RIVOLUZIONE, SOCIALISMO E PANARABISMO


RIVOLUZIONE, SOCIALISMO E PANARABISMO

Questo articolo rappresenta solo uno spunto per la riflessione, e lo proponiamo in occasione dell'anniversario della nascita del Partito socialista arabo. Non rappresenta necessariamente la linea editoriale di questo blog. 



Il ruolo della Repubblica Araba Siria quale centro geopolitico e strategico di tutto il Vicino Oriente è da noi stato sottoscritto in tempi non sospetti; abbiamo sottolineato più volte che se esiste ancora oggi una prospettiva rivoluzionaria nel mondo arabo questa passa inevitabilmente da Damasco crocevia e soluzione della moltitudine di problemi ancora in sospeso e aperti che affliggono l’intera regione.

La centralità geopolitica siriana è data dalla sua posizione geografica che la porta ad essere il punto di intersezione delle questioni palestinese, libanese e irachena: Damasco pertanto rimane la principale capitale araba attorno alla quale ruoteranno domani, come ieri, le possibilità di fuoriuscita del mondo arabo dall’impasse che da mesi ha paralizzato l’intera zona; se esiste un alternativa rivoluzionaria al nuovo ordine mondiale che vorrebbero imporre gli apprendisti stregoni dell’alta finanza e dell’imperialismo questa avrà quale centro nevralgico per l’intero Vicino Oriente la capitale siriana.

Storicamente il ruolo svolto dalla Repubblica Araba Siriana è quello di vettore rivoluzionario, socialista e nazionale, che ha promosso la visione panarabista comune al movimento dei nazionalisti arabi del secondo dopoguerra mondiale e successivamente incoraggiata e ripresa dalla rivoluzione nasseriana egiziana.

Per comprendere in pieno il movimento panarabista occorre ricordare come in due distinte occasioni furono tentate delle unioni tra Siria ed Egitto: nel 1958 la nascita della R.A.U. (Repubblica Araba Unita) rappresentò forse il momento di massimo successo dell’ideale panarabo.

Diversamente tre anni più tardi, nel 1961, saranno proprio i siriani ad abbandonare l’idea del panarabismo con conseguenze in parte disastrose per tutto il movimento del nazionalisti arabi.

La secessione siriana – alla quale farà da contrappeso una analoga posizione assunta nello stesso periodo da Nasser al Cairo – favorirà un movimento culturale nazionalista che intenderà muoversi ponendo la centralità storico-culturale dell’identità siriana, le sue tradizioni nazionali, una forma nuova di cultura.

La storia della Siria da quasi cinquant’anni si incrocia con quella del Partito Ba’ath al governo a Damasco dai primi anni Sessanta.

Il Ba’ath (Partito della Rinascita e del Rinnovamento Arabo) nasce dall’incontro tra due intellettuali siriani, il cristiano Michel Aflaq ed il musulmano Salah Bitar.

Originariamente però si ricorda il ruolo e l’azione politica che svolse nel decennio precedente (anni Trenta) un giovane alawita siriano, Zaki al ‘Arsùzi di Alessandretta.

Arsùzi aveva esposto un programma politico irredentista per la sua città (che in base agli accordi di pace di Versailles era stata attribuita alla neonata Repubblica di Turchia) in nome di quelli stessi ideali pan-arabi che ritroveremo alla base del futuro partito Ba’ath.

La dimensione laica del futuro partito sarebbe stata sottolineata dalla disomogeneità religiosa dei suoi fondatori: cristiano Aflaq, sunnita Bitar come Akram el-Hourani (che raggiungerà il gruppo successivamente e sarà lui a propendere per l’aggiunta della dizione “socialista” del partito) e l’alawita Arsùzi.

Si deve a quest’ultimo, nel 1939, la divisione in due branche del movimento: un’ala militare e politica venne definita “Partito Nazionalista Arabo” l’altra più culturale fu soprannominata Ba’ath.
Michel Aflaq (in arabo: ميشيل عفلق, Mīšīl ˁAflaq, talora trascritto ˁAflak; Damasco, 1910 – Parigi, 23 giugno 1989) viene unanimemente riconosciuto come il fondatore indiscusso del partito Ba’ath che rappresentò nel secondo dopoguerra una delle forme più diffuse e organizzate del nazionalismo panarabo.
Nato a Damasco da una famiglia greco-ortodossa dopo aver frequentato le scuole occidentali nella Siria occupata dai francesi Aflaq frequentò l’Università “La Sorbona” di Parigi centro, negli anni Trenta, di un crocevia di numerose esperienze rivoluzionarie che dall’estrema sinistra marxista al nazionalismo d’impronta fascista andranno ad influenzare profondamente il mondo arabo.
Sarà proprio in Europa che Aflaq svilupperà le sue idee politiche fondate sulla commistione di socialismo e nazionalismo: per Aflaq gli arabi costituivano un’unità inscindibile sia culturalmente che linguisticamente e religiosamente; dovevano trovare un’unità politica e lottare per ottenere la liberazione dal colonialismo europeo se intendevano ritrovare la strada del riscatto e della rinascita.
Interessante è ricordare come le letture preferite di Michel Aflaq fossero state nel periodo parigino tanto Nietzsche quanto alcuni dei classici del nazionalismo europeo ottocentesco fra cui gli scritti di  Giuseppe Mazzini
In un primo momento i due giovani nazionalisti arabi furono affascinati anche dagli scritti di, Karl Marx, Friedrich Engels, Lenin, André Gide e Romain Rolland tutti autori legati al materialismo dialettico.
Queste letture avvicineranno entrambi, una volta rientrati in patria, al Partito Comunista Siriano.
Un feeling di breve durata perché dopo la costituzione in Francia del Fronte Popolare di Leon Blun (1936)  – che negò la restaurazione dei diritti del popolo siriano e confermò lo stato di sudditanza della Siria alla Francia – i due si allontanarono progressivamente dai comunisti siriani accusandoli di sottomissione ai loro compagni francesi.
Rientrato in patria Aflaq lavorò come insegnante e cominciò a frequentare alcuni circoli politici: venne arrestato nel 1939. Proprio in carcere conoscerà Salah Bitar, un giovane musulmano che aveva creato un circolo politico indipendente e d’impronta laica.
Sarà dal confronto tra i due e dalla comunanza delle rispettive idee che prenderà corpo l’idea di unire le forze e creare un movimento politico rivoluzionario.
Nel settembre 1940, dopo il crollo della Francia di fronte all’avanzata delle truppe tedesche, Michel Aflaq e Salāh al-Dīn al-Bītār crearono il primo nucleo di quello che sarebbe poi diventato il partito Ba’ath: la prima conferenza nazionale del Ba’ath avverrà nell’aprile del 1947 nella capitale siriana ma quella che, di lì a pochi anni, sarebbe diventata una forza rivoluzionaria con migliaia di iscritti e militanti in tutto il mondo arabo era nata attorno ad un tavolo di un bar di Damasco.
Per ammissione dello stesso Aflaq comunque il partito rimase circoscritto a poche centinaia di unità,  al I congresso del partito nel 1947, i membri regolari partecipanti erano appena una decina, per giungere alla rispettabile cifra di 4.500 solo nel 1952 grazie all’ingresso nel partito di un buon numero di studenti, di insegnanti, di avvocati e di medici.


I due gruppi fino a quel momento ristretti ad una piccola cerchia di giovani borghesi ed intellettuali delle classi medie dopo la fusione avrebbero guidato un partito politico di massa, popolare e largamente riconosciuto per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta come avamposto della rivoluzione araba.
Nel 1949 Aflaq fu per un brevissimo periodo ministro dell’istruzione siriana. I sommovimenti politici e l’instabilità del paese lo costrinsero nel1952 alasciarela Siriain fuga dal regime, per ritornarvi nel 1954.
Il nuovo partito propagandava il riscatto della nazione araba, basando la sua azione politica sulla rabbia ed il risentimento anti-colonialisti ampiamente diffusi in larghi strati della popolazione in Siria come nel resto del mondo arabo. A queste ispirazioni, base dell’ideologia ba’athista, si fusero le idee più vicine alla dialettica marxista di giustizia sociale, di emancipazione dalla miseria e risveglio degli oppressi di cui si farà portavoce Salah Bitar.
Un forte sviluppo al partito sarà costituito dalla fusione avvenuta nel novembre 1952 del Ba’ath con il Partito Socialista Arabo di Akram al Hourani che porterà in dote un gran numero di iscritti soprattutto contadini e proletari delle periferie di Hama, Aleppo e Damasco che costituiranno fin dall’inizio l’ala “sinistra” del Ba’ath.
All’epoca della fusione in occasione del convegno organizzato ad Aleppo dallo stesso Hourani i simpatizzanti erano già oltre 40mila.
Hourānī veniva da una lunga militanza nelle file del Partito Nazionale Socialista Siriano, un’organizzazione assai peculiarmente “socialista” e d’impronta fascista, molto forte nel vicino Libano in cui era stata fondata agli inizi degli anni Trenta da Antūn Sa’adah.
Dopo questa militanza Hourānī era stato animatore di un piccolo partitino fondato dal cugino Uthmān (il Partito della Gioventù – Hizb al-shabāb) che anche nel nome richiamava alle esperienze fasciste e nazionalsocialiste europee.
Fu per affinità ideologiche ma anche per la sua capacità di galvanizzare le masse e per il seguito di cui godeva all’interno del mondo contadino che la fusione ebbe luogo nel 1952 e, se il programma d’azione doveva rimanere essenzialmente quello del Ba’ath, la denominazione di Partito Arabo della Rinascita si accrebbe però dell’aggettivo “socialista”.
Molte delle idee iniziali del Ba’ath sarebbero state prese in prestito sia dall’estrema sinistra che dall’estrema destra europee: molti ba’athisti provenienti dalle fila del P.N.S.S. libanese non nascondevano le loro simpatie per gli esperimenti sociali e le idee politiche mussoliniane e hitleriane (il PNSS assumerà come simbolo del partito lo svastica hitleriano …mutava solo il colore rispetto a quello adottato dall’NSDAP tedesco agli inizi degli anni Venti) e il suo fondatore, Antun Sa’adah visiterà l’Italia ela Germaniaprima dello scoppio della seconda guerra mondiale; analogamente altrettanti futuri dirigenti ba’athisti avevano militato nelle organizzazioni marxiste.
Il direttivo dopo la fusione venne costituito da 3 ba’athisti (lo stesso Aflaq, Bītār e al-Sayyid) mentre del Partito Socialista Arabo entravano lo stesso Hourānī e il cristiano ortodosso Antūn Maqdisī, professore universitario a Damasco.
Dopo la fusione, per tutti gli anni ’50 si assiste all’allargamento della base di consenso in Siria, in Iraq ed in Giordania.
L’obiettivo essenziale per i ba’athisti era quello della nascita di una sola grande nazione araba, dal Libano al Sudan, dall’Iraq al Marocco e coniugavano le istanze revanscistiche nazionali e culturali del mondo arabo con la richiesta di un miglioramento delle condizioni sociali, riforme strutturali di stampo socialista e la fine dei protettorati stranieri con il raggiungimento della piena indipendenza di tutte le nazioni arabe.
La visione populista e socialisteggiante del nuovo partito non poteva ovviamente non criticare profondamente quelli che venivano definiti come retaggi oscurantisti e del passato colonialista a cominciare dalle petrolmonarchie dei paesi del Golfo che divennero presto uno dei bersagli preferiti di ogni nazionalista arabo.
Per l’ideologia del Ba’ath infatti non era possibile auspicare l’unità nazionale araba senza l’abbattimento di questi stati-fantoccio invenzioni delle potenze coloniali che si preoccupavano di mantenere il controllo sulle risorse petrolifere della regione: piccoli monarchi di stati inventati di sana pianta dall’Inghilterra che letteralmente sedevano su immense fortune energetiche lasciavano morire di fame milioni di loro fratelli nelle nazioni prive di petrolio quali eranola Siria,la Giordania, il Libano ola Palestina.
Agli occhi dei ba’athisti questi Stati-truffa, senza storia, semplici fazzoletti di terra che navigavano su mari di petrolio non avevano alcun diritto di esistere: era questa disparità sociale per i nazionalisti arabi che indeboliva il fronte rivoluzionario e negava alla Nazione Araba il suo riscatto.
“Unità, libertà, socialismo” saranno le parole d’ordine che condenseranno il pensiero politico e l’ideologia rivoluzionaria ba’athista.
Un problema che sorse immediatamente fu quello relativo alle inconcludenti precisazioni teoretico-ideologiche che, soprattutto in Siria e Giordania (almeno nei primi anni) indebolirono non poco il partito (e che giunsero a far definire tutto ciò una “vera e propria babele ideologica” al noto studioso iracheno Hanna Batatu); in Iraq al contrario le basi dell’ideologia elaborate essenzialmente da Aflaq andavano riscuotendo sempre più attenta considerazione.
Occorre dire che il maggior ideologo del Ba’ath era però in parte responsabile di questa confusione: nel suo pensiero si affrontano infatti, in modo non sempre esemplarmente chiaro, concezioni nazionalistiche, individualistico-illuministiche e democratico-radicaleggianti, di stampo quasi giacobino.
“Secondo gli studi degli esperti politici internazionali, il ba’th rivela una struttura complessa, in parte paragonabile proprio a quella di un partito comunista. Per quanto riguarda gli aspetti legati a una strutturata gerarchia organizzativa, la similitudine è sicuramente esatta. L’analogia non vale per ciò che è da riferirsi all’elaborazione di una ideologia e di una linea politica concordata, seguita o modificata nei congressi del partito. Il ba’th infatti non ha mai attribuito eccessiva importanza all’integrale coerenza di un insieme di dettati ideologici, preferendo adattare, con spregiudicatezza e flessibilità, tattica e strategia alle contingenze del momento. Nell’affiliazione al partito e nella disposizione delle sue linee interne, elementi decisivi si sono sempre rivelate le relazioni personali e le comuni origini, geografiche o religiose. In sostanza, la coesione del ba’th ha sempre riposato più su una dichiarazione di solidarietà e di fedeltà, personale e di gruppo, a un individuo particolare che su precise prese di posizione politiche o ideologiche. (…) Il problema del “socialismo arabo” è una delle questioni contemporanee più difficilmente riducibili per la cultura occidentale. L’incontro con le realtà politiche e sociali delle nazioni europee moderne ha portato gli arabi ha ragionare in termini estranei al portato specifico del loro passato. Tuttavia, termini e idee come “nazionalismo” e “socialismo”, all’indomani della spartizione anglo-britannica delle spoglie mediorientali dell’impero ottomano, sono entrati anche nello specifico culturale del mondo arabo.” (1)
Si osserverà che il socialismo ebbe – ed abbia ancora – un significato per il movimento panarabo del tutto distante da quello elaborato in ambito marxista e semmai più vicino per alcuni aspetti a quello della I Internazionale Socialista.
Al contrario del marxismo classico infatti, il socialismo arabo non è collegato a una visione materialistica della vita ed anzi il Ba’ath si vanterà di aver elaborato con la sua dottrina una sorta di marxismo “spirituale”, ripudiando ogni forma di lotta di classe, ritenuta un “fattore di divisione interna e di conflitti” giacché «tutte le differenze fra i figli [di questa nazione araba] sono incidentali e false», mentre l’ateismo era del tutto assente ed era tutelato il diritto all’eredità e alla libera iniziativa privata in campo economico: retaggi questi dell’Islam che considera la prima come uno dei pilastri della società civile e la seconda come forse la migliore attività dell’uomo (al-kasib habīb Allāh, ossia “il guadagno è amato da Dio”).
Esiste dunque uno stretto legame tra Islam e nazionalismo arabo inteso quest’ultimo come elaborazione teorica dell’identità che un popolo rivendica per sé e, insieme, come movimento di liberazione politico.
Per i popoli islamici infatti l’Islam ha la caratteristica di riuscire a coniugare questi aspetti distinti: via spirituale e via politica non esiste alcuna contraddizione nella ricerca di una aspirazione nazionalista alla propria indipendenza, sia come ricerca delle proprie origini sia come specificità culturale.
Alcune affermazioni del fondatore del Ba’ath , Michel Aflaq, esprimono chiaramente questo punto di vista laddove afferma che: “Il socialismo è apparso in Occidente come un movimento organizzato in seguito al sorgere della grande industria (…) Dalla fine del secolo scorso, le grandi potenze occidentali hanno iniziato una fase di espansione, dopo aver raggiunto i loro obiettivi nazionali. Lo scopo di tale espansione nel mondo era quello di trovare uno sbocco alle loro attività militari ed economiche. Le classi capitalistiche dominavano lo Stato. Il governo non era altro che il rappresentante o il delegato di queste classi. Il risultato è stato la separazione completa di due classi della società; la classe capitalistica sfruttatrice e la classe povera sfruttata. Il risentimento di questa contro i capitalisti e i grandi industriali l’ha portata a mettere in discussione il suo paese e la sua nazione. Così il socialismo ha sviluppato un carattere internazionalista contrapposto all’idea nazionale…(…) Veniamo ora alla società araba (…) Sotto nessun aspetto i paesi arabi assomigliano all’Occidente. A partire dal XIXmo secolo, i paesi europei dopo aver raggiunto la conclusione del loro stadio formativo (…) sono entrati nella fase espansionistica. La nazione araba, invece, in larga misura non gode ancora della libertà e della sovranità nazionale, e per di più ha perso la sua unità nazionale e subisce la spartizione del suo territorio. (…) La nazione araba non è orientata verso l’espansionismo e il colonialismo, non può quindi essere contraria al socialismo. L’orientamento politico, spirituale e legale della nazione araba è umano,  perciò compatibile con il movimento del nostro nazionalismo in direzione umana, perché i diritti che rivendichiamo sono essenzialmente diritti umani. Perciò non c’è ragione di colorare il nostro socialismo di materialismo (…). Il socialismo è per noi un mezzo importante per nostra condizione spirituale e per i nostri bisogni. Non può essere la filosofia primaria o il punto privilegiato per tutti gli aspetti della vita. E’ piuttosto una diramazione che viene dalla radice, e tale radice è il nazionalismo (…) Dire che abbiamo bisogno di un socialismo arabo (…) non significa non essere d’accordo sui principi del socialismo, ma sui metodi e sulla posizione che esso deve assumere nelle nostre vite.” (2)

Nel 1958 Aflaq giocò un ruolo importante nel tentativo di unirela Siriae l’Egitto in quel progetto che doveva portare alla costituzione della Repubblica Araba Unita.
Ma, pur essendo il fondatore dell’ideologia del partito, Aflaq ebbe pochi legami con le forze ba’thiste che presero il potere in Siria nel 1963 e di lì a poco fu costretto a causa dei contrasti con il governo a lasciare il paese trasferendosi nel vicino Iraq dove un’altra forza d’ispirazione ba’athista aveva preso il potere.
 Sebbene anche questo partito non riuscisse a realizzare la maggior parte degli insegnamenti di Aflaq, la sua presenza permise al futuro presidente e leader unico di Baghdad, Saddam Hussein, di sostenere presso l’opinione pubblica araba, che fosse l’Iraq e non la Siriail paese dove gli ideali del Ba’ath avevano trovato la migliore e più fedele realizzazione. In Iraq Aflaq diventò capo del partito, anche se le sue critiche al regime rimasero pressoché ignorate.
Nei suoi scritti Aflaq si pronunciava a favore della libertà di parola e della difesa dei diritti umani, oltre a proclamare la necessità di aiutare le classi meno abbienti.


In Siria dopo il 1963 il Ba’ath riuscì infine a vincere una lunga lotta interna che finì con il trionfo di un gruppo di militari di tendenze radicali, anti-sionisti ed anti-imperialisti.

La lotta intestina tra le diverse anime del Ba’ath era cominciata subito dopo il colpo di stato del marzo 63. I seguaci siriani di Nasser erano ancora convinti di poter dirigere le sorti di quella nuova rivoluzione che si poneva gli obiettivi storici del nazionalismo panarabo.

Il nuovo premier venne scelto nella persona del co-fondatore del Partito , Salah al-Din al Baytar che scelse molti dei suoi sostenitori nel nuovo governo eccetto per il potente ministero della Difesa che venne invece attribuito al Gen. Muhammad al Sufi, notoriamente un sostenitore della politica nasseriana.

Nell’estate fallirono anche i negoziati per l’Unione Araba e la contrapposizione tra nasseriani e nazionalisti siriani interni al Ba’ath raggiunse il culmine: i ministri pro-Nasser furono costretti ad abbandonare il Governo misura che suscitò manifestazioni pro-egiziane in diverse città in particolare ad Aleppo.

L’allora ministro degli Interni, Amin al Hafez cercò di arginare le manifestazioni con l’uso della forza.

Alla fine del 1964 il Ba’ath fu costretto a confrontarsi con un’ampia coalizione di oppositori che comprendeva i nasseriani, molti ufficiali dell’esercito, i seguaci fondamentalisti dei Fratelli Musulmani guidati da ‘Isam al ‘Attar e altre associazioni islamiche che si unirono alla rivolta montante contro il governo.

Lo stesso Partito Ba’ath subì una specie di scissione interna che alla fine espresse tre tendenze principali:

a)      un’ala nazionalista e tradizionalista guidata dai vecchi fondatori (Aflaq e Baytar);

b)      un Comitato militare molto potente (più tardi ribattezzato Bureau militare e comitato degli alti ufficiali) composto in massima parte da giovani ufficiali che avevano adottato l’ideologia socialista e sostenevano le riforme intraprese da Salah Jadid che, come vedremo, diventerà il vero leader del Partito;


c)      infine una componente dichiaratamente marxista , piuttosto marginale, che riuniva intellettuali di formazione comunista come Yasin al Hafiz e George Tarabishi.


Salah Jadid, ufficiale alawita, principale responsabile del comitato centrale del partito Ba’ath diventerà nel periodo compreso tra il 1966 ed il 1970 l’uomo forte della nazione siriana dopo aver soppiantato i vecchi leader e fondatori del Ba’ath (Michel Aflaq e Salah al Din al Baytar) e dimostrato di voler dare nuovo impulso per la ricostruzione nazionale con un programma di chiara impronta socialista.

Jadid riuscì in quel periodo a competere perfino con la figura, all’epoca luminosissima ed acclamatissima da tutte le piazze arabe, di Gamal Abdel al Nasser incentivando un riforma a tutto campo sia nei settori economici che in quelli culturali dove si fecero strada progressivamente le idee del marxismo di matrice sovietica frutto dell’avvicinamento sempre maggiore a Mosca.
Per comprendere esattamente lo scontro interno a Damasco occorre fare mente locale che Nasser era di formazione militare, aveva militato per qualche anno nei Fratelli Musulmani ma sostanzialmente era un nazionalista poco incline ai programmi sociali propugnati dai ba’athisti.

Inoltre entrambi, Nasser e Jadid, puntavano alla leadership del nazionalismo panarabista: Nasser è politicamente e culturalmente più affine al Movimento dei Nazionalisti Arabi (3) che rappresentava il movimento della borghesia mediorientale e che contenderà per almeno vent’anni la leadership della lotta anti-imperialista ai ba’athisti.

I primi anni Sessanta sono il periodo di massima ascesa del ba’athismo ma anche l’inizio di una fase nuova: raggiunto il potere in Siria e in Iraq il partito si caratterizzerà per una serie di spaccature, rivalità interne e faide intestine che lacereranno la sua dirigenza.

Da un lato lo spirito golpista che aveva portato alle rivoluzioni a Damasco e Baghdad finirà per dividere ulteriormente gli uomini dell’apparato: emergerà quindi l’ala militare che progressivamente esautorerà la vecchia dirigenza politica del Partito a cominciare dallo stesso Aflaq.

Nel 65 i militari estrometteranno i dirigenti politici dalle stanze del potere: ai vertici del nuovo Stato ba’athista siriano emergeranno soprattutto le figure di tre generali: Amin al Hafez, Hafez el Assad e Mustafa Tlass per il momento nell’ombra dietro alla fazione “socialisteggiante” di Jadid che guida ufficialmente il partito e la nazione.


Il nuovo partito Ba’ath diretto da Jadid venne dominato da persone provenienti dalle classi medio-basse e dalle province del paese: contro la tradizionale immagine del Ba’ath infatti Jadid ritenne che fosse necessaria una riforma radicale per la nazione e – come dichiarò sovente in quegli anni – che “il nazionalismo avrebbe dovuto prevalere sul socialismo”.

L’ala sinistra marxistoide del Ba’ath all’epoca controllava le forze armate e sostenne questo sforzo di riorganizzazione e riforme nazionali che mettevano al primo posto il benessere del paese.

Nel 1965 il Ministero Siriano perla Culturaincoraggiò quindi una serie di tentativi storiografici che reinterpretavano la storia araba in senso nazionale siriano: il giornale ufficiale “Al Ma’arifa” organizzò in quell’anno un simposio sull’attualità dell’Islam e sul nazionalismo siriano al quale presero parte tre illustri ideologi ba’athisti: Sulayman al Khish, insegnante, poeta, giornalista e ministro della Cultura e dell’Informazione nel biennio 64-65; Shibli al Aysami membro del Comando Nazionale del Partito e Zaki al Arsuzi del quale si vociferava fosse il vero fondatore del Ba’ath.

Al Khish propose di ridurre l’influenza della “metodologia marxista” nelle scuole perchè riteneva che il materialismo dialettico dovesse essere respinto in favore di una “nuova prospettiva nazionalista” un approccio storiografico che, a suo dire, si coniugava con le aspirazioni degli arabi e che avrebbe favorito il lavoro dello storico nella narrazione delle vicende che avevano caratterizzato la storia dell’Islam ed il suo avvento.

Nel biennio precedente infatti, ispirandosi ai modelli cinesi e cubani dominanti all’epoca la politica internazionale, anche in Siria si cercò di costruire un modello di economia socialista. Il marxismo venne progressivamente incoraggiato in maniere aperta tanto che un gruppo di intellettuali interni al Partito Ba’ath ne richiese la sua adozione durante il Congresso Nazionale del 1966.

Idee che pure fecero abbondantemente la loro presenza in quel simposio intellettuale rappresentate da Yasin al Hafiz il più radicalmente marxista tra i tre esponenti ba’athisti presenti.

Hafiz criticò la visione nazionalista della storia, non risparmiò dure critiche alle nozioni tradizionali religiose, all’analisi teoretica del fondatore del Ba’ath ( Aflaq) ed aprì il suo intervento con una nota citazione marxista sottolineando che “in ogni epoca le idee della classe dominante sono le idee dominanti”.

Nella sua analisi due principali componenti dominavano il pensiero e la storiografia contemporanea del mondo arabo: il “maccartismo religioso” e il “nazionalismo borghese” che dovevano essere entrambi rifiutati.

Con un discorso tipicamente marxista al Hafiz concluse sostenendo che “il presente e il futuro dovrebbero attirare l’attenzione dello studioso. Così facendo egli illumina quegli aspetti finora trascurati dagli storici tradizionali. La storiografia, da un punto di vista progressista, è una di quelle battaglie cruciali da intraprendere per distruggere tutte le sovrastrutture della vecchia società (…) Il materialismo storico e dialettico è lo strumento scientifico per eccellenza nello studio della storia.” (4)

Non deve sorprendere che, qualche anno più tardi, al Hafiz abbandonasse il Ba’ath per formare una nuova organizzazione denominata Partito Rivoluzionario Arabo dei Lavoratori.

Il conflitto arabo-israeliano del 67 diede però un durissimo colpo alle velleità riformiste di Jadid e, alla lunga, ne provocò la fine politica e con lui quella dell’ala marxista interna al partito.




L’ascesa al potere di Hafez el Assad, esponente delle forze armate, nel 1970 capovolse radicalmente la precedente tendenza e linea politica:la Siriaritornava a quella che sarebbe, da allora, stata denominata come “la politica della porta aperta” verso l’Occidente e verso i paesi arabi moderati.

Il nuovo Stato a guida ba’athista e sotto il controllo di Assad in meno di un decennio aprì al capitalismo statale che portò a forme di joint-venture con aziende e società straniere e ad un turismo di massa che creò le condizioni necessarie per la crescita di una nuova classe media che si sviluppava attorno agli apparati burocratici istituzionali e a quelli direttamente controllati dal Ba’ath.

Due eventi porteranno Assad al potere a Damasco: la crescita dell’OLP come forza militare palestinese autonoma e la sua espansione nel Regno hashemita di Giordania di re Hussein.

Nata nel 1965 l’Organizzazione perla Liberazione della Palestina di Yasser Arafat venne legittimata dal consenso popolare soltanto dopo il conflitto arabo-israeliano dei Sei Giorni (1967)
particolarmente dopo la battaglia di Al Karame che sarà la prima vittoria araba contro “Israele”.

Galvanizzati da questo successo i guerriglieri feddayn di Arafat incrementeranno i loro attacchi contro il nemico sionista partendo dalle loro basi in territorio giordano e aumentando le preoccupazioni del sovrano infeudato storicamente alla casa regnante inglese.

Il monarca giordano che vede sempre più traballante la sua sovranità su una nazione composta per il 60% da sudditi di origini palestinesi passa al contrattacco: la spettacolare azione compiuta dal Fronte Popolare di Habbash che dirotta contemporaneamente cinque aere (due della Pan Am e tre della Lufthansa)  sulla Giordania, costituirà il pretesto per re Hussein di scatenare la repressione contro i feddayn palestinesi.

Questa tragedia intestina al mondo arabo verrà ricordata dalla storia come il massacro di “settembre nero” operato dai beduini della Legione Araba giordana fedelissimi del re.

I due governi ba’athisti al potere in Iraq e Siria non possono rimanere indifferenti al massacro dei palestinesi in Giordania: il re viene accusato di servire l’imperialismo, Baghdad minaccia l’intervento diretto Damasco va oltre e fa partire alcune divisioni corazzate verso Amman la capitale giordana.

In teoria l’intervento siriano doveva soccorrere i combattenti palestinesi ma dal Ministero della Difesa Assad non concede la copertura aerea necessaria e anziché varcare la frontiera con la Giordania richiama indietro le truppe: è l’occasione propizia per regolare definitivamente i conti con l’ala politica del vecchio partito ed instaurare un regime personale.

Poche ore più tardi infatti la Radio nazionale annuncia la destituzione del Presidente e del Primo Ministro: Assad assume i pieni poteri.

Molti osservatori e politologi arabi interpretarono gli avvenimenti del “settembre nero” come il banco di prova del nazionalismo arabo rispetto alla questione palestinese: secondo la storiografia ufficiale infatti non solo venne meno la credibilità dei ba’athisti rispetto alla solidarietà inter-araba pro-palestinese ma furono messi in discussione gli stessi principi ideologico-politici che ispiravano l’azione del partito.

In realtà Assad comprese pienamente che il potere non può essere un mero strumento per il successo di un’idea senza una base territoriale forte e stabile all’interno della quale costruire questa stessa idea: la politica della rinascita araba ba’athista aveva definitivamente trovato a Damasco la sua consacrazione.



La svolta sarà sostanziale anche nelle relazioni con il partito-gemello iracheno: se a Baghdad si insiste sul radicalismo ideologico a Damasco si usa il pragmatismo e la real-politik.

E’ da queste premesse che maturerà il contrasto storico che, per oltre trent’anni, dividerà Siria e Iraq.

Neanche quando i vertici ba’athisti iracheni, alla cui leadership intanto inizierà a salire Saddam Hussein, si uniformeranno alla scelta militarista siriana ed alla politica di potenza regionale indicata da Assad si riuscirà a risolvere il contenzioso tra i due regimi: Damasco e Baghdad resteranno centri ideologico-politici inconciliabili.

Il fondatore del Ba’ath intanto deciderà di abbandonare definitivamente il Vicino Oriente e ritirarsi in America Latina. Michel Aflaq non potrà che ammettere la propria sconfitta: i due regimi al potere in Siria e Iraq ufficialmente e nominalmente “ba’athisti” avevano oramai, ai suoi occhi, perso le caratteristiche originarie abbandonando molte delle istanze ideologiche per le quali era stato creato a metà anni Quaranta il partito.

Rientrato per un’ultima volta in Iraq capirà che Saddam Hussein non è altro che un dittatore vittima della sua smania di protagonismo e, infine, morirà quasi dimenticato a Parigi.

In occasione della sua scomparsa, avvenuta nel1989, aBaghdad il regime non perse l’occasione per celebrarlo come un padre dell’ideale panarabo e l’ispiratore del moderno Irak. Il governo di Saddam Hussein – che teneva alla leadership regionale e rivendicava per sé l’unicità del modello ba’athista nei confronti della Siria di Assad – diffuse anche la notizia che in punto di morte Aflaq si fosse convertito all’Islam ma i più dubitano della fondatezza di una simile informazione utile più alla propaganda del regime che ad altro (5).

Ricordiamo infine come, dopo l’invasione americana dell’Iraq nella primavera 2003 e la conseguente occupazione militare, le forze della cosiddetta “coalizione multinazionale” – in realtà i lacchè dell’Imperialismo a stelle e strisce che furono chiamati a sostituire il mercenariato yankee e morire per gli interessi americani di fronte alle forze della multiforme resistenza irachena – progettarono la distruzione della tomba di Aflaq come parte del programma di “de-ba’athizzazione” del paese; una iniziativa che susciterà fortissime critiche in tutto il mondo arabo, persino tra molti esuli iracheni che avevano appoggiato l’invasione.

Attualmente la sua tomba nel cimitero di Baghdad viene considerata un’opera di grande pregio e di altissimo livello artistico fra quelle innalzate dal vecchio regime saddamista.

Mentre l’Iraq incominciava a diventare il laboratorio sperimentale delle manie di onnipotenza di Saddam Hussein in Siria l’evoluzione politica regionale darà ad Assad l’opportunità di mettere a segno alcuni importanti successi in particolare nei confronti del vicino Libano del quale i siriani da sempre mal digerivano l’indipendenza conquistata negli anni Quaranta , identica posizione che assumerà il Partito Nazionale Socialista Siriano di Antun Sa’adah per il quale l’unità culturale, storica e razziale dei due paesi non era in discussione essendo il paese dei cedri niente più che una provincia siriana.


Approfittando delle incerti sorti del conflitto civile, scoppiato nel vicino Libano nel 75, il regime siriano rispose alla richiesta d’aiuto proveniente dal governo a guida falangista di Beirut e nel 78 inviò propri contingenti militari che, di fatto stanzieranno nel paese fino alla primavera 2005 quale corpo d’interposizione militare della Lega Araba prima e, dopo gli accordi di Taif (Arabia Saudita) che posero fine al conflitto e portarono alla smilitarizzazione delle milizie, supervisore della “pax siriana” che Assad  imporrà con il beneplacito consenso di Washington nell’autunno 1990.

Allo scoppio del conflitto libanese occorre ricordare come Baghdad si imporrà rispetto a Damasco quale referente delle milizie palestinesi ed i loro alleati del fronte cosiddetto progressista rivoluzionario libanese (il PSP del druso Jumblatt).

L’Iraq accuserà Damasco di perseguire una politica “capitolazionista” nei confronti dei palestinesi, proponendosi di fatto quale leader del fronte del rifiuto anti-israeliano che si oppone a qualunque ipotesi di una conferenza di pace regionale, opzione accarezzata dall’Olp di Arafat.

“In queste condizioni l’Iraq ha una sola carta da giocare controla Siria; sperare di non perdere la corsa all’egemonia con Damasco può essere plausibile soltanto delegittimando Damasco agli occhi di milioni di arabi. (…) L’unica soluzione accettabile per Baghdad è quella prospettata dai rivali di Arafat, in particolare dal Fronte Popolare perla Liberazionedella Palestina di George Habbash. Con l’Iraq, al fianco di Habbash si schierano Libia, Yemen e Algeria, la cui autorevolezza in seno al mondo arabo obbliga la stessa Siria ad una scelta di non-ostilità malgrado la sorda rivalità con Baghdad. Col passare del tempo il rapporto Iraq-Olp si fa ancora più difficile. L’interlocutore privilegiato del regime iracheno diviene Abu Nidal (…)  Damasco e Baghdad gareggiano dunque a chi maggiormente avversa il moderatismo pragmatico di Yasser Arafat; la questione palestinese è l’arma che entrambi i rivali usano nel loro duello per conquistare l’egemonia regionale.” 

Ma sono tatticismi inutili che ben presto sveleranno le ambizioni esorbitanti del dittatore iracheno: mentre la Siria costruisce la sua relazione speciale con il Libano e sostiene le fazioni radicali palestinesi ospitandone uffici politici e basi sul proprio territorio Saddam Hussein, con una di quelle sue classiche giravolte, alla fine del conflitto civile libanese andrà a sostenere, in funzione anti-siriana, sia il generale cristiano Michel Aoun (che poi però, dal 2006, è diventato alleato di Damasco), che l’estremismo criminale delle milizie di Samir Geagea.

Erroneamente convinto di fare “una passeggiata” di “una settimana” a Teheran il dittatore iracheno si impantanerà per otto lunghi anni in una guerra di posizionamento controla Repubblica Islamica dell’Iran che produrrà un milione di morti, ingenti debiti di guerra e porterà all’invasione del Kuwait dell’agosto 1990 ed alla conseguente guerra mondialista del petrolio (gennaio 1991) preludio alla fine del regime che avverrà dopo la seconda aggressione americana dodici anni più tardi.

I calcoli politici di Saddam Hussein finiranno nella trappola abilmente orchestrata dalla plutocrazia internazionale che dopo aver attirato il leader iracheno nel Kuwait ne ridurranno definitivamente ogni velleità respingendo la popolazione irachena, con un embargo criminale durato dodici anni, verso livelli quasi pre-industriali. 

La differenza tra l’Iraq e la Siria starà soprattutto in questa distinta attitudine: all’interventismo bellicista di Baghad ed alle sue sconsiderate avventure militari, sostenute come si vedrà dall’amministrazione americana che in occasione dell’aggressione all’Iran avvalla l’iniziativa di Saddam riaprendo nel 1985 relazioni ufficiali con il regime (con la visita in Iraq dell’allora semi-sconosciuto Donald Rumsfeld negli anni '80); farà da contro altare l’abile pragmatismo con il quale Damasco seguirà gli eventi regionali.

La Siria ba’athista diverrà pertanto centro geopolitico, strategico e militare di primo piano dell’intero Vicino Oriente per il suo ruolo anche diplomatico di distensione rispetto ai problemi che ai  suoi confini continueranno a mutare: dalla Palestina al Libano fino all’Iraq la leadership siriana sarà interlocutrice privilegiata di tutti i paesi, compresi gli Stati arabi moderati del Golfo, parti in causa dei diversi conflitti.

Rispetto alla questione palestinese Damasco non ha mai negato il suo sostegno fattivo alle iniziative dei gruppi della resistenza senza rinunciare a percorrere la via del negoziato diretto con l’entità sionista come avverrà in occasione della prima tornata di incontri svoltisi a Madrid immediatamente dopo la prima aggressione americana all’Iraq.

In quella occasione l’allora ministro degli esteri siriano, Farouk al Sha’ra, in risposta alle accuse provenienti dalla delegazione sionista esordì durantela Conferenzaper la pace in Medio Oriente mostrando una vecchia foto segnaletica delle autorità della potenza mandataria britannica che ritraeva un giovanissimo Yithzak Rabin, all’epoca membro dell’organizzazione clandestina sionista dell’Irgun, ricercato per terrorismo e crimini contro la popolazione araba.

Dai primi anni Novanta inoltre Damasco manterrà saldamente ottime relazioni di cooperazione con la Repubblica Islamica dell’Iran – riconosciuta fin dall’avvento della rivoluzione islamica khomeinista come il caposaldo del fronte anti-imperialista regionale – diventando il trade d’union tra la Teocrazia sciita iraniana e il movimento di resistenza libanese di Hizb’Allah lasciato a guardia dei confini meridionali del Libano in funzione anti-israeliana.

Occorre ricordare inoltre che in Libano le prime azioni militari contro la presenza dei sionisti condotte da un’organizzazione politica libanese furono, fin dall’epoca dell’invasione israeliana del 1982, quelle portate a termine dai militanti del Partito Nazionale Socialista Siriano ancora oggi forza politica importante nel panorama libanese e sostenitore della Resistenza.

In Libano la Siria eserciterà tutta la sua influenza fino a quando le centrali di destabilizzazione e sedizione imperialiste non scateneranno il terrorismo di stato che costerà la vita all’ex premier sunnita Rafiq Hariri la cui morte, avvenuta in occasione del giorno di San Valentino di sei anni or sono, rimane avvolta nel mistero.

Malgrado le accuse rivolte immediatamente contro Damasco e le imputazioni del TSL (Tribunale Speciale per il Libano) contro alcuni alti ufficiali legati al regime siriano il mistero del caso Hariri rimane e sembra sempre più consolidarsi quella pista – inizialmente proposta da Hizb’Allah e dai partiti della cosiddetta “Opposizione Nazionale” oggi al governo del paese – che porterebbe ad un diretto coinvolgimento del nemico israeliano e dei suoi servizi di sicurezza, il famigerato Mossad non nuovo a questo genere di azioni.

A distanza di otto anni dalla caduta del regime ba’athista iracheno resta in piedi il solo esecutivo a guida Ba’ath di tutta la regione vicino orientale:la Siriaè il caposaldo del nazionalismo arabo e, una volta di più, il principale referente dei movimenti di liberazione nazionale della Palestina e del Libano.

Va inoltre ricordato che la scorsa estate si svolse proprio nella capitale siriana la prima riunione ufficiale di alti quadri dirigenti del vecchio Ba’ath iracheno a conferma di una ritrovata centralità politica della leadership siriana.

Non esiste alternativa alle trame dell’imperialismo e ai complotti sionisti che non passi da Damasco.

Al di là delle notizie diffuse nelle ultime settimane dai media embedded occidentali la Repubblica Araba Siriana rimane saldamente il centro propulsore della rivoluzione nazionale e socialista araba per la quale sacrificarono la loro vita migliaia di martiri.

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