L’ASSE WASHINGTON-TEL AVIV CONTRO L’ASSE TEHERAN-DAMASCO


L’ASSE WASHINGTON-TEL AVIV CONTRO L’ASSE TEHERAN-DAMASCO

:::: Francesco Viaro :::: 5 febbraio, 2013 :::: 
L’ASSE WASHINGTON-TELAVIV CONTRO L’ASSE TEHERAN-DAMASCO
Hezbollah, Siria e Iran sono accomunabili per il fatto di essere alleati in un blocco che si oppone alle influenze statunitensi-israeliane. Colpire uno di questi tre tasselli equivale a colpire l’intera struttura.
Per gli USA e Israele, Hezbollah sarebbe un’organizzazione terroristica. Richard Baehr, direttore politico della rivista conservatrice on-line “American Thinker”, intervistato in merito dalla BBC, la definisce espressamente “terroristica”, poiché come tale si comporta, uccidendo civili e disattendendo a risoluzioni di disarmo dell’ONU – atteggiamenti che, tra le altre cose, possono adattarsi perfettamente alla condotta dello Stato democratico di Israele.
USA e Israele sostengono che Hezbollah sia un’organizzazione alle cui spalle sta l’Iran, che con quest’ultimo stia lavorando per addestrare e armare l’esercito siriano alle prese con i ribelli, ed entrambe sostengono che sempre Hezbollah si trovi dietro l’attentato al bus carico di turisti israeliani in Bulgaria. Secondo gli Stati uniti, Hezbollah avrebbe numerose cellule dormienti, molte delle quali in Europa, pronte ad attivarsi.
Diversamente dagli USA, l’Unione Europea non ha una posizione così netta e omogenea nei confronti di Hezbollah. I Paesi Bassi l’hanno inserita nella lista dei terroristi nel 2004; i britannici distinguono il braccio politico da quello militare; la Francia pensa non sia prudente classificare Hezbollah come terrorista visto il suo potere politico. Gli USA criticano questo atteggiamento e accusano l’Ue di non volerla riconoscere come organizzazione terroristica, per paura di attacchi al suo interno. Oltretutto l’Ue sostiene che non ci siano prove evidenti che renderebbero chiara l’opera di Hezbollah nell’attentato in Bulgaria.
Hezbollah è molto popolare in alcune zone del Libano, essendo riuscita a far ritirare il potente esercito israeliano da alcune zone del Paese. Due uomini, intervistati alla BBC, hanno espresso ammirazione e sostegno a Hezbollah, spiegando come i suoi uomini abbiano respinto le forze armate israeliane dai loro territori e siano stati in grado di farli sentire nuovamente orgogliosi e fieri (1). Oltre tutto, Hezbollah rappresenta una forza importante nel Paese, ma non è al governo, né è radicata su tutto il territorio.
Per quanto riguarda l’Iran, invece, scatenare una guerra adesso non sarebbe prudente né popolare, visto che in Afghanistan gli USA sono ben lontani dall’avere il controllo dell’intero Paese, e che in questo momento hanno questioni interne come il cosiddetto fiscal cliff da affrontare e risolvere. Inoltre, bisognerà vedere se possiedono la capacità economica per sostenere un conflitto lontano e dagli esiti incerti. Obama ha avvertito, anche pressato dalle spinte interventiste dei repubblicani, che la sua politica mira a impedire che l’Iran ottenga armi nucleari e che, se necessario, userà anche la forza.
Seyed Hossein Musavian, ex diplomatico iraniano e negoziatore sul nucleare, ora lavora negli USA: “I believe the core strategy of the US right after revolution has been based on regime change and they have not changed their strategy. I mean even when President Obama announced engagement with Iran, I was very much optimistic. But during three years of Obama’s presidency, we have had the most hostile actions by the US against Iran in the history of Iran-US relations after the Revolution while we were supposed to have engagement policy” (2). Anche intervenire all’interno dell’Iran, tramite strategie di soft-power, sembra non essere una strada vincente, dal momento che l’ “onda verde” si è, almeno momentaneamente, dissolta in schiuma.
Richard Baeh, interpellato dal Jewish Policy Center, dichiara la pericolosità dell’Iran e della sua supposta corsa all’armamento nucleare, ma, viste le scarse probabilità di successo, pensa non sia prudente dichiarare guerra all’Iran. Nondimeno, giacché considera eventuali restrizioni dell’embargo, in ragione anche degli scambi con la Siria, misure pressoché inutili, vede i bombardamenti mirati come unica soluzione, sebbene USA e Israele abbiano idee diverse sulle tempistiche. Le conseguenze di questi attacchi sono, però, incerte e prefigurano conflitti su vastissima scala.
Ecco allora che attaccare la Siria per colpire l’Iran, e secondariamente Hezbollah, può rivelarsi come la strategia migliore, il cavallo di Troia per penetrare nella regione. L’asse Damasco-Teheran è, infatti, dal 1979, in opposizione all’asse USA-Israele in quella regione e la Siria, grazie alla sua centralità nella zona, è il fulcro dell’alleanza Hezbollah, Siria, Iran e, non a caso, quest’ultimo ha sempre dato un supporto incondizionato ad Assad.
In questo contesto, si aggiunge il ruolo della Turchia, in competizione con la Siria per la conquista del “nuovo califfato”, e filo-statunitense. Dal confine con la Turchia passano armi e uomini in aiuto dei ribelli anti-Assad; infatti, è “ormai fatto acclarato che una cospicua parte dei miliziani ribelli non sono di origine siriana ma arabi appartenenti alla dottrina fondamentalista sunnita dei salafiti, provenienti dai paesi del Golfo Persico. Essi penetrano clandestinamente insieme al flusso di armamenti a loro destinati dal confine turco, nord libanese (dove Hezbollah tradizionalmente è poco presente e quindi non può vigilare sul flusso di nemici del loro alleato) e dalla Giordania, Paese che ha sempre mantenuto un profilo geopolitico defilato ma che in realtà offre supporto alle forze atlantiche, in particolare alla Gran Bretagna (a dimostrazione di ciò, se ce ne fosse ulteriore bisogno, si può ricordare uno di quei fatti di per se poco notevoli ma di grande valore simbolico ovvero che l’attuale Re di Giordania, Abdallah II, si è formato militarmente in una accademia militare inglese)”(3).
La Turchia fa, inoltre, parte della NATO, e gli Stati Uniti hanno fatto sapere, venerdì 14 dicembre, che manderanno due batterie di missili Patriot e 400 truppe in zone turche al confine con la Siria. Lo stesso Obama ha avvertito Assad che, se userà le armi chimiche, ci saranno gravi conseguenze e che verrà ritenuto responsabile. I missili che la Siria ha spostato verso il nord del Paese contengono, però, testate convenzionali, e il timore delle armi chimiche richiama inevitabilmente a quelle inesistenti di Saddam Hussein che hanno giustificato la guerra all’Iraq, chiudendo così un conto che era rimato in sospeso. Sebbene, poi, sia forte il sospetto che siano state recentemente usate, nessuno sembra voler dispiegare le proprie forze armate.
Al momento, per concludere, sembra che un intervento diretto degli Stati Uniti in Siria non sia probabile, ma tra il logoramento all’interno del Paese dovuto ai continui conflitti (tanto cruenti quanto poco chiari) e la tensione ai confini con la Turchia, che potrebbe passare ad attacchi più consistenti, può far prefigurare una caduta del regime di Assad. A quel punto, o le forze atlantiste istituiranno un regime ai loro comandi, rischiando di trovarsi una figura impotente come quella di Karzai in Afghanistan, o una sanguinosa lotta che potrebbe portare al potere un regime fondamentalista e imprevedibile.



*Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.


2. http://www.bbc.co.uk/programmes/b01dhq6g “Credo che la strategia di fondo degli USA subito dopo la Rivoluzione si sia basata su un cambio di regime e questa strategia non è cambiata. Anche quando il presidente Obama ha annunciato uno scontro con l’Iran rimanevo assai ottimista. Ma durante i tre anni della presidenza di Obama abbiamo avuto i più ostili atti da parte degli Stati Uniti conto l’Iran nella storia delle relazioni Iran-Usa dopo la Rivoluzione, mentre ci si aspettava una politica di duro confronto”.
http://www.eurasia-rivista.org/lasse-washington-telaviv-contro-lasse-teheran-damasco/18527/

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