LA FINE DEL TERRORISMO O L’INIZIO DEL MULTIPOLARISMO?


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LA FINE DEL TERRORISMO O
L’INIZIO DEL MULTIPOLARISMO?

di Andrea Fais

Osama Bin Laden è stato ucciso in un blitz delle forze speciali dell’Esercito degli Stati Uniti, in Pakistan a circa cento chilometri dalla capitale Islamabad. A darne l’annuncio è stato il Presidente Barack Obama, che ha parlato davanti a milioni di cittadini americani, mandando in tilt i canali di informazione di tutto il mondo. A circa dieci anni dall’Undici Settembre, gli Stati Uniti concludono la loro lunghissima opera di investigazione internazionale, chiudendo il cerchio delle indagini. Quel terribile attentato in quattro atti (i due aerei schiantati sul World Trade Center, l’aereo schiantato contro una fiancata dell’edificio del Pentagono e l’aereo abbattutosi accidentalmente in una foresta della Pennsylvania), aveva avviato un’epoca completamente nuova. Non soltanto, come i media più generalisti stanno ripetendo, nella percezione dei cittadini di tutto il mondo era cambiato l’approccio ai problemi internazionali, risvegliando bruscamente un villaggio globale fino ad allora troppo “utopico e idealista”, ma quel giorno si sarebbe aperta una nuova epoca anche sul piano geopolitico. Gli Stati Uniti, da quel momento, tornarono a sentirsi pienamente in guerra, e, con la National Security Strategy del 2002, avrebbero dato il via ad una delle più controverse e contraddittorie dottrine strategiche della loro storia: la dottrina della «guerra preventiva».
La vastità dell’attacco contro gli Stati Uniti, e le sue enormi conseguenze in termini sociali e politici, giocarono un ruolo essenziale ai fini della ricerca del consenso internazionale. Quel clima politico pose le basi per un quinquennio denso di avvenimenti e di controversie, che annovera due massicci e costosissimi interventi militari, in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003), tutt’oggi in fase di completamento, di cui uno, quello contro il governo di Saddam Hussein, dimostratosi successivamente illecito e privo di fondamento investigativo, in virtù dell’ormai chiara inattendibilità del dossier presentato dai servizi di intelligence britannici e americani per ottenere un via libera immediato all’intervento. Il concreto pericolo internazionale costituito dal potenziale utilizzo delle strumentazioni classificate quali WMD (weapons of mass destruction) da parte di Stati palesemente ostili o da organizzazioni terroristiche trans-nazionali, in Iraq non è mai esistito. Eppure, le scuse di Colin Powell tre anni dopo l’avvio della Seconda Guerra del Golfo, non bastarono. Si preferì a quel punto, aggiustare il tiro, sostenendo che, in ogni caso quello di Saddam fosse un regime politico da eliminare, completando le operazioni di guerra avviate nel 1991, e poi bruscamente interrotte.
Effettivamente la cosiddetta operazione Desert Storm, che costituì la «colonna portante» della prima Guerra del Golfo, aveva già iniziato a rivoluzionare diverse questioni in campo. La separazione e distinzione temporale tra manovra (sfondamento) e potenza di fuoco (logoramento), tipica della cosiddetta guerra sequenziale, veniva abbandonata per inseguire modelli misti, che all’azione di sfondamento delle linee aeree accompagnasse una manovra risolutiva delle forze terrestri, dando avvio a quella che viene comunemente definita quale guerra simultanea[1]. Quel primo terribile intervento ai danni dell’Iraq, giocò dunque su due precisi fattori congiunturali, di cui uno propriamente geopolitico e l’altro propriamente strategico:
-         l’indebolimento contemporaneo dell’Unione Sovietica, all’epoca ormai prossima alla disintegrazione interna, e favorevole, con Gorbaciov, all’intervento della coalizione internazionale costituitasi in seno all’Onu
-          l’introduzione di nuovi sistemi e reti di integrazione tecnologica militare tra le linee d’attacco strategico aeree e terrestri
Questi fattori, avrebbero posto le basi per un predominio pressoché totale da parte dell’unica super-potenza rimasta che, da un lato, sarebbe proseguito nell’opera di supporto delle principali organizzazioni non-governative (o presunte tali) che potessero avviare rivoluzioni politiche “controllate” all’interno degli Stati ancora potenzialmente ostili all’espansionismo della sfera d’influenza di Washington (strategia soft-power), e dall’altro avrebbe permesso di neutralizzare militarmente le potenziali minacce e le residuali aree di ostilità (strategia hard-power), “multilateralmente se possibile, ma unilateralmente se necessario”, citando il Segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright[2], che sembrò aver applicato alla lettera questo dettame anche nella circostanza dell’intervento ai danni della Serbia nel 1999.
Tuttavia, quello nel Golfo e quello nei Balcani erano conflitti ancora in parte tradizionali. Ferma restando la totale inferiorità strategica dei rispettivi arsenali di Saddam Hussein e di Slobodan Milosevic dinnanzi al potenziale della prima potenza globale, l’obiettivo dell’offensiva atlantica si identificò con l’abbattimento di uno Stato politico. Quando, al contrario, a provocare l’intervento della Nato fu una rete terroristica di matrice internazionale e a ramificazione trans-nazionale, come Al Qaeda, divenne più chiaro e definito cosa si intendesse per «guerra a-simmetrica»: il confronto era assolutamente inedito, nella misura in cui a “dichiarare guerra all’Occidente” era stato un avversario privo di un territorio, privo di una chiara ed evidente struttura militare, dunque imprevedibile e potenzialmente distruttivo. La dissuasione nucleare della Guerra Fredda, il campo dei rapporti di forza internazionali garantito dal concetto di Mutual Assured Destruction – tanto “moralmente terribile quanto geopoliticamente stabile – non avevano più alcun senso. Dopo il 1991, cominciò ad essere pesantemente ridimensionata proprio la presunzione del buon senso del nemico, ossia quella presumibile certezza di cautela del Cremlino, sulla quale l’Occidente scommetteva con rischi pressoché quasi nulli[3].
Il nuovo avversario, inoltre, fondava (almeno in apparenza) la sua azione sul fanatismo di matrice islamica, lasciando cadere, dunque, qualsiasi criterio strategico fondato sull’assunto di razionalità del nemico. Se il fine sta nell’islamizzazione del pianeta (imperialismo teologico), e il mezzo che lo giustifica sta nel martirio (terrorismo), allora non ha più alcun senso porsi all’interno delle tradizionali categorie della dialettica militare e nell’ambito della scienza strategica in generale. La dottrina della guerra preventiva doveva dunque rispondere in modo netto e definitivo alle nuove esigenze (guerra a-simmetrica e WMD) in modo adeguato ed essenzialmente unilaterale (Stati Uniti e Nato da soli di fronte ad un nemico non identificabile in nessuna precisa zona del pianeta). Negli Anni Novanta, e soprattutto dopo l’avvio delle prime integrazioni nella Nato dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, “non c’era nulla che l’America e l’Europa insieme – le due superpotenze geopolitiche e i giganti economici con una nascente identità politica comune – non potessero fare, se ne avessero avuto la volontà[4]. Tuttavia l’alleanza nord-atlantica, complice l’euforico clima idealista dell’era Clinton, sembrava sottovalutare la portata sociale e politica della disgregazione dell’Unione Sovietica e della Federazione Jugoslava. Tra il 1989 e il 1991, non era crollato soltanto un blocco politico-economico (gran parte del «campo socialista»), ma anche e soprattutto lo schema strategico di un gigantesco sub-continente eurasiatico compreso tra i Balcani e la Mongolia.
Soltanto George H. W. Bush nel 1990, sembrò comprendere, seppur superficialmente, la portata di questa catastrofe geopolitica, allorquando frenò gli entusiasmi dei nuovi rampolli ucraini, ansiosi per un rapido separatismo dalla Russia, manifestando una prudenza tutta tesa a favorire un processo di immediato ripristino di una qualche stabilità politica[5]. Quando, però, una Germania ormai riunificata e smaniosa di recuperare la vecchia supremazia mitteleuropea, riconosce l’indipendenza della Slovenia e della Croazia, e Boris Eltsin prende il potere in Russia eclissando Gorbaciov e consegnando la vicenda dell’Unione Sovietica agli annali, gli eventi imprimono un’accelerazione catastrofica al corso storico, rendendolo incontrollabile e denso di potenziali pericoli.
Gli intrecci e le trame della Cia e dell’MI-6 in Asia e in Medio Oriente durante la Guerra Fredda si contano ancora a migliaia, e i loro lasciti assumevano, sin dagli Anni Novanta, una portanza del tutto indecifrabile. Si trattava di un vecchio modus operandi della Gran Bretagna nel XIX secolo, mutuato da Washington nel XX. Modificare gli spazi, operare una frattura od imporre uno status-quopolitico, sono le principali operazioni tattiche di intelligence che questi due Imperi – quello di Londra e quello degli Stati Uniti – seppur in tempi e in modi diversi sembrano aver applicato a più riprese negli ultimi centosessanta anni. Il declino del vecchio ordine coloniale, ne ha solo accelerato lo svolgimento ed aumentato, in certi casi, la brutalità. Il formale raggiungimento dell’indipendenza dell’India, ad esempio, fu accompagnato dall’imposizione di una nuova suddivisione del suo territorio, chiudendo alla neo-nata repubblica indipendente i principali sbocchi settentrionali attraverso la creazione del Dominion del Pakistan, ripartito nelle due parti occidentale (l’attuale Repubblica Islamica del Pakistan) e orientale (l’attuale Bangladesh). Quella ridefinizione fu alla base di numeroseescalation e di un costante clima di destabilizzazione all’interno dell’Asia meridionale, provocando dispute che, a un certo punto, coinvolsero persino l’Unione Sovietica e la Cina, a loro volta impegnate in un serrato confronto polemico durato almeno vent’anni, irrigidendo le opposizioni consolidatesi nelle opposte alleanze tattiche Cina-Pakistan e Urss-India anche nel contesto dell’intervento sovietico in Afghanistan nel dicembre del 1979.
Ed è qui, che la Cia iniziò a tessere una delle più proficue trame di contatto, almeno in chiave tattica, con le organizzazioni dell’estremismo islamico, in continuità con i già notevoli rapporti con paesi islamici quali Turchia, Pakistan e Iran, membri del CENTO (Central Treaty Organization), studiato e progettato negli Anni Cinquanta, assieme al SEATO (South East Asian Treaty Organization), nell’ottica del contenimento della sfera d’influenza sovietica lungo il cosiddetto Rimland eurasiatico, già individuato dal teorico geopolitico Nicholas Spykman. Oggi è Gennadj Gudkov, vice-presidente del Comitato per la Sicurezza, presso la Duma di Stato a Mosca, a descrivere sarcasticamente la cattura e l’uccisione di Bin Laden attraverso la sintetica formula del «io ti creo, io ti distruggo», ricordando come proprio Osama Bin Laden (probabilmente anglizzato in Tim Osman) abbia lavorato sotto l’egida della Cia per tutti gli Anni Ottanta, ospitando e coordinando l’addestramento dei mujaheddin afghani[6], sostenuti da Arabia Saudita, Pakistan, Stati Uniti e Gran Bretagna, al fine di destabilizzare la Repubblica Democratica dell’Afghanistan, fondamentale alleato dell’Unione Sovietica in Asia Centrale, assieme alla Repubblica Popolare di Mongolia.
Proprio riprendendo il potere in un Afghanistan ormai lasciato al suo destino, dopo il ritiro dell’esercito sovietico deciso da Gorbaciov e dopo la criminale uccisione del Presidente Mohammad Najibullah nel 1996, la trama del terrore di Bin Laden ha potuto ricostruire una sua rete a partire proprio dai territori ex comunisti dell’Unione Sovietica e dei Balcani, appoggiandosi ai focolai integralisti nelle regioni di tradizione islamica. L’inchiesta condotta nel 2008 dalla reporter norvegese Kirstin Aalen, ha messo in luce il percorso del terrorismo wahabita tra la fine degli Anni Ottanta e la fine degli Anni Novanta, a partire dall’Azerbaigian, dalla Cecenia e dalla Bosnia: secondo quanto riporta la giornalista scandinava, agenti americani e uomini d’intelligence avrebbero infiltrato migliaia di mujaheddin (precedentemente preparati e addestrati secondo i più rigidi canoni di guerriglia) a Baku, a Grozny e a Sarajevo, in modo da scatenare un’ondata di rivolte e guerre civili alla periferia dell’enorme territorio sovietico e nelle zone centro-settentrionali dell’ex Yugoslavia, senza contare che tra il 1995 e il 1997, Al Qaeda avrebbe addestrato l’esercito di liberazione del Kosovo, meglio noto come UCK, mentre, in base a fonti britanniche interne, l’agenzia di intelligence MI6 avrebbe versato addirittura 100.000 sterline alla cellula libica di Al Qaeda per assassinare Gheddafi[7], imponendosi così anche all’interno del territorio africano, in un’area compresa tra Algeria (Gruppo Islamico Armato), Sudan (Fronte Nazionale Islamico), Egitto (Al-Zawahiri) e Somalia (Shabaab). L’organizzazione di Bin Laden, in seguito entrato in rotta di collisione anche con la monarchia della natia Arabia Saudita, cercava di compattare i diversi movimenti islamici sparsi nei tre continenti del Vecchio Mondo, fornendo loro supporto economico, formazione ideologica e preparazione tattica.
L’Undici Settembre è ben inquadrabile dunque come il compimento, tutt’ora denso di macchie oscure nelle indagini mai chiarite in via definitiva[8], di una trama terroristica internazionale che si è pesantemente avvantaggiata, per oltre quindici anni (dall’inizio degli Anni Ottanta sino alla fine degli Anni Novanta), del sostegno logistico delle intelligence occidentali, in primis quella statunitense e quella britannica. Un atteggiamento ambiguo e apparentemente irrazionale, che ha come unico scopo la costruzione di una diplomazia a senso unico, e la creazione di un consenso universale a forme di imperialismo mascherate attraverso la retorica dei diritti umani e della libertà, ma assolutamente rintracciabili già solamente in quel «doppio peso» nella percezione e nella valutazione del terrorismo, enfatizzato, perfino oltremisura, non appena esso potrebbe coinvolgere i Paesi occidentali, ma sempre sminuito, sottovalutato o addirittura sostenuto (è il caso del Partito Radicale e di molte forze o correnti politiche delle nazioni occidentali, che sostengono apertamente gli estremisti ceceni, dagestani e uiguri) allorquando questo colpisce la Russia, la Cina, l’India e, in generale, quei Paesi che, internazionalmente, esprimono interessi strategici ed economici dissonanti rispetto alla Nato e all’Area Trilaterale delle principali economie di libero mercato (Nord America, Eurozona, Giappone).
Cosa potrebbe cambiare, dunque, con la morte di Bin Laden, ammesso che questa sia realmente avvenuta nei tempi e modi precisati da Barack Obama? Nei fatti nulla, perché le vere logiche geopolitiche che da trent’anni muovono l’azione di Bin Laden, la stessa Al Qaeda e la rete ad essa ricollegabile, sono ancora in vita, oggi più che mai. Si potrebbe però aprire una fase nuova nell’approccio di politica internazionale degli Stati Uniti – invero già avviato – che chiuda definitivamente con la (apparente) contrapposizione tra Occidente e Islam tipica dell’era Bush, quanto meno sino al 2006, allorquando al Dipartimento per la Difesa arrivò il ben più risoluto e pragmatico Robert Gates (ex direttore della Cia negli Anni Ottanta), al posto del falco neo-con Donald Rumsfeld, cofondatore del Project for a New American Century nel 1997, assieme ad altri esponenti della destra conservatrice americana. Gates è tutt’oggi Segretario alla Difesa dell’amministrazione Obama, e la strategia predisposta dalla sua squadra non modifica di una virgola gli obiettivi statunitensi di prosecuzione della guerra al terrorismo internazionale di Al Qaeda, attraverso il completamento degli impegni in Afghanistan e in Iraq, secondo una più accorta strategia di difesa, che tenga conto della redistribuzione della forza politico-economica nel mondo e del contemporaneo sviluppo di nuovi attori geopolitici mondiali come la Cina e l’India[9], stante la partita sempre aperta, specie in ambito missilistico, con la Russia. Aggiungendo la co-presenza nel National Security Council del redivivo Zbigniew Brzezinski, principale artefice del supporto ai mujaheddin afghani negli Anni Ottanta, tutto appare abbastanza chiaro. Si chiude definitivamente una fase avviata al tramonto già quattro anni e mezzo fa, e se ne apre una nuova, dove il confronto tra le principali potenze mondiali e tra le rispettive alleanze militari, si farà indubbiamente più diretto e meno mediato, riacutizzando lo scontro tra potenze e tra Stati in genere, aprendo la strada ad un probabilissimo lento ma inesorabile declino del concetto di «guerra a-simmetrica».

[1] C. JEAN, Militaria – tecnologie e strategie, Prima Sezione, Cap. 1 – Tecnologia, armamenti e strategia, CSGE, Franco Angeli Editore, Milano, 2009, p. 22
[2] C. JEAN, Militaria – tecnologie e strategie, Prima Sezione, Cap. 3 – La seconda era nucleare, CSGE, Franco Angeli Editore, Milano, 2009, p. 61
[3] C. JEAN, Militaria – tecnologie e strategie, Prima Sezione, Cap. 3 – La seconda era nucleare, CSGE, Franco Angeli Editore, Milano, 2009, p. 65
[4] Z. BRZEZINSKI, L’ultima chance – la crisi della super-potenza americana, Cap. IV – L’impotenza delle buone intenzioni (e il prezzo dell’indulgenza verso se stessi), Salerno Editrice, Roma, 2008, p. 82
[5] Z. BRZEZINSKI, L’ultima chance – la crisi della super-potenza americana, Cap. III – Il peccato originale, Salerno Editrice, Roma, 2008, pp. 50-52
[6] TMNEWS, Bin Laden / Duma: Era il genio uscito dalla lampada della Cia, Esteri, Mosca, 2 maggio 2011
[7] K. AALEN, Terrorister jobber for vestlige land, Aftenbladet.no, 24 novembre 2008
[8] Su tutte, le dinamiche operative dell’attentato, le condizioni logistiche che non ne hanno impedito lo svolgimento e le modalità tecniche dello stesso crollo dei due edifici del WTC
[9] QUADRENNIAL DEFENSE REVIEW REPORT, Defense Strategy, 2010, Washington, pp. 5-7


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