Ali Reza Jalali
L’evoluzione della situazione in
Medio Oriente è confusa, per non dire inquietante e drammatica. L’inizio delle
rivolte anche in Turchia pone le basi per una seria riflessione generale su
questa regione. Fino ad oggi infatti, e ciò è stato ripetuto recentemente anche
dal Ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, la Turchia era considerata come
un modello di stabilità per tutta la regione, ma l’attuale caos che imperversa
in diverse città del paese anatolico, sembra smentire tale visione. Più di
mille arresti, morti e feriti. Piazza Taksin a Istanbul è divenuta la nuova
Piazza Tahrir egiziana. Le rivolte nella regione, iniziate nel dicembre del 2010,
non sembrano placarsi, e ormai sono uscite dall’area nordafricana, per
interessare anche la Penisola araba e il Vicino Oriente, anche fuori dal mondo
arabofono. La rivolta che ha condotto alla caduta di Mubarak nel febbraio del
2011 non è stata così spontanea come è potuta apparire e, inoltre, l’esercito
(o in ogni caso una tendenza all’interno del Consiglio Supremo delle Forze
Armate) non ha mai perso completamente il controllo della situazione. Le cose
si sono confermate con la sorprendente rapida ascesa dei salafiti e dei
Fratelli Musulmani e la sostanziale scomparsa dei movimenti progressisti. E’
come se stessimo assistendo ad una messa in scena del cambiamento, con il ritorno
del regime defenestrato, ma con una forma apparente diversa: dall’abito nazionalista
mubarakiano, a quello islamista di Morsi; in tale processo i militari si sono
liberati degli elementi che disturbavano, consolidando la propria legittimità
politica, militare ed economica. Inquietanti al riguardo le parole di Tariq
Ramadan, che ebbe modo di dire in un articolo di qualche tempo fa: “Mi vengono
in mente le parole che mi aveva sussurrato l’ex consigliere di Nicolas Sarkozy,
Henri Guaino, nel corso di un dibattito televisivo (novembre 2011): non c’è
alcuna rivoluzione in Egitto, c’è stato un colpo di stato militare”. (1) Il
candidato dei Fratelli Musulmani quindi è riuscito a coinvolgere i militari
nella gestione del potere, e oggi l’esercito continua a essere il vero ago
della bilancia, con buona pace dei “rivoluzionari”. I Fratelli come tutti
sanno, non erano presenti all’inizio delle manifestazioni ed è stato molto
tardi (la sera del 25 gennaio 2011 ufficialmente) che hanno aderito al
movimento popolare mobilitato contro il regime dittatoriale di Mubarak. La
generazione più giovane del gruppo islamista ha spinto la leadership a questa
decisione e ne sono derivate tensioni e divisioni interne e hanno lasciato
delle tracce nefaste. I Fratelli Musulmani sono riusciti a trovare un posto
nella rivolta grazie alla loro credibilità storica come oppositori (sono stati
torturati, imprigionati, esiliati), e al fatto di presentarsi come custodi dei
riferimenti islamici, e grazie ancora alla loro ottima organizzazione e
capacità di mobilitazione sul terreno. Era garantito un buon risultato alle elezioni
parlamentari. La partecipazione a sorpresa e il successo impressionante dei
salafiti, la cui presenza era chiaramente destinata a metterli in imbarazzo, ha
posto i Fratelli in una posizione delicata tra esercito, salafiti e
nazionalisti. Alcuni membri dell’organizzazione hanno dialogato palesemente con
l’esercito, senza nascondersi più di tanto. La prospettiva di assicurarsi un
ruolo di primo piano e proteggere le conquiste hanno imposto alcune strategie
che hanno allontanato l’organizzazione dal popolo e dalle sue aspirazioni e li
ha condotti ad avvicinarsi alla giunta militare. Quando la commissione
incaricata di redigere la nuova Costituzione è stata smantellata, la loro
reazione è stata timida, mantenendo, ancora, tutte le decisioni politiche ed elettorali
in una opacità poco soddisfacente in termini di trasparenza dei processi
democratici. Hanno annunciato che il loro partito, Libertà e Giustizia, non
avrebbe presentato un candidato alle elezioni presidenziali ed è stato uno dei
motivi dell’esclusione di Abu Abdul Munaim Al Futuh dall’organizzazione (si era
infatti opposto alla decisione). Ma poi hanno deciso di presentarne uno, Kheirat
Al Shater, poi un altro, Mohamed Morsi. Strano capovolgimento che è stato
motivato sia dalla certezza di poter vincere, sia dall’incoraggiamento
interessato della Giunta che mirava a dividere le fila degli avversari. Invece
di attenersi al loro ruolo di partito di contropotere, si sono impegnati in una
corsa alla presidenza che ha imposto loro dei compromessi, eroso le fondamenta
della loro credibilità e sollevato domande a proposito delle loro scelte e il
ruolo che l’esercito giocava e voleva far giocare a loro. Che ci piaccia o no
quindi, il ruolo dell’esercito è stato fondamentale, non solo in Egitto. Basti
pensare a come i vertici militari libici abbiano deciso di abbandonare Gheddafi
in Libia, facilitando l’intervento militare straniero, oppure come la
compattezza delle forze armate siriana, che non hanno subito gravi defezioni al
vertice, abbia garantito la permanenza al potere di Assad Junior. Tutto ciò per
dire che anche in Turchia la situazione, alla fine, non è molto diversa. La
storia della Turchia contemporanea, è la storia dei suoi colpi di stato
promossi dall’esercito. E’ vero che oggi le piazze sono gremite contro il
governo, ma senza una decisione dell’esercito, è difficile pensare che il tutto
possa produrre un cambiamento radicale. Lo stesso Erdogan è a conoscenza di
questo fatto, ed egli ha governato tutti questi anni grazie al fatto che le
forze armate non hanno voluto o potuto intervenire contro il suo potere
islamico-moderato. Ora la situazione è diversa, il popolo, o quantomeno una
parte di esso è critico nei confronti del governo e l’esercito non ha mai visto
benissimo Erdogan: la situazione sembrerebbe matura per un intervento, visto
anche il fatto che l’instabilità siriana, fomentata dallo stesso Erdogan, sta
destabilizzando il sud della Turchia e ha fatto alzare la voce anche ai curdi,
ormai avviati verso un maggior peso nel paese che fu di Ataturk. Erdogan ha
messo mano su diversi punti delicati e assodati della Repubblica turca,
dall’avversità nei confronti della laicità all’eccessivo interventismo
mediorientale. Incoraggiati dall’esempio turco poi, il governo tunisino e i
Fratelli Musulmani si sono convinti che era venuto il loro momento. Non si può
tuttavia ignorare che in questo processo sono stati compiuti una serie di
errori di calcolo, ovvero sbagli politici, che potrebbero costare cari, non
solo alle loro organizzazioni (Ennada, Fratelli Musulmani, AKP), ma anche all’intera
regione nel suo complesso e al futuro del mondo islamico e del Medio Oriente.
Tornando all’Egitto poi, l’esempio tunisino (e quello turco in precedenza),
insieme al desiderio di essere riconosciuti (dopo oltre sessant’anni di
opposizione e clandestinità), ha ingannato i capi dell’organizzazione e del
partito dei Fratelli. La Fratellanza potrebbe essere utilizzata per legittimare
un cambio di regime “democratico-militare”, ma di sicuro meno trasparente di
quel che sembra. Certamente hanno compromesso una parte della loro credibilità.
In generale quindi il blocco eterogeneo dell’islam sunnita conservatore, sia
nella sua componente araba (Fratelli Musulmani e gruppi simili), sia nel
paradigma “moderato” turco del partito di Erdogan e Gul, sta andando in contro
a una certa disaffezione popolare e quindi un indebolimento della base sociale
di questi movimenti politici. Gli errori commessi dai dirigenti islamisti sono
una grande opportunità per i militari di questi paesi, per poter “giustificare”
un intervento nella vita politica dei civili, rendendo eventuali colpi di
stato, ufficiali o ufficiosi che siano, più fattibili oggi che non in passato.
Questa situazione probabilmente è ideale per il fronte kemalista di Ankara, per
dare una sterzata e un brusco cambiamento alle politiche islamiche della
dirigenza del movimento politico AKP. Erdogan inoltre, dopo due anni di pesante
campagna anti-siriana, si è trovato dinnanzi a una cosa del tutto nuova e
inaspettata. Una rivolta popolare in tutto il paese contro il governo. Assad in
questi momenti, sono sicuro, ride sotto i baffi e magari spera che queste
rivolte turche possano continuare, a prescindere dagli esiti e dalla matrice
ideologica della “primavera turca”.
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