e, quando nell’ agosto del 2011 gli shabbiha fedeli al clan alawita e le divisioni regolari dell’esercito siriano hanno bombardato i quartieri palestinesi nel porto di Latakia, la polizia di Hamas ha dovuto soffocare in modo deciso le proteste spontanee levatesi per le vie di Gaza dimostrando quanto l’alleanza tra il Movimento e Damasco fosse precaria.
Le prime avvisaglie della rottura dell’innaturale immobilismo di Hamas in merito alla questione siriana si sono registrate sul finire del 2011 quando Khaled Qaddumi, rappresentante di Hamas a Teheran, ha affermato che «…il popolo siriano ha posto esigenze che sono state riconosciute dal governo» aggiungendo inoltre la necessità di realizzare «…riforme in Siria come in ogni altra parte del mondo».
Nello stesso periodo Khaled Meshaal, leader dell’ufficio politico di Hamas all’estero, ha varato una vera e propria manovra di avvicinamento del Movimento nei confronti della monarchia giordana e del principe Tamim bin Hamad Al Thani, erede al trono dell’emiro del Qatar ed alleato degli Stati Uniti d’America e di Israele.
A marzo 2012, ancora, due importanti membri dell’ufficio politico di Hamas, Ahmed Yousef e Salah al Bardawil, hanno rilasciato dichiarazioni in cui affermavano che il Movimento non sarebbe intervenuto nel caso in cui Israele avesse deciso di attaccare l’Iran astenendosi dall’effettuare azioni ostili, ivi compreso il lancio di missili Qassam, contro insediamenti e città israeliane. Pochi giorni prima Ismail Haniyeh aveva tenuto al Cairo un discorso in cui salutava «…l’ eroico popolo di Siria, che lotta per la libertà, la democrazia e le riforme»; secondo The Telegraph il discorso tenuto il 24 febbraio presso la moschea al-Azhar al Cairo ha mostrato la volontà di Hamas di rompere vecchie alleanze riconquistando posizioni ormai perdute all’interno del mondo arabo e, in particolare, nei confronti della Fratellanza Musulmana in Egitto.
Le dichiarazioni provenienti da questi importanti leader di Hamas, di fatto, hanno fatto pensare ad un vero e proprio riposizionamento strategico del Movimento che, così facendo, ha dimostrato di volersi divincolare dall’abbraccio sciita inaugurando una nuova fase di dialogo nei confronti di regimi arabi “moderati” quali l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait e l’Egitto riallineandosi, proprio nell’ambito di quest’ultima repubblica araba, alle posizioni tenute dai Fratelli Musulmani, trionfatori nelle elezioni presidenziali del giugno 2012.
Le posizioni assunte da Khaled Meshaal, dunque, potrebbero portare Hamas verso una nuova era riposizionando il Movimento nel panorama delle alleanze mediorientali e del processo di pace tra israeliani e palestinesi; per comprendere, tuttavia, quanto le posizioni di Meshaal impegnino Hamas e siano condivise dal vertice e dalla base del Movimento è indispensabile fare un rapido cenno alla struttura stessa di Hamas.
Nei primi anni di vita il Movimento appare come un solido soggetto strutturato attorno alla figura di Ahmed Yassin; le decisioni di interesse strategico vengono assunte all’interno di Hamas non secondo criteri verticistici ma attraverso una vera e propria sintesi tra le diverse posizioni espresse dai quattro centri decisionali interni al Movimento rappresentati dalle circoscrizioni di Gaza, della Cisgiordania, dell’estero e dei dirigenti di Hamas detenuti presso le prigioni israeliane.
Una volta prese, tali decisioni diventano vincolanti per tutti gli appartenenti ad Hamas, ivi compresi quelli che hanno espresso parere contrario alle stesse; questo meccanismo, di fatto, cristallizza le discussioni e le critiche all’interno del Movimento rendendo impossibile ogni forma di fuga del dissenso e della contestazione verso l’ esterno.
Gli anni in cui Yassin è alla guida di Hamas vedono prevalere il concetto di resistenza nella scelta dicotomica tra questa e la politica e, in nome di tale scelta, esperimenti politici particolarmente interessanti come quello di Al Khalas, braccio politico di Hamas, sono lasciati cadere volutamente nell’oblio.
Dopo l’assassinio di Yassin da parte di Israele diversi leader moderati di Hamas, quasi tutti coinvolti nell’esperienza politica di Al Khalas, spendono le proprie energie nel tentativo di inserire in un’agenda politica tutta da definire tematiche mai affrontate all’interno di Hamas; istanze quali la possibilità di una tregua nei confronti di Israele e la riconciliazione con Fath si aprono la strada, pur con difficoltà, nel dibattito interno al Movimento. Queste tematiche, conseguentemente, vengono metabolizzate in modo diverso dalle variegate anime presenti all’interno del Movimento caratterizzato, per sua stessa natura, da importanti divisioni interne; si tratta di divisioni che, tuttavia, non possono essere ascritte alla tipica dicotomia centro/periferia che, di fatto, caratterizza molte organizzazioni simili ad Hamas.
Una prima importante divisione riguarda la leadership dell’interno, nell’ambito della quale Ismail Haniyeh e Mahmoud al-Zahar rappresentano due esponenti di primo piano, e la leadership all’estero, il più prestigioso esponente dei quali è Khaled Meshaal.
Altra importante divisione, forse quella dai connotati più prossimi alla citata dicotomia centro/periferia, è quella che caratterizza le due anime di Hamas presenti nella Striscia di Gaza ed in Cisgiordania; le modalità di cooptazione scelte da Hamas sono completamente differenti nell’ambito delle due aree palestinesi: nella Striscia di Gaza prevale una cooptazione di tipo identitario, perlopiù legata ai sentimenti di nazionalismo palestinese. In Cisgiordania, invece, prevale una cooptazione di tipo clanico/clientelare che ha accentuato particolarmente i suoi caratteri a seguito dell’ennesima occupazione dei Territori da parte dell’esercito israeliano nel corso della Seconda Intifada, fattore questo che ha determinato un’elevata segmentazione ed enclavizzazione della popolazione palestinese stanziata ad est della Green Line.
Ultima importante divisione, infine, è quella che vede contrapposto il braccio politico di Hamas al braccio militare, costituito dalle Brigate del Martire Izz al-Din al-Qassam; quest’ultima divisione ci riporta alla variabile dicotomica utilizzata in apertura che vede contrapposte le istanze politica/resistenza ed è intimamente collegata all’ anima stessa di Hamas che, per sua natura, è un movimento islamico di resistenza.
Le divisioni interne ad Hamas hanno subito un’accentuazione a partire dall’estate del 2007, ovvero da quando il Movimento ha assunto il controllo integrale della Striscia di Gaza; la gestione del territorio della Striscia, di fatto, ha provocato un vero e proprio consolidamento delle posizioni della leadership di Gaza ai danni dei centri di potere di Hamas presenti in Cisgiordania e, soprattutto, all’estero. Le costanti frizioni tra Khaled Meshaal e la dirigenza di Gaza, di fatto, oltre ad alimentare la tendenza bipolare di Hamas potrebbero spingere Meshaal, secondo quanto ipotizzato da fonti vicine all’intelligence israeliana ed egiziana, ad abbandonare il Movimento; tutto ciò risulterebbe ancora più probabile se venissero confermati rumors che conducono proprio ad Ismail Haniyeh ed a Mahmoud al-Zahar.
Secondo tali fonti Haniyeh avrebbe sottoscritto un’accordo con Teheran in virtù del quale Hamas si impegna a compiere azioni contro lo Stato d’Israele qualora questo decida di attaccare l’Iran; in beffa alla linea politica adottata da Khaled Meshaal nel tentativo di allontanarsi dalla Repubblica Islamica portando Hamas fuori dall’asse sciita, Haniyeh avrebbe firmato un accordo che assicurerebbe ad Hamas ingenti forniture di armi provenienti da Teheran, il dispiegamento di una cellula iraniana nella Striscia di Gaza allo scopo di addestrare la polizia di Hamas e l’invio di militanti delle Brigate Izz al-Din al-Qassam in Iran.
Se Meshaal decidesse di lasciare Hamas le probabilità che venga sostituito nell’incarico da Mahmoud al-Zahar, l’artefice materiale dell’accordo tra Hamas e l’Iran, sono particolarmente elevate; tra i dirigenti della leadership di Gaza, al-Zahar è quello che nutre un odio mai sopito nei confronti dello Stato d’Israele e scaturito dall’uccisione del figlio Hussam, a seguito di un raid aereo israeliano a Gaza il 5 gennaio 2008. Eloquente, a tal proposito, il commento del leader di Hamas in merito alla questione del drone di Hezbollah; in un seminario tenutosi il 13 ottobre nella Striscia di Gaza, al-Zahar ha dichiarato che «…Hezbollah, come sempre, conduce contro il nemico sionista una battaglia che non è soltanto militare ma anche politica e psicologica ed è in questo senso che bisogna interpretare il lancio del drone: un evento di portata storica che segnerà profondamente la leadership sionista, che ora sa di non essere più invulnerabile». Al-Zahar, infine, ha chiuso il suo discorso invitando Hamas a prepararsi all’ ipotesi di un nuovo intervento israeliano contro Gaza, materializzatosi poi nell’Operazione Cloud Pillar; a tale scopo ha esortato Hamas a perfezionare la preparazione militare delle sue brigate di combattenti accettando l’offerta iraniana di addestrare i miliziani appartenenti alle Brigate al-Qassam.
Nei giorni precedenti al lancio dell’Operazione Cloud Pillar alcuni elementi della contrapposizione tra Hamas e lo Stato d’Israele facevano pensare al lancio di un’offensiva israeliana contro Gaza; la Striscia, di fatto, era divenuta il teatro di quotidiani lanci verso Israele di missili Qassam e Fajr da parte dei militanti delle brigate Izz al-Din al-Qassam e della Jihad islamica; la scarsa capacità mostrata dall’Iron Dome nel contrastare gli attacchi, tutti portati a termine a mezzo di razzi a breve gittata ed a bassa quota, avevano costretto lo Stato d’ Israele a riaprire i vecchi bunker che, nel corso del 1991, ospitarono la popolazione israeliana minacciata dalla deterrenza missilistica irachena. L’improvvisa vulnerabilità israeliana nel proteggere i centri abitati di Gerusalemme, Tel-Aviv e le strutture nucleari di Dimona e la minaccia alla propria supremazia aerea sui cieli di Gaza perpetrata attraverso l’impiego di missili terra-aria a spalla SA-7 da parte di miliziani vicini ad Hezbollah ed alla Jihad Islamica hanno suggerito ad Israele un’escalation militare che, nonostante la dichiarata capacità israeliana di condurre attacchi selettivi su obiettivi individuati dalle forze di intelligence, ha prodotto in soli sette giorni 164 vittime tra i palestinesi e 5 tra gli israeliani.
Il lancio dell’Operazione Cloud Pillar ha distolto le critiche rivolte dalla base del Movimento in direzione di Khaled Meshaal anche se, di fatto, restano le accuse rivolte al politico palestinese di aver tradito la causa della resistenza e di essersi schierato con gli emiri sunniti del petrolio ponendosi in una posizione di pura subordinazione rispetto ad Al Thani. Un coro di polemiche si è levato contro Meshaal quando questi ha dichiarato pubblicamente che Hamas ha fallito nel coniugare resistenza e governo di Gaza; i principali addebiti che sono stati mossi al leader del braccio politico all’estero di Hamas hanno riguardato proprio la sua lontananza da Gaza che, secondo i più, non gli consentirebbe di analizzare criticamente la situazione sul territorio. Voltando le spalle all’ Iran, alla Siria, ad Hezbollah ed alla resistenza libanese Meshaal avrebbe voltato le spalle a chi, da decenni, resiste contro lo Stato d’Israele, contro gli Stati Uniti d’America e gli alleati arabi dell’Occidente tradendo, di fatto, la natura resistente di Hamas.
Il riposizionamento di Hamas voluto da Khaled Meshaal è stato il prodotto di scelte difficili e dolorose che hanno contribuito ad accentuare le fratture interne tra la leadership di Gaza e l’ufficio politico all’estero del Movimento. Le prime importanti frizioni tra le due anime di Hamas si sono registrate a seguito degli accordi di Doha stretti tra Khaled Meshaal e Mahmud Abbas; tali accordi, relativi alla formazione di un governo palestinese di unità nazionale, hanno avuto come conseguenza diretta il sacrificio della carica di Ismail Haniyeh quale Primo Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese nella Striscia di Gaza. La successiva estromissione di Khaled Meshaal dalla gestione finanziaria di Hamas ha acutizzato tale frattura favorendo uno sbilanciamento nella leadership di Hamas a favore della dirigenza di Gaza.
Attualmente rimangono ancora importanti dubbi in merito alla scelta di posizione operata da Khaled Meshaal; l’isolamento internazionale del Movimento, l’impossibilità di accedere ai fondi internazionali stanziati a favore della Palestina e l’innaturale linea di neutralità tenuta da Hamas nel corso della crisi siriana possono aver giocato un ruolo di primo piano nell’influenzare il leader dell’ufficio politico all’estero, anche se appare ormai chiaro che un ruolo non secondario nell’ambito di tali decisioni sia stato svolto dal Qatar, intraprendente emirato del Golfo già finanziatore dei Fratelli Musulmani e di movimenti affini presenti in Siria, Egitto, Libia e Tunisia.
Nel caso in cui Khaled Meshaal decida di fare un passo indietro abbandonando la direzione di Hamas non è certo che l’avvicendamento al vertice comprometta, riguardo ai rapporti con Fath, il percorso individuato dai citati accordi di conciliazione sottoscritti da Meshaal ed Mahmoud Abbas il 3 maggio 2011; l’altra faccia della medaglia, tuttavia, potrebbe svelare una compromissione di tali accordi tenuto conto che lo stesso al-Zahar ha più volte affermato che Doha rappresenta un errore e che, prima della sua sottoscrizione, Khaled Meshaal ha evitato di consultare la dirigenza di Gaza.
L’uscita di Meshaal da Hamas avvicinerebbe nuovamente il Movimento all’Iran, alla Siria e ad Hezbollah provocando, sul versante opposto, un nuovo allontanamento di Hamas dai Fratelli Musulmani e dalla leadership egiziana; tale fattore potrebbe portare ad una ridefinizione degli accordi relativi al Valico di Rafah. Quella di Rafah rappresenta una questione di estrema importanza tenuto conto che da questa importante porta sotterranea posta tra Sinai e Striscia di Gaza raggiungono il territorio palestinese beni di prima necessità, tra i quali cibo e medicine; per lo più si tratta di beni di contrabbando la cui vendita è gestita da clan beduini presenti nel Sinai ma, di fatto, necessari ad una popolazione spesso vittima di rigidi embarghi.
Le sorti di Hamas influenzeranno non poco il processo di pace israelo-palestinese; il Movimento, infatti, occupa posizioni importanti in seno all’Autorità Nazionale Palestinese ed il riflesso di tali posizioni nella politica palestinese condiziona e condizionerà importanti parametri degli accordi siglati tra le due parti da Camp David in poi. Occorre ricordare, infatti, che la politica del disimpegno israeliana in Cisgiordania si articola sulla realizzazione della security fence, la barriera di sicurezza realizzata con decisione unilaterale da Israele ad est della Green Line, e su una militarizzazione, più o meno marcata, della Valle del Giordano mediante il dispiegamento di unità dello Tsahal; l’intensità e la portata di tale dispiegamento saranno direttamente influenzate dalle politiche condotte da Hamas nella Striscia di Gaza ed in seno all’Autorità Nazionale Palestinese.
La situazione sul territorio, tuttavia, sembra proprio andare contro ogni possibile ripresa del tracciato di pace delineato dal Quartetto; da un lato vi sono gli esiti dell’Operazione Cloud Pillar che, con l’ elevato numero di vittime causato tra la popolazione civile, ha contribuito ad acuire la contrapposizione tra la popolazione araba moderata e lo Stato d’Israele che, agli occhi della prima, è sempre più visto come una potenza egemone in grado di utilizzare in modo spregiudicato il potente apparato militare di cui dispone. Dall’altro vi è la controversa politica israeliana adottata in materia di insediamenti ebraici e, più in generale, le politiche intraprese da Israele nei Territori, non ultima la controversia relativa allo sfruttamento da parte palestinese delle risorse di gas naturale presenti nelle acque antistanti la Striscia di Gaza; questi fattori possono contribuire ad erigere un’ invalicabile barriera in grado di contrastare la ripresa e la definizione di un processo di pace che porti a conseguenze tangibili.
Sullo sfondo si agita la questione relativa alla promozione dell’Autorità Nazionale Palestinese, il 29 novembre, a Stato non membro osservatore da parte delle Nazioni Unite; sul piano formale la decisione presa dall’Assemblea Generale rappresenta un vero e proprio riconoscimento dello Stato palestinese. Tale particolare situazione potrebbe favorire la stessa Hamas che, di fatto, potrebbe capitalizzare i vantaggi del nuovo status palestinese e sfruttare la vicinanza politica dei Fratelli Musulmani egiziani.
L’uscita di scena di Khaled Meshaal, concludendo, potrebbe avere un effetto dirompente negli equilibri tra Hamas e Fath in un momento in cui il conflitto israelo-palestinese vive una sua nuova stagione ed Israele, la cui sindrome di accerchiamento è stata acutizzata dalla decisione presa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre, potrebbe decidere di percorrere la strada di un nuovo conflitto regionale; da questo punto di vista la ripresa degli insediamenti ebraici nei Territori conferma la volontà israeliana di mostrare i muscoli ad una comunità internazionale rea di aver assecondato le richieste provenienti da Ramallah.

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