La fortuna
di Heidegger in Oriente
di Claudio
Mutti - 10/09/2012
Fonte:
eurasia [scheda fonte]
“Un tempo
l’Asiatico portò tra i Greci un oscuro fuoco ed essi, con la loro poesia e il
loro pensiero, ne composero la natura fiammeggiante disponendola in una forma
dotata di chiarezza e di misura”.
M.
Heidegger, Aufenthalte
La fortuna
di Heidegger in Iran
Nel 1977
Hans Georg Gadamer notava come Was ist Metaphysik?, la prolusione tenuta da
Heidegger a Friburgo in Brisgovia nel 1929, avesse avuto una vasta risonanza
fuori dalla Germania e come il pensiero heideggeriano fosse rapidamente
penetrato in aree culturali ascrivibili all’Oriente. “È assai rivelativo –
scriveva Gadamer – che siano state tanto immediate le traduzioni in giapponese
e persino in turco, in lingue cioè che non rientrano nell’area linguistica
dell’Europa cristiana. Sembra pertanto che il tentativo heideggeriano di
pensare oltre la metafisica abbia riscontrato una precipua disponibilità alla
sua ricezione proprio dove la metafisica greco-cristiana non orientava tutto il
pensiero come suo sfondo naturale”1.
Tre anni più
tardi un ex allievo persiano di Heidegger, Ahmed Fardid (1909-1994), diventava
l’elemento di spicco di un organismo fondato dall’Imam Khomeyni, il Consiglio
Supremo per la Rivoluzione Culturale Islamica, e costituiva il punto di
riferimento di un gruppo di intellettuali che si richiamava esplicitamente al
pensiero heideggeriano e si contrapponeva al gruppo dei “popperiani”.
“Gli
‘heideggeriani’ – si legge nell’articolo di un loro avversario – si erano
proposti un obiettivo essenziale: la denuncia della democrazia in ogni sua
forma, in quanto del tutto incompatibile con l’Islam e con la filosofia.
Cercavano di dimostrare che Socrate era stato giustiziato perché avversario
della democrazia e sostenevano che l’ordinamento politico difeso dal suo discepolo
Platone era antesignano del governo islamico. (…) Fino al 1989 gli
‘heideggeriani’ furono la forza filosofica dominante nel sistema creato da
Khomeini. Il primo ministro di allora, Mir Hussein Musavi, e il giudice supremo
Abdul Kerim Erdebili (…) appartenevano entrambi al gruppo degli
‘heideggeriani’. Per un breve periodo i ‘popperiani’ furono in grado di
invertire parzialmente la rotta del potere, ma la loro sorte fu segnata quando
la presidenza della Repubblica Islamica venne conquistata da Mahmud Ahmadinejad.
Il nuovo presidente era infatti un attivo seguace di Fardid e di Heidegger”2.
La fortuna
di Heidegger nella Repubblica Islamica dell’Iran venne ufficializzata dal
convegno internazionale organizzato nel 2005 a Teheran dall’Istituto Iraniano
di Filosofia e dall’Ambasciata della Confederazione Elvetica sul tema
“Heidegger e il futuro della filosofia in Oriente e in Occidente”. Il prof.
Reza Davari-Ardakani, un ex allievo di Ahmed Fardid diventato presidente
dell’Accademia delle Scienze, espose i risultati dei suoi studi sul pensiero di
Heidegger. Il prof. Shahram Pazouki, che oltre ad aver tenuto due corsi su
Heidegger aveva assegnato tesi di dottorato su “Dio nel pensiero di Heidegger”
e sulla “Filosofia dell’arte di Heidegger”, stabilì un confronto fra Sohrawardi
e il filosofo tedesco, indicando la gnosi islamica e la filosofia di Heidegger
come i mezzi ideali per la comunicazione spirituale tra l’Asia e l’Europa.
Benché attestato su posizioni distanti da quelle degli relatori precedenti, il
prof. Bijan Karimi riconobbe l’importanza fondamentale del pensiero
heideggeriano dell’essere nel mantener viva la dimensione del sacro3.
Dell’attuale
situazione degli studi filosofici in Iran si è occupato anche Jürgen Habermas,
che l’ha riassunta in questi termini: “Davari-Ardakani è oggi presidente
dell’Accademia delle Scienze e passa per essere uno dei ‘postmoderni’. Questi
hanno assunto innanzitutto l’analisi heideggeriana dell’ ‘essenza della
tecnica’ e la utilizzano come la critica più coerente della modernità. Suo
contraltare è Abdul Kerim Sorus, che difende – in quanto ‘popperiano’ – una
divisione cognitiva tra religione e scienza, anche se personalmente tende a
identificarsi con una certa corrente mistica islamica. Davari è un difensore
filosofico dell’ortodossia sciita, mentre Sorus, come critico, ha già perso
molta della sua pur scarsa influenza”4.
L’interesse
manifestato dall’intellettualità iraniana nei confronti di Heidegger può
trovare una spiegazione in ciò che dice Henry Corbin, studioso di Sohravardi e
traduttore francese di Was ist Metaphysik?5, circa le corrispondenze esistenti
fra la teosofia islamica e l’analitica heideggeriana. “Quello che cercavo in
Heidegger, quello che ho compreso grazie a Heidegger, è la stessa cosa che ho
cercata e trovata nella metafisica islamico-iraniana, in alcuni grandi nomi (…)
Non molto tempo fa Denis de Rougemont ricordava, con un certo umorismo, che
all’epoca della nostra gioventù aveva constatato che la mia copia di Essere e
tempo recava sul margine numerose glosse in arabo. Credo che per me sarebbe
stato molto più arduo tradurre il lessico di un Sohravardi, di un Ibn ‘Arabi,
di un Molla Sadra Shirazi, se prima non mi fossi impegnato nella traduzione
dell’inaudito lessico tedesco di Heidegger. Kashf al-mahjûb significa
esattamente ‘disvelamento di ciò che è occulto’. Pensiamo a tutto quello che
Heidegger ha detto circa il concetto di aletheia“6.
Ma questa
analogia non è la sola che possa essere citata. Lo stesso Corbin ne sottintende
un’altra dello stesso genere allorché, avvalendosi di una terminologia
heideggeriana, ci ricorda che “il passaggio dall’essere (esse) all’ente (ens),
i teosofi islamici lo concepiscono come il porre l’essere all’imperativo (KN,
Esto). È in forza dell’imperativo Esto che l’ente è investito dell’atto di
essere“7.
Osiamo
allora abbozzare altre corrispondenze: per esempio, quella che si può
intravedere fra l’Andenken, la “rimemorazione” finalizzata a mantener vivo il
problema dell’essere, e il dhikr, la “rimemorazione” rituale cui il sufismo
assegna il compito di attualizzare la presenza divina nell’individuo.
Così
l’Ereignis, l’”evento” che si configura come l’Essere stesso in quanto tempo
originario e costituisce perciò lo spazio di un nuovo apparire divino, viene ad
assumere le dimensioni di una realtà ierostorica, individuabile nel momento
della Rivelazione o in corrispondenza della parusia del Mahdi o comunque su uno
sfondo escatologico.
O ancora:
l’essere-per-la-morte, la decisione anticipatrice in cui viviamo la morte come
la possibilità più incondizionata e insuperabile, non trova un parallelo
islamico nel hadîth profetico riportato da As-Samnânî “morite prima di morire” (mûtû qabla an
tamûtu)?
Heidegger e
l’Estremo Oriente
L’Oriente
islamico non è la sola area culturale dell’Asia in cui il pensiero di Heidegger
ha suscitato interesse. Non è un caso che Unterwegs zur Sprache8 cominci con un
colloquio tra l’Autore e un Giapponese buddhista, Tomio Tezuka: in Giappone,
dove Heidegger è il filosofo europeo più tradotto e dove sono stati affrontati
temi quali “le religioni nel pensiero di Heidegger”9 o “Heidegger e il
buddhismo”10, le prime pubblicazioni sul suo pensiero risalgono agli anni Venti
del secolo scorso11, ossia al periodo in cui i corsi del filosofo a Friburgo e
a Marburgo cominciarono ad essere frequentati da studiosi buddhisti giapponesi.
Tra questi, a suscitare l’interesse di Heidegger per il Giappone pare sia stato
il Barone Shûzô Kuki (1888-1941), “un pensatore che riveste nel panorama
filosofico giapponese ed europeo di questo secolo una singolare importanza”12;
tornato in patria, Kuki tenne corsi su Heidegger presso l’Università Imperiale
di Kyôto.
I contatti
di Heidegger col Giappone proseguirono dopo la guerra: nel 1953 egli conobbe
personalmente Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966), il noto studioso e
divulgatore del buddhismo zen, del quale aveva letto i pochi libri accessibili.
“Se comprendo correttamente quest’uomo, – aveva detto di lui – questo è quanto
io ho cercato di dire in tutti i miei scritti”13. Da parte sua, Suzuki rievocò
così l’incontro avuto con Heidegger: “Il tema principale del nostro colloquio è
stato il pensiero nel suo rapporto con l’essere. (…) ho detto che l’essere è là
dove l’uomo, che medita l’essere, avverte se stesso, senza però separare sé dall’essere
(…) ho aggiunto che nel Buddhismo Zen il luogo dell’essere è mostrato evitando
parole o segni grafici, poiché il tentativo di parlarne finisce inevitabilmente
in una contraddizione”14.
Nel 1954
ebbe luogo il colloquio con Tomio Tezuka (1903-1983), traduttore, oltre che di
Goethe, Hölderlin, Rilke e Nietzsche, anche di alcuni testi di Heidegger. Dopo
essere stato sollecitato a chiarire numerose questioni relative al vocabolario
giapponese, Tezuka chiese a Heidegger quale fosse il suo parere circa il
significato attuale del cristianesimo per l’Europa. Il filosofo definì il
cristianesimo “imborghesito”, espressione di “religiosità convenzionale” e per
lo più privo di una “fede viva”15.
Nel 1958
Heidegger tenne all’Università di Friburgo un seminario che vide la
partecipazione di Hôseki Shin’ichi Hisamatsu (1889-1980), monaco zen di scuola
rinzai e maestro di calligrafia16. Dopo che Heidegger ebbe chiesto a Hisamatsu
di illustrare la nozione giapponese di arte e la relazione fra arte e buddhismo
zen, ebbe luogo un dialogo sul carattere dell’opera d’arte e sulla sua origine,
che Hisamatsu attribuì al libero movimento del non-ente (nicht-Seiende).
Heidegger concluse il seminario riproponendo il celebre kôan del Maestro Hakuin
Ekaku (1686-1769): “Ascolta il suono del battito di una sola mano!”17.
L’interesse
di Heidegger per lo Zen e la consonanza esistente fra il suo pensiero e questa
forma di buddhismo sono state riassunte da uno studioso nepalese nei termini
seguenti: “Il disinteresse per ciò che è ‘rituale’ e l’attenzione data allo
spirito da parte dello Zen potrebbero essere considerati equivalenti al rifiuto
di Heidegger della struttura filosofica convenzionale delle nozioni, dei
termini e delle categorie classiche in favore di un ‘filosofare vero’”18.
Nel 1963
ebbe luogo uno scambio di lettere tra Heidegger e Takehiko Kojima, direttore di
un’istituzione filosofica giapponese. In una lettera aperta pubblicata su un
giornale di Tokyo, Kojima si riferiva alla conferenza di Heidegger sull’era
dell’atomo19 considerandola un discorso rivolto ai Giapponesi stessi. Con
l’occidentalizzazione, proseguiva Kojima, è scesa sul Giappone quella notte che
Kierkegaard e Nietzsche avevano già vista incombere sull’Europa. “L’unica cosa
a cui possiamo credere – concludeva – è una parola tale che, precorrendo il
mattino del mondo, del quale non possiamo sapere in che momento arriverà, sia
in grado di scendere in questa lunga notte. Possa una tale parola sempre di nuovo
giungerci vicino, richiamare il nostro passato e risuonare nel futuro”20. Nella
sua risposta, prendendo atto del dominio mondiale che la scienza moderna
assicura all’Occidente (“ovunque regna lo stellen che provoca, assicura e
calcola”), Heidegger affermava l’insufficienza del pensiero occidentale di
fronte al problema posto dalla potenza dello stellen. Affermava poi che il
pericolo più grande non consiste tanto nella “perdita di umanità” denunciata da
Kojima, quanto nell’ostacolo che impedisce all’uomo di diventare ciò che ancora
non ha potuto essere. Infine enunciava la necessità di un “passo indietro” che
consentisse di meditare sulla potenza dello stellen; ma un tale meditare,
concludeva, “non può più compiersi attraverso la filosofia occidental-europea
finora esistente, ma neppure senza di essa, cioè senza che la sua tradizione,
fatta propria in modo rinnovato, venga impiegata su una via appropriata”21.
Nel 1964
avvenne l’incontro di Heidegger col monaco buddhista Bikkhu Maha Mani, docente
di filosofia all’Università di Bangkok, che era venuto in Europa per conto
della Radio tailandese. “Convinto sostenitore di un uso misurato della
tecnologia e dei mass media come strumenti educativi, in Germania aveva voluto
incontrare Heidegger proprio per confrontarsi sul problema della tecnica”22.
Nel colloquio privato che ebbe luogo fra i due il giorno prima che venisse
registrato un loro dialogo sul ruolo della religione, destinato ad essere
trasmesso da un’emittente televisiva di Baden-Baden, Heidegger parlò di
“abbandono” e di “apertura al mistero” e domandò al suo ospite che significato
avesse, per l’Orientale, la meditazione. “Il monaco risponde del tutto
semplicemente: ‘Raccogliersi’. E spiega: quanto più l’uomo, senza sforzo di
volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde] se stesso. L”io’ si
estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’,
ma proprio tutt’altro: la pienezza [die Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è,
niente e tutto, la piena realizzazione [Erfüllung]. Heidegger ha compreso e
dice: ‘Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto’. Ancora una
volta il monaco ripete: ‘Venga nella nostra terra. Noi La comprendiamo’”23.
Non diverse
le parole del professor Tezuka: “Noi in Giappone siamo stati in grado di
intendere subito la conferenza Was ist Metaphysik? (…) Noi ci meravigliamo
ancor oggi come gli Europei siano potuti cadere nell’errore d’interpretare
nihilisticamente il Nulla di cui si ragiona nella conferenza accennata. Per noi
il Vuoto è il nome più alto per indicare quello che Ella vorrebbe dire con la
parola ‘Essere’”24.
Infatti
nella prolusione del 1929, subito tradotta in giapponese dal suo allievo
Seinosuke Yuasa (1905-1970), Heidegger si era soffermato sul problema del
Niente, argomentando che il Niente si identifica con lo sfondo originario
tramite cui l’ente appare e che, siccome tale sfondo dell’ente coincide con
l’Essere, fare esperienza del Niente equivale a fare esperienza dell’Essere.
Una tale
convinzione non poteva non trovare ulteriore sostegno nella dottrina taoista,
secondo la quale “tutte le cose vengono all’esistenza mediante l’essere (yu), e
questo mediante il wu, termine che non traduciamo semplicemente come
‘non-essere’ (…), bensì come l”essere non-essere’, cioè l’atto che trascende e
determina il porsi della realtà”25. Oltre a manifestare per il Chuang-tze un
interesse che è attestato da varie parti26, nell’estate del 1946 Heidegger
tradusse in tedesco i primi otto capitoli del Tao-tê-ching, avvalendosi della
mediazione di uno studioso cinese, Paul Shih-yi Hsiao (1911-1986)27, che del
testo di Lao-tze aveva già pubblicato una versione italiana28.
Frequenti
riferimenti a Heidegger si trovano nel commento che accompagna la traduzione
del Tao-tê-ching iniziata nel 1973 da Chung-yuan Chang, autore di diversi studi
sul taoismo e sul buddhismo ch’an. Rievocando un suo colloquio dell’anno
precedente con Heidegger, Chang si sofferma sull’affinità del pensiero di
quest’ultimo col taoismo, in relazione sia alla poesia sia al problema del Niente;
osserva che la nozione heideggeriana di Aufheiterung (“schiarita”) è presente
nella tradizione cinese e designa “un modo per entrare nel Tao”29; ricorda che
Heidegger e lui concordarono nell’identificare la nozione di Lichtung
(“radura”) con quella taoista di ming; ecc.
L’individuazione
di tutte queste analogie, lungi dal costituire un banale gioco di parole e di
concetti, ci rimanda alla vitale necessità del Dasein europeo di confrontarsi
con quello asiatico. Lo ha detto d’altronde lo stesso Heidegger in Aufenthalte:
“Il confronto con l’asiatico fu per l’esserci greco una profonda necessità.
Esso oggi rappresenta per noi, in maniera assai diversa ed entro un orizzonte
molto più ampio, la decisione sul destino dell’Europa”30.
NOTE:
1. H. G.
Gadamer, Prefazione, in: M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Libreria Tullio
Pironti, Napoli 1982, p. ix.
2. Amir
Taheri, Mollarin Felsefe [La filosofia dei mullah], “Radikal” (Istanbul), 8
marzo 2005.
3. Dieter Thomä, Heidegger und der Iran, “Neue Zürcher
Zeitung”, 10 dicembre 2005.
4. Jürgen Habermas trifft in Iran auf eine
gesprächbereite Gesellschaft, “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 13 giugno 2007.
5. Martin Heidegger, Qu’est-ce que la Métaphysique?,
trad. par H. Corbin, Gallimard, Paris 1938.
6. Philippe Némo, De Heidegger à Sohravardî,
“France-culture”, 2 giugno 1976 (www.amiscorbin.com).
7. H.
Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 7.
8. Trad.
it.: M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, in: In cammino
verso il Linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 83-125.
9. M. Inaba,
Heideggâ no Shii no Shûkyôsei, Tokyo 1970.
10. T.
Umehura e M. Oku, Heideggâ to Bukkyô, Tokyo 1970.
11. Satô
Keiji, Heideggâ Hihan-sono Riron-Keitai ni tsuite, Tokyo 1926; Yoneda Shôtaro,
Heideggâ no Kanshinron, Keizaironso XXVI-1, Kyoto 1928.
12. C.
Saviani, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova 1998, p. 54.
13. W. Barrett, Zen for the West, in: Zen Buddhism:
Selected Writings of D. T. Suzuki, W. Barrett ed., Doubleday Anchor Books,
Garden City 1956, xi.
14. D. T. Suzuki, Erinnerungen an einen Besuch bei
Martin Heidegger, in: Japan und Heidegger (hrsg. H. Buchner), Sigmaringen 1989,
p. 169.
15. T. Tezuka, Drei Antworten, in Japan und Heidegger,
cit., p. 179.
16. H. Sh.
Hisamatsu, La pienezza del nulla, Il Nuovo Melangolo, Genova 1985; Idem, Una
religione senza dio, Il Nuovo Melangolo, Genova 1996.
17. M.
Heidegger – Hôseki Shinichi Hisamatsu, L’arte e il pensiero, in: C. Saviani,
L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 97-104.
18. Kumar
Dipak Raj Pant, Heidegger e il pensiero orientale, Il Cerchio, Rimini 1990, p.
66.
19. Trad.
it. in: M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1986, pp. 25-43.
20. M. Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischen
Kollegen, in: Japan und Heidegger, cit., p. 220.
21. M. Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischen
Kollegen, cit., p. 226.
22. C.
Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., p. 77.
23. H. W. Petzet, Auf einen Stern zugehen. Begegnungen
mit Martin Heidegger 1929 bis 1976, Societäts Verlag, Frankfurt a. M. 1983, p.
191.
24. M.
Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, cit., p. 97.
25. P.
Filippani-Ronconi, Storia del pensiero cinese, Boringhieri, Torino 1964, p. 58.
26. C.
Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 41-42.
27. P.
Shih-yi Hsiao, Heidegger e la nostra traduzione del Tao Te Ching, in: C.
Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 105-118.
28. P. Siao
Sci-Yi, Il Tao-te-King di Laotse, Laterza, Bari 1941.
29. Ch.-y. Chang, Reflections, in: Erinnerung an
Martin Heidegger (hersg. G.
Neske), Pfullingen 1977, p. 66.
30. M.
Heidegger, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Guanda, Parma 1997, p. 31.
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