Giardino-Paradiso nella Sicilia islamica

Pubblichiamo qui di seguito, come contributo alla più vasta riflessione sul Giardino-Paradiso, una sintesi della conferenza sul tema del “Giardino-Paradiso nella Sicilia islamica” tenuta dal prof. Silvio Marconi, etnoantropologo, a Casa Trinakria (Catania, 15.12.2001).







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Molti temi cari agli antropologi si caratterizzano per un interesse esclusivamente accademico ovvero hanno connessioni con la realtà di vita della maggior parte delle persone che solo con uno sforzo di immaginazione possono essere identificate. Se, ad esempio, per uno studioso può essere rilevante comprendere il senso di un mito o di una scultura dei Dogon del Mali o degli autoctoni dell’isola di Bali, è difficile che un’impiegata, un commesso, un medico, ma anche un’insegnante e uno studente catanese trovino in quella ricerca attinenza con la loro condizione ed i problemi della loro città e della loro isola. 
Al contrario, l’approfondimento delle radici etnostoriche di matrice islamica della Sicilia e del ruolo che essa ha svolto nella loro rielaborazione e diffusione nell’Europa Mediterranea medievale e post-medievale, nonché quello delle ragioni della rimozione e sottovalutazione plurisecolare (e tuttora attiva) di tali questioni, rappresentano fattori imprescindibili per chi voglia affrontare davvero le problematiche socio-economiche, culturali, educative, identitarie, politiche che caratterizzano l’Isola oggi. 

Perché, da un lato, proprio solo dalla valorizzazione di quelle radici censurate può sorgere una rinascita identitaria, culturale, ma anche economica ed occupazionale della Sicilia come laboratorio di civiltà nello spazio mediterraneo e non più area di sfruttamento neocoloniale e pedina militare dell’Impero. In questa logica ed in questo ambito, il tema del giardino-paradiso non rappresenta una scelta fra tante, quanto, invece, la possibilità, a partire da un argomento in apparenza specifico, di affrontare l’insieme stesso, concettuale, simbolico e materiale, delle valenze storiche, attuali e potenziali, di quelle radici. Infatti, la caratteristica principale della realtà, materiale ed immateriale, definita giardino-paradiso sta proprio nella pluralità di implicazioni e di significati che essa realizza. 

Il giardino-paradiso nasce nella protostoria, in ambito oasiano, in quelle aree dell’Iran e dello Yemen (due culture in stretto rapporto fra loro) dove l’ecosistema artificiale dell’oasi ha le peculiarità di dover far fronte a deserti non di dune ma di sassi e di configurare l’orto-giardino in termini chiusi, attraverso la sua cinzione con un muro, tanto che il termine stesso (antico persiano) pairi-daeiza da cui deriva “paradiso” significa appunto “giardino cinto da muri”. 

Questa realtà, che è materiale (implicante complesse nozioni di idraulica, botanica, architettura, ecologia) ed immateriale (ossia concettualizzazione) rappresenta un luogo di vita e benessere, chiuso e riservato, contrapposto all’invivibilità ed alla morte circostante ed è da qui che nasce l’idea stessa di una configurazione in questi termini del premio ultraterreno. Configurazione che si riflette nell’adozione della denominazione e che permea le antiche religioni mediorientali, politeiste ed anche monoteiste (Ebraismo e poi Cristianesimo), ma soprattutto l’Islam, che è l’unica religione monoteista a descrivere esplicitamente il Paradiso dei beati (non solo quello di Adamo ed Eva) proprio in forma di giardino, allietato da tutte le caratteristiche botaniche, paesaggistiche e di “attività di sollazzo” che erano state già proprie del modello rielaborato (sempre in Persia) dell’orto-giardino chiuso: i grandiosi giardini palaziali dell’impero persiano antico, a cui si riferiva Senofonte traslando il termine “paradiso” in "HORTUS Conclusus".

Ed è appunto l’Islam, insignoritosi dell’Iran pochi decenni dopo la morte del Profeta Mohammed, che si fa rielaboratore e diffusore della realtà e della concezione del giardino-paradisonel Mediterraneo e che la porta, dopo il 711 d.C., in Andalusia e, dopo l’827 d.C., in Sicilia, trasformando questi due luoghi in ponti e crogioli rielaborativi di quella duplice realtà, materiale ed immateriale, nei confronti di tutta l’Europa che, nel frattempo, aveva perduto la grande lezione di matrice persiana appresa nella tarda età romana (fase tardo-repubblicana ed imperiale) e non avrebbe mai avuto né i geometrici chiostri conventuali a giardino, né i grandi giardini palaziali rinascimentali e post-rinascimentali senza questo apporto rinnovativo, islamico, attraverso Andalusia e Sicilia.

Quella duplice realtà implicava livelli di interazione con l’ambiente e con l’Uomo assai complessi ed “a rete”; non solo essa costituiva esempio e laboratorio di avanzate soluzioni tecniche idrauliche, di diffusione di essenze botaniche (quali agrumi e gelso), di selezione di piante e fiori (quali le rose), di formalizzazioni architettoniche, ma era anche luogo di realizzazione di attività diverse, che andavano dalla composizione ed esecuzione musicale e poetica alla discussione filosofica, dalla circuitazione di dati storici, leggende, precetti religiosi, aneddoti, elementi stilistici alla pratica erotica, dalla sperimentazione gastronomica al misticismo. Più ancora, il rapporto fra “contenitore” (il giardino-paradiso) e “contenuto” (le azioni che vi si svolgevano) era basato su una complessa dialettica speculare, dato che il tema di buona parte delle composizioni letterarie e musicali che fiorivano nei giardini-paradiso era connesso alle caratteristiche stesse di quei giardini, delle loro piante e geometrie e delle attività che vi si svolgevano, in un continuo gioco di rimandi che implicava anche la compresenza di livelli di significato e di lettura diversi ma intrecciati, in cui si interconnettevano, ad esempio, estetica, erotismo, simbolismo, misticismo.

Per fare un solo esempio, la rosa era utilizzata per la sua bellezza cromatica ed il suo profumo, ma essa conteneva anche il simbolo della sessualità femminile e più specificamente del sesso stesso della donna e, contestualmente, la simbologia più profonda ne faceva simbolo dell’unione mistica con Dio, in forme che, specie per alcune correnti sufiche, non erano affatto contraddittorie con le sue valenze erotiche, visto che tali correnti (che influirono anche su grandi mistiche cattoliche come Teresa d’Avila) vedevano nell’orgasmo una via di unione estatica con Dio. E la rosa fu, al tempo stesso, uno degli elementi di più netta matrice iranica ed una delle realtà che maggiormente permearono, con la sua pluri-simbologia, non solo le miniature persiane, le liriche erotiche dell’innovatore musulmano Abu Nuwàs (VIII secolo) o i versi del siculo-arabo Ibn Hamdis (XI secolo), le decorazioni architettoniche turche, ma anche le concezioni e l’arte eurocristiane posteriori, dalle poesie di Ciullo d’Alcamo (Rosa fresca aulentissima) e degli altri autori della Scuola Siciliana federiciana alla rosa dei beati della Commedia di Dante, dai dipinti del Botticelli al cosiddetto “Gotico fiorito”, dal folklore seicentesco inglese (come nella canzone marinaresca a doppio senso The bunny bunch of roses) a quello ottocentesco padano (come nella canzone Rosa, rosella).


Conseguentemente, l’affermarsi in Sicilia del modello del giardino-paradiso ebbe implicazioni che interessavano certo l’assetto del territorio, l’agronomia, la tecnica, ma anche la letteratura, l’arte, la musica, la filosofia, il misticismo; tanto più sotto la dinastia (sciita e quindi con forti contatti con l’Iran) dei Fatimidi, che da un lato accentuò il carattere plurisimbolico, anche in forme criptiche, e dall’altro estese all’intera Isola il concetto di giardino-paradiso, tendendo a modellarne in tal modo il territorio, in forme che coniugavano eco-compatibilità, produttività e simbologie in modi che ancor oggi potrebbero servire da ispirazione a chi volesse invertire la logica del saccheggio di coste, terre e risorse idriche che invece impera più che mai. Ed è la proiezione in età politicamente normanna ma culturalmente ancora largamente islamica del modello fatimide, nei giardini palaziali di Palermo (Zisa, Cuba, Favara) e di altri centri isolani (detti “sollazzi” dai Normanni), che dà vita a realizzazioni di cui ci resta un riflesso nelle decorazioni del soffitto della Cappella Palatina ma, sul terreno, poco e niente grazie alle devastazioni iniziate in età angioina e proseguite fino ai nostri giorni, con “restauri” distruttivi e finalizzati a camuffare da “stile nordeuropeo” (come denuncia l’architetto Bellafiore) ciò che era islamico. Ma pure in quel “poco e niente” rimangono tracce di quella complessa poli-significazione, come nell’atrio della Zisa palermitana, dove l’acqua fuoriusciva dall’interno del palazzo a fecondare il giardino (ora distrutto) attraverso un foro in una parete decorata da mosaici a motivi persiani (pavoni) ed uno scivolo in pietra dentato in modo da provocarne il ruscellamento, con effetti sonori e con l’impressione che i pesci ivi disegnati rimontassero la corrente; quell’apparato detto salsabil (1) dall’innegabile impatto scenografico era, infatti, anche la rappresentazione della concezione della cripticità sciita ismailita, di una verità nascosta che dà vita alla realtà esterna solo di chi ha accesso iniziatico al luogo del sapere.

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