Ahmadinejad e la presa degli ostaggi all’Ambasciata USA nel 1979

Ahmadinejad e la presa degli ostaggi all’Ambasciata USA nel 1979

Il seguente brano è tratto dal libro “Giustizia e spiritualità. Il pensiero politico di Mahmoud Ahmadinejad”, scritto da Sepehr Hekmat e Ali Reza Jalali (Anteo Edizioni, in collaborazione con CESEM, Centro Studi Eurasia-Mediterraneo). 



GIUSTIZIA E SPIRITUALITÀ



In una condizione sociale caotica come quella post-rivoluzionaria, i vari gruppi politici cercavano di trovare il proprio spazio, spesso usando anche la forza e ricorrendo al terrorismo, per eliminare i concorrenti. Inoltre, le mire egemoniche degli Stati Uniti, portavano l’allora governo di Carter ha tentare di rientrare in Iran dopo la caduta di un regime da loro sostenuto fino all’ultimo istante. I gruppi rivoluzionari ovviamente, e lo stesso imam Khomeini erano consapevoli che l’America stava organizzando la reazione, basata principalmente su alcuni personaggi legati al fronte rivoluzionario stesso. Non pochi furono i tentativi di destabilizzare dall’interno la neonata Repubblica islamica, proclamata tramite referendum nella primavera del 1979. Allora era in carica, per volere dell’imam Khomeini, il governo provvisorio di Bazargan, che non era un intransigente del movimento rivoluzionario, e addirittura non disdegnava che l’Iran post-rivoluzionario potesse rimanere in amicizia con gli americani, questione che emerse in un incontro, nemmeno tanto segreto, tra Bazargan e alcuni esponenti dell’amministrazione nordamericana in un viaggio all’estero dello stesso premier provvisorio. Vedendo la situazione, caratterizzata da un governo di transizione che rischiava di vanificare lo sforzo rivoluzionario per creare un Iran indipendente, i militanti islamici, principalmente quelli riconducibili al “Tahkime Vahdat”, di cui faceva parte anche il giovane Ahmadinejad, decisero di forzare la mano e di agire, prima che la Rivoluzione venisse tradita, essendo uno dei principi fondamentali della Repubblica islamica, l’indipendenza dalle cosiddette superpotenze. Una delle basi privilegiate che gli americani usavano per la destabilizzazione della Rivoluzione islamica era indubbiamente l’ambasciata statunitense a Tehran. Subito dopo il trionfo della Rivoluzione, i militanti chiusero unilateralmente la rappresentanza diplomatica di Tel Aviv, che era attiva in Iran da diversi anni, essendo lo Shah un alleato di Israele. Nell’autunno del 1979 quindi, i rivoluzionari decisero di dare un altro colpo alle mire straniere in Iran, sia per far capire al governo americano che non erano disposti ad abbandonare gli ideali rivoluzionari, sia per far comprendere alla compagine di Bazargan che la Rivoluzione islamica ha caratteristiche decisamente anticolonialiste, e un approccio superficiale porterebbe l’Iran al punto di partenza. Infatti i simpatizzanti del “Tahkime Vahdat”, assaltarono l’ambasciata americana, e presero in ostaggio gli addetti del personale; tra i giovani rivoluzionari iraniani, vi era anche Mahmoud Ahmadinejad. Quell’azione, che poi l’imam Khomeini, per sottolinearne l’importanza definì la “seconda Rivoluzione”, pose le basi per la rottura dei rapporti diplomatici tra USA e Iran e costrinse alle dimissioni il governo provvisorio di Bazargan, ormai incapace di tenere sotto controllo l’ala più antimperialista del movimento rivoluzionario. La crisi degli ostaggi come sappiamo, portò gli americani ad intraprendere una goffa reazione culminata nell’umiliante vicenda del fallimento delle operazioni militari che dovevano liberare gli ostaggi e l’ambasciata americana a Tehran, che i rivoluzionari ribattezzarono come il “covo delle spie”. In una tempesta di sabbia nel deserto dell’Iran centrale infatti, gli elicotteri americani rimasero intrappolati e senza che le autorità iraniane muovessero un dito, la missione fallì. I rivoluzionari islamici videro in ciò un miracolo divino, dimostrazione, dal loro punto di vista, della giustezza delle loro istanze antiamericane.

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