Fuori dal fanatismo: per una critica razionale all’unipolarismo






Fuori dal fanatismo: per una critica razionale all’unipolarismo

A. Fais


Spesso si tende a considerare qualunque tipo di critica al modello economico e diplomatico statunitense come una tesi ormai fuori dalla storia. Effettivamente, se dovessimo annotare e soppesare gli ambienti politici e le argomentazioni che oggi, non soltanto in Europa, cercano di decostruire il cosiddetto American Dream e le sue derivazioni sociali, nella stragrande maggioranza dei casi dovremmo giungere ad una conclusione non distante da quella, ovviamente denigratoria, dei sostenitori dell’atlantismo.
Opprimente è il loro fanatismo imperante; esasperata è l’assolutizzazione di alcuni criteri di ripartizione della storia, come per esempio quelli di un messianismo di classe sconfitto dal corso degli eventi o quelli di un tradizionalismo che rasenta una fuga nel bosco incantato; in sostanza, notevole è la mancanza di linearità e di obiettività che i tanti radicalismi ideologici hanno proposto negli ultimi decenni, atrofizzando una certa impostazione teorica e rendendola pressoché priva di dinamicità analitica e di attualità politica. L’Occidente è una realtà complessa, ramificata, formata da una serie di passaggi storici che non possono ridursi al secolo breve e al “momento unipolare” dei venti anni successivi alla fine della Guerra Fredda. Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno rappresentato per almeno quaranta anni un modello di riferimento per tutto il mondo. È innegabile che soprattutto tra gli anni Venti e gli anni Sessanta dello scorso secolo l’architettura, l’industria, il cinema, la moda, la letteratura e la tecnologia provenienti da quel plesso geopolitico emergente hanno affascinato e ispirato intere generazioni non soltanto in Europa ma in tutto il mondo. Persino i sistemi economici nati dalle culture politiche che, per varie ragioni, sarebbero successivamente entrate in conflitto con gli Stati Uniti durante il Novecento hanno ampiamente preso a riferimento quel Paese. Secondo l’economista Joseph Schumpeter il fascismo degli anni Trenta ha rappresentato, sebbene in una forma autoritaria e nazionalista, un peculiare fordismo keynesiano italiano. Nel 1918 Vladimir Lenin osservava ammaliato i progressi compiuti dal sistema di fabbrica pensato da Frederick Taylor, esortando il neonato governo bolscevico a mutuarne le innovazioni per applicarle durante quella prima fase di modernizzazione del Paese che passò alla storia con il nome di Nuova Politica Economica. Analogamente, ma in modo del tutto peculiare, Antonio Gramsci dedicherà una particolare riflessione economica e “geopolitica” proprio al tema dell’americanismo e del fordismo all’interno dei suoi preziosi Quaderni dal Carcere.
Il carattere geoculturale predominante maturato grazie a questo fascino e a questa capacità di attrazione internazionale, che oggi siamo soliti chiamare col nome (non a caso anglofono) di soft-power, è una costante storica della quale non è possibile disfarsi. La filosofia greca e la giurisprudenza romana nell’era classica, la religione cristiana nell’Europa postromana, la scienza e la tecnologia provenienti dalla Cina e dal mondo islamico in epoca medievale e i picchi culturali della Persia tra i secc. XVI e XVIII, sono soltanto alcuni esempi dei fasti raggiunti sul piano dello sviluppo umano e scientifico dalle più differenti civiltà della storia, capaci, in alcuni precisi frangenti, di attrarre popoli di altre regioni o di altri continenti. Il Mar Mediterraneo, la Via della Seta, l’Oceano Indiano, Aquisgrana, la frontiera indo-iranica e altri luoghi densi di cultura e innovazione vedevano transitare studiosi, avventurieri e ricercatori da tutte le aree del mondo allora noto ai popoli direttamente coinvolti.
Tuttavia anche a quei tempi, purtroppo, non mancavano la corruzione politica e morale, il contrabbando commerciale e la povertà di alcune estese fasce popolari. Come allora, anche oggi il mondo vive una fase di interconnessione tra diverse aree regionali, stavolta determinata da un’economia-mondo – quella liberista – pensata e generata all’interno della civiltà anglosassone. L’avanzamento tecnologico registrato in Europa tra il XVII e il XIX secolo e l’introduzione di un sistema di produzione basato sulla grande industria hanno palesemente accelerato i ritmi della storia ma non ne hanno affatto modificato la natura, che segue tutt’ora una traiettoria di corsi e ricorsi, senza ripetersi in modo identico e senza tratteggiare linee di evoluzione in senso assoluto, secondo la vulgata delle magnifiche sorti e progressive. Nello specifico, perciò, il fatto che la civiltà anglo-americana sia oggi, dopo due secoli di evidente predominio globale, in palese difficoltà costituisce una tendenza del tutto normale, che rientra in maniera piuttosto scontata nel quadro di previsione delle tendenze storiche.
Cosa c’è di diverso, dunque, tra la dimensione storica del predominio anglo-americano e la dimensione storica dei predomini delle altre civiltà nelle varie epoche del passato? Come per tutte le grandi civiltà del passato, anche per gli Stati Uniti non mancano e non sono mancati né i fasti né la corruzione, né le innovazioni culturali e tecnologiche né le crisi sociali, né le capacità strategiche né i grandi fallimenti. Eppure, con la fine della Guerra Fredda, abbiamo assistito ad un fenomeno molto particolare, sostanzialmente inedito nella storia dell’uomo. La “vittoria” sul nemico sovietico ha aperto la possibilità unica per Washington di riconvertire la potenza militare acquisita lungo quaranta anni di competizione a distanza in uno strumento di dominio globale all’interno di un contesto internazionale dove la frammentazione geopolitica e l’arretratezza economica di vaste aree hanno a lungo impedito di prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che, dopo il 1991, potesse ricostituirsi entro breve tempo un nuovo competitore.
L’idea suggestiva in base a cui gli Stati Uniti potevano modellare a proprio piacimento il nuovo corso della storia innescò in quegli anni una letteratura frenetica sul tema, dando forma a diversi progetti geopolitici sino alla più esasperata tesi per cui quello nordamericano potesse essere pensato come l’ultimo uomo, quella capitalistica come l’ultima formazione sociale, quello liberale come il gradino ultimo di un’evoluzione sociale giunta al suo compimento definitivo. L’ultima sfida, dunque, sarebbe consistita soltanto nella gestione di un processo di assorbimento di questo modello in tutto il pianeta secondo lo schema della globalizzazione: la politica estera statunitense poteva per tanto essere pensata come una mera estensione internazionale della politica interna, i mercati interni come il motore centrale e fondamentale dei mercati internazionali ed il dollaro come un riferimento imprescindibile per l’intero sistema commerciale mondiale.
Il disegno escatologico della “fine della storia” che, in un certo periodo e per altri scopi, aveva affascinato gran parte del pensiero marxista diventava invece l’aspirazione del capitalismo e del modello esistenziale statunitense. Sconfitto il rigido determinismo progressivo dello storicismo trifasico rivoluzionario (capitalismo->socialismo->comunismo) ipotizzato da Marx ed Engels, gli Stati Uniti presumettero di aver eliminato un sistema politico-ideologico ostile semplicemente mettendo in evidenza la fragilità teorica di una sua specifica lettura dogmatica. Ad oltre venti anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dei Paesi socialisti alleati, invece, la situazione internazionale è senz’altro più confusa, ogni giorno meno prevedibile secondo gli schemi, invero piuttosto superficiali, consolidatisi presso l’opinione pubblica durante la Guerra Fredda e sicuramente più frammentata dal punto di vista della distribuzione del potere economico, politico e militare a livello mondiale.
Nella seconda metà del XIX secolo Karl Marx riteneva che il colonialismo costituisse uno strumento inconsapevole della storia, una pratica che, per quanto deprecabile e criminale sul piano soggettivo, potesse rivoluzionare i rapporti di produzione e di scambio (e dunque di forza) fino ad allora esistiti sul piano oggettivo. L’insediamento dei protettorati occidentali presso i territori colonizzati, infatti, avrebbe consentito ai popoli indigeni una progressiva modernizzazione ed una prima acquisizione delle ultime scoperte scientifiche e tecnologiche raggiunte nell’alveo del sistema industriale sorto in Europa e nel Nord America, generando le condizioni necessarie alla propria riemersione dalla relativa arretratezza, che li aveva costretti ad arrendersi dinnanzi al più attrezzato esercito invasore. Secondo il teorico di Treviri, dunque, questo primo processo a tappe forzate (e spesso molto brutali) di esportazione del capitalismo avrebbe condotto ad una lenta ma inesorabile internazionalizzazione della produzione industriale, della tecnologia e della scienza militare moderna, preparando il mondo ad una drastica trasformazione globale.
Con il passaggio dal primato delle economie di scala a quello delle economie di scopo avvenuto tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il processo di trasformazione del capitalismo ha sancito una serie di cambiamenti radicali nell’ambito della sfera produttiva. L’industria leggera e l’industria dell’alta tecnologia hanno aumentato esponenzialmente il loro peso nella società occidentale, mentre le nuove e più veloci capacità di comunicazione e di trasporto modificavano la domanda conferendo al settore terziario e dei servizi un’importanza sino a quel momento assolutamente inedita. In piena era postfordiana, dunque, il processo di globalizzazione dell’economia di mercato può affidarsi ad una potenzialità di interconnessione delle aree del pianeta molto più rapida ed efficace grazie alle ultime tecnologie acquisite nel campo dell’informazione, del trasporto e della comunicazione. In appena venti anni, quel processo di internazionalizzazione economica che diversi teorici statunitensi avevano pensato come il fulcro dell’americanizzazione del pianeta si sta in realtà rivelando volano dell’emersione di nuovi attori sul piano commerciale e militare, con tutto quello che ne consegue in termini di maturazione legislativa e diplomatica. Il fenomeno sociale più rimarchevole è rappresentato dal fatto che nessuno di questi nuovi soggetti internazionali sembra aver risentito in maniera rilevante dell’impatto con il mercato sul piano culturale. Nessuno dei cosiddetti BRICS può considerarsi a pieno titolo un Paese occidentalizzato, né ha rinunciato in modo netto ed integrale ai fondamenti etnici, politici e culturali che ne hanno caratterizzato il passato storico. Dopo il suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, la Cina dimostra per esempio di aver preso in mano le chiavi del processo di sviluppo mondiale stabilendo alcuni importanti ritmi e modalità della circolazione di capitale internazionale, nuove forme di cooperazione internazionale fondate sul reciproco vantaggio e nuovi rapporti di forza in termini geostrategici.
Alla metà degli anni Novanta, Samuel Huntington richiamava l’attenzione dell’Occidente mostrando come già nel corso del XIX secolo la Cina e il Giappone avessero pianificato, attraverso le rispettive formule del ty jong e del wakon-yosai, un processo di modernizzazione capace di integrare le acquisizioni tecnico-scientifiche mutuate dalle potenze europee dominanti con i principi tradizionali nazionali. Naturalmente non si trattava di un processo semplice e non può dirsi immediata neanche la sua realizzazione pratica che infatti non avvenne mai, per lo meno in quei termini. Il Giappone sfruttò la sua modernizzazione per tentare di conquistare con la forza il dominio sull’intera regione Asia-Pacifico, mentre l’Impero Qing crollò inesorabilmente sotto i colpi delle invasioni e delle numerose guerre civili.
La sfera della tecnica non è mai perfettamente separabile dalla sfera spirituale e sociale, ed ogni evoluzione in senso scientifico della società produce cambiamenti anche nel comportamento e nella visione etica d’insieme di una popolazione. Questo, però, non significa che le società umane siano composte da materiale plastico modellabile a proprio piacimento o in tutte le direzioni possibili. Le diverse culture non costituiscono criteri meramente sovrastrutturali poiché sono principalmente fondate sulle rispettive espressioni linguistiche, che a loro volta ricorrono a specifici suoni e simboli ossia a precisi caratteri che, impressi sulla carta o su uno schermo digitale, pronunciati in un antico castello o in diretta televisiva, ripongono comunque in sé una potenza inesauribile, un portato semantico e concettuale che rimanda alle più arcaiche manifestazioni della civiltà. Nella società dell’informatica e della comunicazione globale, insomma, un cittadino cinese continuerà a pensare sé stesso ed il proprio spazio di civiltà secondo categorie teoretiche diverse da quelle di un inglese, di un francese o di un africano. Lo stesso avverrà per altri rispetto ad altri ancora.
È perciò inaccettabile che un plesso geopolitico completamente ottenebrato dal mito dell’infallibilità pressoché assoluta degli Stati Uniti e della cultura anglosassone, come l’Occidente, pretenda non soltanto di voler mantenere un predominio internazionale ormai scricchiolante, ma addirittura di potenziarlo e trasformarlo in un progetto di egemonia sull’intero pianeta. Un recente esempio di questa alienazione collettiva è lo scalpore suscitato presso certi commentatori occidentali dalla considerazione contenuta nella relazione congressuale del presidente cinese Hu Jintao, con cui la massima carica politica della Repubblica Popolare ha ribadito che il Paese non dovrà in alcun modo perseguire la realizzazione di un modello sociale e politico di tipo occidentale.
L’idea assurda in base alla quale una forma di civiltà predominante possa ergere il proprio metro di giudizio a criterio assoluto per la valutazione dell’intera politica mondiale, viene portata avanti senza alcun ritegno negli Stati Uniti, ancor oggi condiziona pesantemente la politica estera nordamericana e rischia seriamente di porre le basi per un crescendo di tensioni a carattere sociale e militare che avrebbe conseguenze devastanti in un’era contraddistinta, sul piano geostrategico, dalle più pericolose armi di distruzione di massa.
Per questo è importante forgiare adeguati mezzi analitici per comprendere il mondo, lasciando l’estremismo e l’utopia proprio a coloro che in questa fase ne hanno più bisogno: gli unipolaristi. Sarà sufficiente agire con ciò che è sotto i nostri occhi ma sarà necessario capire l’importanza dello sviluppo scientifico, della cooperazione internazionale, del mantenimento della stabilità internazionale e della razionalizzazione politica dei mercati sul piano produttivo e redistributivo. La “mano visibile” e la “mano invisibile” devono agire come uno yin e uno yang che coesistono senza fondersi ma completandosi a vicenda.

http://www.statopotenza.eu/5667/fuori-dal-fanatismo-per-una-critica-razionale-allunipolarismo

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