Chi resiste è destinato a soffrire







Questi giorni ha fatto scalpore a livello internazionale la vicenda del detenuto Georges Abdallah, militante arabo cristiano, da anni ormai incarcerato in Francia per questioni legate a fatti concernenti la lotta, sia in Libano ai tempi dell’invasione militare israeliana, sia per alcune vicende riguardanti certe attività di Abdallah in Francia. In ogni caso, per diverso tempo si è parlato di una sua possibile liberazione, e del suo rientro in Libano. Ciò era accaduto anche qualche anno fa, quando il tribunale di applicazione delle pene di Parigi aveva rifiutato la domanda di libertà condizionale del libanese Georges Ibrahim Abdallah, condannato nel 1987 a reclusione criminale a vita per l’assassinio di due diplomatici in Francia, come appreso da fonti giudiziarie. Questa decisione fu considerata conforme alla posizione della procura espressa il 17 settembre del 2007. Il tribunale in quell’occasione aveva giudicato insufficienti le garanzie di reinserimento del fondatore delle Frazioni armate rivoluzionarie libanesi (FARL) che doveva essere espulso verso il Libano in caso di scarcerazione, poiché aveva ricevuto, con la sua condanna, un’interdizione definitiva dal territorio francese.
Incarcerato a Lannemezan (Alti-Pirenei), Georges Ibrahim Abdallah si era già visto rifiutare il suo rilascio nel settembre 2005. Proprio nel 2005, al momento di una precedente domanda di liberazione di Georges, il procuratore responsabile del procedimento aveva dichiarato: “Abdallah è un comunista… Fa addirittura degli scioperi della fame in sostegno ai prigionieri palestinesi, arriva addirittura a proclamare che l’Intifada vivrà… E dopo ventidue anni di prigione, se ritorna a Beirut, per la popolazione dei quartieri poveri, sarà un martire… è insopportabile! Questo è ciò che ci rimprovereranno gli americani e gli israeliani, ed ecco perché, signor Presidente, la vostra decisione è politica…”. Qualche anno dopo si erano pronunciati anche i servizi di sicurezza francesi sul caso, in particolare quelli della “Direction de la Surveillance du Territoire”. Essi, in una nota al giudice detto “anti-terrorista”, dissero apertamente: “In ragione dell’implicazione della Francia in Libano, del suo sostegno al governo libanese e soprattutto della presenza militare francese nella UNIFIL, è possibile che Georges Ibrahim Abdallah usi la sua influenza su dei movimenti estremisti per agire contro gli interessi francesi.” Ciò dimostra che la vicenda di Georges è una questione prettamente politica e non giuridica, come dovrebbe essere, in uno Stato di diritto.
La Francia, patria del pensiero illuminista, sembra in preda ad uno stato di imbarbarimento, non solo per la vicenda di questo militante libanese, ma anche per le ultime questioni legate all’interventismo di Parigi in alcuni scenari di guerra, dall’attacco quasi unilaterale, almeno inizialmente, alla Libia, guerra che ha causato migliaia di morti e che ha gettato il Paese nordafricano nel caos della guerriglia fondamentalista, fino al supporto senza se e senza ma, alle milizie terroriste in Siria, che stanno provocando l’olocausto del popolo siriano. Per non dire poi dell’intervento in Mali, giustificato con la lotta al terrorismo islamista, quando in altri contesti, Parigi è l’avanguardia dell’appoggio alle formazioni qaidiste. La Francia laica, che dice di non transigere sul fatto che la religione possa avere un ruolo nella vita pubblica, sostiene apertamente i terroristi wahabiti contro il popolo e il legittimo governo siriano. Tutti sappiamo ad esempio, che nel breve periodo in cui i terroristi in Siria, diverso tempo fa, avevano preso il controllo della città di Homs, avevano dichiarato la creazione del cosiddetto “Emirato islamico” di Baba Amr, quartiere della città stessa.
Tornando invece al caso di G. Abdallah, è interessante notare come questo prigioniero politico doveva essere rilasciato qualche giorno fa, ma all’improvviso le autorità francesi, verosimilmente su pressione di Tel Aviv, hanno cambiato opinione, almeno fino alla fine di gennaio quando ci dovrebbe essere una riunione speciale delle autorità transalpine per decidere nuovamente sulla sorte di Abdallah. Non a caso in Libano ci sono state molte proteste, anche intorno ai centri culturali francesi in diverse località del Paese dei cedri, da Tripoli a Tiro. In una dichiarazione ufficiale della campagna internazionale per la liberazione di George Abdallah, gli attivisti si sono impegnati a non permettere più lo svolgimento della normale attività dei centri di cultura fino a quando il militante sarà detenuto in Francia: “Non tornerete al lavoro prima che giustizia sia fatta, non permetteremo che la vostra cultura esca di qui fino a quando Abdallah non sarà libero”, hanno dichiarato gli attivisti che hanno assediato gli istituti di Parigi in Libano. George Ibrahim Abdallah, 61 anni, è stato leader del Lebanese Armed Revolutionary Factions, gruppo nato dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Operazioni Speciali (PFLP-SOC). Ha compiuto diverse azioni in Francia, fino al suo arresto nel 1984 per l’omicidio del colonnello statunitense Charles R. Ray e del diplomatico israeliano Yaakov Bar-Simantov.
Nessuna prova concreta è mai stata trovata contro Abdallah, che ha comunque scontato 28 anni di prigione. Egli può essere considerato in tutto e per tutto un prigioniero politico, non detenuto per particolari reati, ma solo perché rappresenta un eroe per una causa, quella libanese e palestinese, ed in generale quella araba contro l’occupazione di Tel Aviv. Egli è un “resistente”, come ormai ce ne sembrano essere rimasti non molti nel mondo arabo. Essendo un “resistente”, come quelli del suo genere, vive in carcere, come vive in carcere la grande nazione palestinese, soprattutto a Gaza, un carcere dalle dimensioni gigantesche, che nemmeno il nuovo governo egiziano, dell’era post-Mubarak, è riuscito a eliminare.
Tutti i “resistenti” del mondo arabo vivono in carcere, sotto assedio, come il popolo siriano, vittima dell’attacco imperialista, di cui la Francia è parte integrante. Nel mondo arabo poi ci sono gli “altri”, i “moderati”, quelli che vivono in palazzi sontuosi, in ville da miliardari, quelli che, come rivelato di recente, finanziano la campagna elettorale di alcuni politici di Tel Aviv (l’emiro del Qatar, parola di Tzipi Livni). Ecco la differenza tra i resistenti e i moderati: i primi lottano per liberare la propria terra dall’occupazione, diritto inalienabile dell’essere umano, così come sancito anche dalle norme internazionali. I secondi pensano ai propri affari e al proprio potere mondano, se ne infischiano di liberare la terra araba dall’occupazione. E’ per tutto ciò che i resistenti devono soffrire, perché lottano, in quanto, in base alle illuminanti parole dell’imam Khomeini, “la lotta e gli agi sono categorie inconciliabili”. Questo fatto lo abbiamo notato anche nei decenni e negli ultimi anni per la causa palestinese; alcuni leader all’inizio erano sotto pressione, perché volevano lottare e non cercavano il compromesso con le forze reazionarie, ma quando, col passare degli anni, la tempra rivoluzionaria è venuta meno, e per via di alcune lusinghe riconducibili ad una vita agiata e nel benessere, hanno deciso di tradire la causa, sono stati descritti come “moderati”, e furono ricevuti da eroi, non più dal loro popolo, ma dai tiranni del mondo arabo, se non addirittura da i loro “padroni” occidentali. Che triste fine per un rivoluzionario, morire da reazionario.
Che triste fine per un militante, morire da diplomatico. Che triste fine per un leone, morie da pecora.  


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