La situazione politica irachena e la "guerra fredda" tra Ankara e Tehran


La situazione politica irachena e la "guerra fredda" tra Ankara e Tehran

tratto da http://europeanphoenix.it/component/content/article/8-internazionale-/512-la-situazione-politica-irachena-e-la-qguerra-freddaq-tra-ankara-e-tehran


Negli ultimi tempi vi sono stati importanti cambiamenti negli assetti delle coalizioni politiche irachene. La situazione ha iniziato ad essere incandescente soprattutto quando le autorità giudiziarie hanno emesso, circa un anno fa, un mandato di cattura rivolto a Tariq Hashemi, ex vicepresidente iracheno, accusato di essere dietro a molte stragi e attacchi terroristici nel Paese. Ma negli ultimi tempi la situazione si è fatta ancora più complessa; secondo alcuni uno dei problemi principali è la mancanza di fatto dallo scenario politico del presidente Jalal Talabani. Egli per motivi di salute non è al momento disponibile e questo vuoto ha creato un certo scompiglio tra i partiti e i movimenti del Paese, per via del ruolo di garante che Talabani aveva tra i vari schieramenti. La situazione poi ha subito un’ulteriore peggioramento con l'arresto di alcune guardie del corpo di un ministro iracheno, Rafi Isawi. Alcuni hanno accusato Maliki, il premier, di voler fare fuori degli indesiderati concorrenti politici, ma egli ha immediatamente negato qualsiasi coinvolgimento. Sta volta però le proteste e il caos non hanno riguardato solo la classe politica o i soliti attentati, ma hanno contagiato anche la popolazione civile, coinvolta in manifestazioni in diverse zone, da Salaheddin ad Al Anbar. Le proteste però non erano organizzate da gruppi uniti, e ogni fazione ha chiesto cose diverse. Si è passati da richieste di generiche riforme, a precise istanze riguardanti la revisione di alcuni articoli della legge antiterrorismo, fino alle istanze più radicali, che chiedevano le dimissioni del premier Maliki.
Al momento le coalizioni irachene scaturite dai recenti disordini possono essere così classificate: il fronte che sostiene il premier Maliki, principalmente i membri della coalizione "lo Stato di diritto". Il fronte degli oppositori a Maliki, organizzati a loro volta in due formazioni: la coalizione "Al Iraqia", guidata dall'ex primo ministro nominato dagli americani Allawi, e i curdi di Masud Barezani. Entrambi questi gruppi accusano Maliki di settarismo e autoritarismo. Poi vi è un altro gruppo che si oppone a Maliki, guidato da Moqtada Sadr, che ha una posizione diversa da Allawi e dai curdi. Questi ultimi chiedono apertamente la caduta del governo, mentre Sadr vuole delle riforme, e pur considerando giuste alcune istanze dell'opposizione a Maliki, non chiede stravolgimenti radicali. Fino a oggi le divergenze in Iraq si basavano su questioni etnico-religiose, ovvero c'erano dei gruppi sciiti, sunniti e curdi. Oggi però le alleanze sono un po' più trasversali. I curdi in particolare hanno cercato negli ultimi anni di fare sia da pacere, sia da ago della bilancia nelle divergenze tra sciiti e sunniti. Ultimamente si è cercato di superare questa logica settaria, per alleanze più nazionali. Ma vi è poi un problema da non sottovalutare; la nazione irachena è un mosaico confessionale ed etnico, e fomentare l'odio fra i gruppi non è una cosa molto difficile. In contesti del genere la democrazia parlamentare su base etnico-religiosa (modello libanese) può avere dei vantaggi, in quanto offre la possibilità a tutti gli attori di esprimersi, ma ha anche alcuni inconvenienti, legati alla debolezza di fattori di unità. In più negli ultimi mesi, l’instabilità in Siria ha contagiato l’Iraq, creando ulteriore caos e rivitalizzando gli scontri confessionali, con la popolazione sunnita irachena che a grandi linee simpatizza per l’opposizione al regime di Assad, mentre gli sciiti solidarizzano con la classe dirigente di Damasco. Anche questo è un fattore importante da prendere in considerazione. Non a caso uno dei pochi governi arabi a non sostenere la rivolta contro Assad è stato proprio quello di Baghdad, che ritiene la crisi siriana una questione di politica interna, non suscettibile di ingerenze straniere, una linea in antitesi con quella di altri Paesi arabi come Qatar e Arabia Saudita, invece impegnati nel sostegno attivo alla rivolta anti-Assad. In più c’è da dire che sono giunte notizie di non poche infiltrazioni in Siria da parte di miliziani iracheni, sia in sostegno dei ribelli, che a favore del governo siriano.
Il problema principale in Iraq rimane comunque il fatto che dopo la caduta di Saddam nel 2003, il Paese non è riuscito a trovare una sua dimensione stabile, ed è stata sempre coinvolta in scontri di ogni genere. Un problema questo spesso visibile in Paesi in cui vi sia una pluralità etnico-religiosa; ogni volta che il governo centrale cade, il Paese entra in una fase di guerra intestina molto forte, con ricadute negative a livello regionale. Questo fatto si è visto in diversi Paesi, dalla Jugoslavia all’Iraq, e lo stesso vale per la Libia, anche se in questo contesto, vista l’uniformità etnica (i libici sono quasi tutti arabi) e religiosa (la maggioranza schiacciante del popolo libico è di religione musulmana sunnita), prevalgono più che altro conflittualità tra clan e tribù di diverse zone geografiche. Insomma, il problema radicale è la debolezza del tessuto sociale di certi Paesi, problemi spesso creati dal colonialismo un secolo fa, con la creazione arbitraria di Paesi senza una forte identità nazionale. In contesti del genere, che piaccia o no, solo alcune forze con un minimo di autorità possono governare il Paese, e l’unica alternativa è il caos assoluto. Le ingerenze extraregionali gettano nello scompiglio non solo i Paesi vittime di aggressioni esterne, ma anche le nazioni circostanti. Il caos libico ha avuto, come abbiamo visto negli ultimi giorni, ripercussioni in altre zone africane, così il caos iracheno è la base per quello in Siria o viceversa, a seconda dei punti di vista. Ma il tutto poi ha delle ripercussioni in Libano, senza dimenticare la Turchia con l’eterno problema del separatismo curdo. L’Iraq ha un ruolo centrale nella destabilizzazione del Medio Oriente. “Liberando” la scintilla curda in un solo colpo si mette a repentaglio l’integrità territoriale dell’Iraq, della Siria, dell’Iran e della Turchia. Ma la minaccia principale rimane per la Turchia, visto che in Siria i curdi sono pochi e in Iran sul territorio le fazioni separatiste non hanno molta presa. Paradossalmente chi oggi sta soffiando più di altri sul fuoco del separatismo curdo in Iraq è proprio Ankara, che un giorno bombarda il nord dell’Iraq per eliminare le basi del PKK, e il dì successivo sostiene i partiti secessionisti curdi che operano in Iraq contro il governo centrale. Senza ricordarsi però del fatto che i curdi in Turchia sono molti, circa il 25% della popolazione su 75 milioni di abitanti, con una forte presenza sul territorio di gruppi che vogliono l’autonomia. La creazione di un Kurdistan autonomo in Iraq, invoglierebbe anche i curdi di Turchia all’unione in una sorta di Grande Kurdistan.
Il Medio Oriente rimane una regione sempre difficile da decifrare, in pochi anni siamo passati da un interessante progetto di integrazione regionale tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, cosa di cui aveva parlato apertamente anche il presidente siriano Assad, nel 2010, alla guerra di tutti contro tutti, con un inquietante retroscena: la “guerra fredda” regionale tra Ankara e Tehran. Volendo usare una terminologia geopolitica, possiamo dire che l’area tra il Mediterraneo orientale (Libano e Siria) e il Golfo Persico (Iraq, ma anche Bahrain), si è trasformato in un campo di battaglia tra la Turchia e l’Iran, per l’egemonia regionale. Hezbollah, il governo siriano e quello iracheno sembrano gli alleati naturali di Tehran, mentre la Turchia ha incassato l’appoggio di Hariri, dei Fratelli Musulmani, del Qatar e dell’Arabia Saudita. Chi riuscirà a controllare questa zona, avrà in mano il Medio Oriente, chi avrà in mano il Medio Oriente, potrà influenzare in modo importante le dinamiche globali nel XXI secolo, periodo che, volenti o nolenti, sarà ancora legato al petrolio e al gas naturale, risorse strategiche della regione. Anche gli attori extraregionali hanno fatto delle scelte importanti: gli USA e l’UE sembrano decisamente inclini, almeno al momento, ai piani egemonici turchi, mentre Russia e Cina, sempre per il momento, sono coinvolte in un’alleanza tattica con l’Iran. Ma dietro le quinte si muove anche Tel Aviv che vuole cogliere l’occasione del caos nella regione, per levarsi di dosso il peso della Siria assadista, storico alleato di Iran, Hezbollah e resistenza palestinese.
Quindi in questo gioco ha un ruolo anche Tel Aviv, che è attiva con un sostegno alla Turchia, per crearsi una sorta di zona cuscinetto, dalle cose mediterranee al cuore dell’Anatolia, fino al Kurdistan iracheno, dove molti ebrei di origine curda, residenti in Palestina, hanno acquistato negli ultimi anni molti terreni e immobili in patria. La regione è in preda ad un caos, secondo alcuni manovrato, ma finché la Siria non cade, il progetto USA-UE-Turchia-Tel Aviv non sarà mai completo. Per questo oggi, suo malgrado, il governo siriano resistendo agli attacchi esterni, sta facendo un favore enorme anche alla Turchia, principale sponsor delle milizie armate impegnate contro il governo damasceno. Sembra un paradosso, ma è così. Anche questo succede in Medio Oriente.

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