La Metà Nascosta della Luna: il martire Hemmat descritto dalla moglie


La Metà Nascosta della Luna:

il martire Hemmat descritto dalla moglie


hemmat

Dati Biografici:
Muĥammad Ibraĥim Hemmat
(martire della guerra Iran – Iraq)
Data di nascita: 2 Aprile 1955
Iscrizione alla scuola di Isfahan: 1973
Trasferimento in Kurdistan: Giugno 1980
Matrimonio con Jila Badihian (nata nel 1958): Dicembre 1981
Martirio: 5 Marzo 1983

C’erano donne vestite con il chador dappertutto e lei non ne riconosceva nessuna. In un angolo della stanza c’era un giovane, e lei si vergognò perché non aveva il chador, ma gli disse: «Fratello Hemmat! Cosa ci fai qua?». Il giovane non era molto contento di com’era stato chiamato e rispose «Il mio nome non è Hemmat, io sono °Abd-ul-Ĥusayn Zayd…». 
Era forse l’undicesima volta che faceva questo sogno, aveva perso il conto e non ne capiva il significato. Lei cosa aveva a che fare con questo giovane? E non sapeva niente di lui, soltanto che era sgarbato, vestiva i pantaloni alla curda e camminava con gli occhi chiusi – questo lo dicevano le ragazze del campo, probabilmente perché aveva sempre la testa bassa. Pensò: «Questa storia cosa ha a che fare con me? Io sono venuta qua ad aiutare questa povera gente e uno di questi giorni diventerò martire».
Non sapevo che diventare martire non è poi così facile.
In quei giorni avevo molte pretese. Nella strada verso il campo militare ero forse l’unica persona ad avere in mano il Santo Corano. Pensavo che quello sarebbe stato il mio ultimo viaggio verso l’Aldilà. Quando il fratello che si occupava del nostro gruppo mi chiese: «Dove vuoi essere mandata?», pensai che non è bene per una persona che voglia diventare martire scegliere il proprio percorso, così risposi: «Qualunque posto dove non abbiate ancora mandato nessuno». Probabilmente quelle quattro o cinque persone che furono mandate con me, dissero la stessa cosa, poiché quando arrivammo al campo ci accorgemmo che non era davvero un posto per tutti.
Quei giorni, Sanandaj (Kurdistan) era ancora affollata, Pavé era stata appena liberata dal dottor Chamran1 (uno dei martiri della guerra). Noi arrivammo molto stanchi, anche perché l’autista sbagliò la strada. Nonostante ciò, arrivò l’ordine di riunire tutti i fratelli e le sorelle in assemblea.
Entrò un giovane che non vestiva l’abito militare, aveva solo una camicia con attaccata una foto sorridente dell’Imam Khomeyni (ra)2 sulla tasca e un paio di pantaloni lunghi – che non gli stavano per niente bene. Era magro, aveva una barba più lunga del normale, e il suo viso… il suo viso le ricordava i tempi in cui era ad Ahwaz, quando era bambina… Ahwaz, Tabriz, Teheran, a causa del lavoro del padre aveva girato tutto l’Iran. Guardò la sua amica e disse: «Tra i fratelli curdi, si trova anche brava gente!», la sua amica sorrise e disse «Il fratello Hemmat è di Isfahan, io ero in classe con lui. Qui è il responsabile delle questioni generali dell’esercito».
Quel giorno il suo discorso principale era basato sul fatto che la zona era abitata dai sunniti e l’Imam Khomeyni (ra) aveva ordinato di mantenere l’unità islamica.
Disse: «In questa zona non si deve parlare dell’Imam °Ali».
Quando il suo discorso terminò, entrò uno dei religiosi sunniti. Io posi una domanda ed incominciammo a discutere, poi giurai sull’Imam °Ali (as)3! Il religioso si arrabbiò molto e se ne andò.
Hemmat mi disse: «Io fino ad un minuto fa ti raccontavo solo storie?».
Mi vergognavo molto e avevo tanta voglia di tornare ad Isfahan, ma mi mancava il coraggio.
Suo padre era un militare, non era però molto contento delle attività della figlia.
Durante la Rivoluzione, quando sua figlia partecipava alle manifestazioni, diceva: «Le ragazze di questi tempi fanno strane cose! Io non so come tu, che sei andata all’università per studiare, possa unirti a loro…». Però lei non poteva non andare, non fare, non leggere; non poteva opporsi alla sua natura, era fatta così.
Quando era arrivata la notizia dell’inizio della guerra, io ero a Qum. Dicevano che dei gruppi in Kurdistan si fossero ribellati. Io tornai ad Isfahan e andai all’università, dove le forze militari vennero a cercare volontari. Mi unii a loro. Avevo una sensazione strana, nel mio diario avevo scritto che sentivo che questa guerra avrebbe segnato il mio destino e che avrei sofferto molto.
Quando accadde quel fatto nel campo, piansi molto, sentii che le sofferenze erano incominciate e decisi di rimanere… Pian piano incominciarono le nostre attività, che mi tenevano occupata.
Al contrario del primo incontro tra me e Hemmat, scoprii che aveva delle caratteristiche che lo distinguevano dagli altri: per esempio il pranzo veniva servito prima per le donne, ma quando io ero nella stanza da sola, Hemmat non entrava. Una volta la mia compagna di stanza andò via per tre giorni e io per tre giorni non toccai cibo, perché a quanto pare era proprio Hemmat che si occupava della sua distribuzione.
Si guardò di nuovo in giro nella stanza. Prese in mano il sacchetto del pane secco e ci giocò. Appoggiò il mento sulle ginocchia.
Pensò: «Che ingiustizia! Non è nemmeno venuto a vedere se sono viva o morta! Se non fosse stato per quel primo incontro e non ci fossimo messi a discutere, non sarebbe andata a finire così».
Il suo comportamento con me era molto freddo, o almeno così mi pareva. A volte mi sembrava addirittura scorbutico.
Una notte eravamo appena tornati e mi accorsi che c’erano due nuove ragazze nella mia stanza, di 15-16 anni. Avevano molto oro con loro, macchine fotografiche e telecamere di gran valore. Cosa ancora più strana, quando una di loro aprì la sua borsa, questa era piena di soldi del tempo dello scià.
Il loro comportamento era molto sospetto, però non ci feci molto caso. Sedetti sola in un angolo della stanza. Non era passato molto tempo che un foglietto cadde da una delle loro borse. Io mi piegai per raccoglierlo e darlo ad una delle ragazze, ma una di loro me lo strappò dalla mano, lo fece a pezzi e lo inghiottì. Io diedi l’altro pezzo che mi era rimasto in mano ad uno dei fratelli del campo e dissi: «Dallo al fratello Hemmat e chiedigli la causa di questo comportamento sospetto».
Dopo poco, venne da me, era molto arrabbiato e mi parlava con un tono di voce che sembrava volesse picchiarmi: «Non aveva capito chi erano le persone nella sua stanza?». Io ero molto stanca e gli dissi: «Guarda caso volevo farle la stessa domanda, visto che è lei il responsabile dell’edificio. Quando queste ragazze sono venute io non ero qui, ero stata mandata in missione nei villaggi vicini». Però egli continuò con lo stesso tono di voce: «Probabilmente stanno tentando di mettere una bomba… Lei deve stare attenta alle loro mosse fino a domani mattina». Io dissi: «No, io non lo faccio, ho paura di rimanere nella stessa stanza con queste ragazze». In seguito Haji (Hemmat) fece trasferire le ragazze in un’altra stanza.
Era mezzanotte e sentii qualcuno picchiare alla finestra. Soltanto io mi svegliai e andai a vedere: era Haji, armato e molto preoccupato, sembrava avesse fatto la guardia tutta la notte. Disse: «Una delle sorelle è appena andata giù. Vada a vedere se è una delle nostre o è una delle due ragazze».
Quel “giù” era il bagno vicino al giardino, un posto pauroso. Io non sapevo che cosa fare, avevo paura! Terrorizzata m’incamminai in quella direzione. Mi girai un attimo, pensando che Haji mi avrebbe seguito affinché non avessi paura. Vidi che non c’era, mi aveva abbandonato! Andai da sola e vidi che era una delle nostre ragazze.
Poco dopo questo avvenimento, Haji venne a chiedere la mia mano, attraverso la moglie di uno dei suoi amici. Io non me l’aspettavo.
A quel tempo pensavo che se qualcuno avesse chiesto la mia mano, sarebbe stata come un’offesa. Il mio cuore era da tutt’altra parte, il martirio… Inoltre avevo ancora impresso il suo comportamento freddo.
Quando parlai dell’argomento con quella signora, dissi di no, anche se lei insisteva molto sul fatto di parlarne almeno con lui. Io dissi: “Una persona che non vuole comprare qualcosa non entra in un negozio, io non voglio sposarmi, quindi non c’è motivo che ci parli”.
Decisi in seguito di tornare ad Isfahan, ma mi ammalai, perché la zona era malsana. In molti avevano preso il tifo. Io ero peggiorata e fui ricoverata in ospedale. I miei amici e i miei compagni venivano a trovarmi in gruppo. Anche Haji venne, due volte e da solo.
Quando alzò la testa dal cuscino vide Hemmat. Come la volta prima era rimasto in piedi sulla porta. Indossava soprascarpe sporche di terra e fango, come le scarpe; probabilmente era appena tornato dal fronte. La ragazza voleva invitarlo ad entrare, però non ci riusciva, non trovava le parole, aveva paura di lui.
Rispose solo al suo saluto a bassa voce ed entrambi rimasero in silenzio. Hemmat si aggiustò i capelli un po’ impolverati, poi incominciò a parlare: “Oggi tal numero di persone è stato ucciso, tal numero è stato preso del nemico, tali zone sono state liberate..”. Spiegò tutto e se ne andò. La ragazza rise e pensò: “Sono forse il comandante da venire a farmi il rapporto di quello che è successo?!”
Quando tornai ad Isfahan, non pensavo che avrei di nuovo incontrato il fratello Hemmat.
Un giorno andai all’università, quelli che erano venuti con me al campo militare mi stavano cercando: pensai che probabilmente avevano qualcosa di importante da dirmi.
Non avevamo ancora finito di salutarci che Haji entrò. Capii che erano venuti perché io parlassi con lui e avevano organizzato tutto loro. Beh, mi arrabbiai e reagii in modo scorbutico.
Haji disse: “Tu parli sempre e solo del Jihad, pensi che io sia possessivo e ti tenga chiusa in casa? No, io voglio che mia moglie sia una combattente, non voglio una moglie casalinga!”. Era la prima volta che chiedeva la mia mano in modo diretto e personalmente.
Dissi: “No!” e solo Allah (SwT)4 sa che in quei giorni non avevo nessuna intenzione di sposarmi. A dire la verità, avevo paura di Haji, quando sentivo la sua voce il mio corpo tremava. Non avevo il coraggio di dirgli una cosa simile: che nessuna ragazza sposa qualcuno di cui ha paura.
Un anno dopo tornai a Pavé. Successero strane cose, una dietro l’altra, che impedirono di andare in altri posti.
Prima di partire feci l’istikharah5 per decidere dove andare, che risultò negativa per tutti i posti tranne il Kurdistan, la regione in cui è situata Pavé.
Dissi alla mia amica: “Il comandante di Pavé è il fratello Hemmat, che tutti sanno aver chiesto la mia mano, io non vado là, andiamo a Saqqez. Quando all’ufficio ci chiederanno dove volete andare, diciamo: qualunque posto eccetto Pavé!”
Il giorno in cui andammo all’ufficio pioveva, e prima di arrivare là comprammo due paia di stivali.
Il responsabile chiese: “Allora, dove volete essere mandate?”. La mia amica rispose: “Pavé!”.
La mia lingua si era completamente bloccata. Ad ogni modo, così era stato deciso e, quella sera stessa, partimmo per Pavé.
Io piansi per tutta la durata del viaggio. A volte non sai per cosa stai piangendo, come la mia amica non sapeva come mai, dopo tutte quelle raccomandazioni, avesse risposto proprio Pavé.
Haji non era però a Pavé perché era andato alla Mecca6. Noi non avevamo una stanza, e ci stabilimmo nel suo ufficio fino al suo ritorno.
Io ero occupata in una scuola. Dopo una missione, organizzammo un programma che consisteva nell’invitare uno dei fratelli a parlare della missione con i bambini della scuola.
Il preside della scuola consigliò di invitare Hajj Hemmat, io invece preferivo che venisse il generale di Pavé.
Un’ora prima dell’inizio del programma telefonarono dicendo che il generale non stava bene.
Il preside informò subito Haji, che era appena tornato dalla Mecca.
Io, per non incontrarlo, mi rifugiai nella biblioteca della scuola che era nel sotterraneo.
Il vecchio custode aprì la porta e come le due volte precedenti scese le scale del sotterraneo, mentre si teneva il cappello, come se avesse paura che gli cadesse. In seguito, come le due volte precedenti, s’impegnò nel pronunciare la frase correttamente e disse: “Il signor preside ha detto che adesso che il fratello Hemmat sta arrivando, è meglio che sia presente anche lei”.
La ragazza non capiva perché anche lei doveva essere presente. Guardò il vecchio custode negli occhi, che non era chiaro perché fossero sempre lacrimanti, e trattenne la propria rabbia. Prese il suo chador e salì le scale due alla volta, senza dire niente.
Hemmat busso alla porta talmente piano che non lo sentì nemmeno quando entrò e lei stava per dire: “Io ho da fare, non posso venire”, ma poi lo vide. Involontariamente, tirò giù il suo chador sugli occhi, ormai le era diventato difficile vederlo. All’inizio pensava di essersi sbagliata, com’era cambiato! Si era rasato la testa, era dimagrito ed abbronzato. Guardava in basso come sempre. Si alzò e disse: “Benvenuta! Ha fatto bene a venire di nuovo a Pavé!”.
La sera successiva mandò la moglie di un suo amico per chiedermi di nuovo la mano: sembrava che per Haji fosse difficile farlo personalmente. Ma questa signora era in realtà venuta per dire: “Ti dirò solo una cosa, egli diventerà sicuramente martire, molti pensano così”.
Io non sapevo più cosa fare. Sentivo molta pressione su di me. Sognavo cose che mi preoccupavano. Decisi di digiunare quaranta giorni e leggere il Du°ā’ Tawassul7.
Mi dicevo: “Dopo questi quaranta giorni chiunque venga a chiedere la mia mano, gli risponderò”. Era la sera del trentanovesimo o quarantesimo giorno che Haji venne di nuovo a chiedere la mia mano e io risposi di sì.
Avevo anche fatto l’istikharah per decidere se sposarlo, ed era uscito un versetto della Surah Kahf, la cui spiegazione era la seguente: “Molto buono. Ciò che volete fare vi farà soffrire moltissimo, però alla fine otterrete un gran successo”.
A Haji dissi: “La mia famiglia è un po’ particolare. Non sono molto religiosi e non apprezzano molto i militari. Sicuramente i miei genitori si opporranno, spetta a lei parlare con loro. Inoltre io voglio sposarmi senza dono nuziale”. Disse: “Io non ho tempo per queste cose”. Io aggiunsi: “Se lei non ha tempo per queste cose, non si sposi allora!” e mi alzai.
Haji rispose: “E’ vero che io non ho tempo, però ho speranza nell’aiuto di Allah” – si interruppe un attimo – “voglio solo dirle che la formula del nostro matrimonio è già stata letta. Quando ero in Pellegrinaggio, tutte le volte che giravo intorno la Casa di Allah, la vedevo accanto a me. All’inizio pensavo fossi io a non riuscire a concentrarmi. Poi sono tornato e l’ho ritrovata qua, mi sono quindi convinto che fosse volere divino che la vedessi con me vicino alla Ka°bah”.
Fece una pausa molto lunga e io pensai che non ci fosse più niente da dire e mi alzai, invece disse: “Se mi fanno prigioniero o mi feriscono, la vita diventerà molto difficile per lei, è ancora pronta a sposarsi con me?”.
Dissi: “Io sono in attesa del suo martirio”.
Quante cose dichiarava in quei giorni! Come si considerava più vicina ad Allah (SwT) di Haji! Prima di sposarsi parlarono e lei gli disse: “Tutta la mia vita deve essere per Allah”. Però in realtà non c’era amore, fino alla lettura del contratto di matrimonio Haji non le piaceva, anzi lo detestava!
Il padre le disse: “Ovunque sei andata ci hai disonorato. Adesso tutti dicono che invece di una fede nuziale, ti ha comprato un anello di poco valore!”.
Quando Haji telefonò a casa nostra, mio padre gli disse: ”Tu vai a comprare la fede poi parliamo”.
A me, in seguito, Haji diceva sempre: “Tutte le volte che dicevi ‘non voglio scarpe’, ‘non voglio abiti’, ringraziavo Allah e mi dicevo che questa è la persona giusta per me! Proprio quella che cercavo”.
Haji mi portò a fare spese per le nozze e mi disse di comprare tutto quello che volevo, ma scelsi solo un anello di poco valore. Non organizzammo nessuna cerimonia particolare.
Quando andammo per la lettura del contratto di matrimonio, io avevo indossato il mio maqna’é nero, che la cognata di Haji cambiò con un foulard color crema. Haji venne con l’abito militare, ma quello di suo fratello, che non era vecchio come il suo. Se qualcuno lo avesse visto avrebbe pensato che stesse andando in guerra. Io gli avevo detto: “Ho solo una richiesta, andare dall’Imam Khomeyni per la lettura del contratto di matrimonio”.
Allora non disse niente, però qualche giorno dopo venne dicendo: “Io sono pronto a fare qualsiasi cosa per te, però non chiedermi di far perdere tempo ad una persona che deve dedicare la sua vita a tutti i musulmani. Come potrò risponderne il Giorno del Giudizio?”
Alla fine ci sposammo ad Isfahan e mio padre insistette di nuovo sulla dote. Dissi ad Haji: “Eravamo d’accordo che ne discutessi tu con lui”, rispose: “In fondo non è giusto che un uomo vada a dire al padre della futura moglie che vuole sposarne la figlia senza dote”. Mio padre, invece, voleva a tutti i costi che fosse fissata una dote.
Io mi stavo irritando, mi alzai per uscire, però Haji fece segno di sedermi. Si rivolse a mio padre e disse: “Io ho trovato la mia anima gemella e non ho intenzione di perderla per queste cose”.
Come dice sempre mio fratello, Haji ha un modo di parlare convincente ed alla fine mio padre disse: “Risolvete la questione come meglio credete”.
La notte di nozze andammo alla casa paterna di Haji, poiché egli doveva tornare in Kurdistan il giorno dopo. Quella notte pianse fino al mattino. Non so perché, forse sentiva di aver sbagliato qualcosa, forse stava pensando ai giovani basij8 diventati martiri. Piangeva e leggeva il Santo Corano. Soprattutto leggeva con molta intensità la Surah Ya Sin.
La mattina mi chiese: “Dove vuoi andare?”. Risposi: “Al cimitero dei martiri”. Alzò la testa verso il cielo in segno di ringraziamento e disse: “Avevo paura che rispondessi altro”.
Rimanemmo al cimitero per alcune ore, Haji non voleva tornare a casa. Aveva un ricordo su ognuno di quei martiri, ne parlava, sussurrava qualcosa e poi piangeva.
Io ascoltavo, lo guardavo, lo invidiavo.
La mattina del giorno dopo andammo a Pavé insieme.
Quando l’auto si fermò di nuovo e Haji si bagnò tutto dopo essere sceso, non ce la fece più e gli disse: “Vuoi continuare a salire e scendere fino a Pavé? Sotto questa pioggia?”, Haji non disse niente e scese. E lei con lui.
La pioggia cadeva sulle spalle di Haji e scendeva dalla sua schiena. Non trovava pace. Lei disse ad alta voce: “Era meglio che avessimo portato anche la tua uniforme rinforzata”, ma lui non ascoltava. Quando vedeva i suoi compagni ed il fronte, niente poteva distrarlo. Alcuni dei suoi compagni che erano fuori, corsero verso di lui e incominciarono a toccare l’abito e il corpo di Haji.
Uno di loro, baciò la schiena di Haji come se avesse visto il padre, e con malinconia disse: “Quando non c’eri, si è allagato il fronte, abbiamo avuto molte difficoltà”.
Haji ascoltava con attenzione.
Quando tornarono in auto, sentiva che Haji era molto preoccupato. Vedeva il vapore del suo respiro espandersi nell’aria. Disse: “Hai la fronte sudata, guida più piano”, rispose: “Dobbiamo raggiungere al più presto Pavé”.
Appena arrivammo a Pavé, mi lasciò nello stesso edificio in cui ero stata la volta prima con il mio gruppo e se ne andò. In seguito capii che aveva fretta di andare per indagare sulla situazione di quei compagni il cui fronte si era allagato. A dire la verità ero sorpresa. Lo conoscevo come una persona rude. Invece, proprio in Kurdistan, compresi come Haji fosse diverso da quel fratello Hemmat che conoscevo io e come fosse diverso da qualsiasi altra persona, anche se ci rimanemmo un periodo breve e non eravamo quasi mai insieme. L’affetto tra noi era cambiato. Forse la formula di matrimonio è una dei miracoli dell’Islam: dopo che è stata letta, molte cose cambiano.
Mi ricordo che lui era andato a liberare le zone di Shamshir e io avevo da fare a Kermanshah. Quando tornò vide che non c’ero e venne a prendermi. Nel vederlo incominciai a piangere, chiedeva: “Perché piangi?”, e io continuavo a piangere, non potevo parlare.
Poi dissi: “In questo periodo ti sognavo sempre. Sognavo che in mezzo ad un deserto buio c’era una casa. Io da una parte e tu dall’altra. Volevo chiamarti e dicevo –O Husayn! O Husayn!-, però tu non capivi. Continuavo a pensare che non saresti mai uscito vivo da questa operazione militare”.
Quella notte Haji mi portò a casa di suo zio e disse: “Se Allah vuole, andrò al sud per delle operazioni militari”. Io ero molto agitata e dissi: “Vengo anch’io”, ma lui non era d’accordo.
Erano i preliminari dell’operazione Fathu-l-Mubin e Haji sapeva come fossero difficili le condizioni laggiù, ma non me ne parlò, disse solo: “Io non sono per niente d’accordo che venga anche tu”.
Quando Haji andò era inverno, io mi ammalai seriamente e non riuscivo a calmarmi.
Feci un voto di tre giorni di digiuno affinché tornasse sano e salvo.
Era mezzogiorno di venerdì e io stavo recitando la preghiera di Ja°far at-Tayyar9, quando arrivò una persona mandata da Haji per accompagnarmi a Dezful.
Alzò la testa per vedere la strada. Haji era in piedi qualche metro più avanti, aveva la testa bassa e maneggiava il tasbih10. Pensò: “E’ come se fosse in attesa di qualcuno e non mi avesse visto”. Fino a quando l’autobus si fermò, tutti scesero e Haji salì, le sembrò fosse passata un’eternità. Quando Haji si sedette, disse: “E’ la prima volta che mi rendo conto di come sia difficile rimanere in attesa di qualcuno! Ho capito come mi sento solo senza di te!”.
Avrei voluto dirgli: “Adesso hai capito come soffro io!”, però non ne ebbi il coraggio. Sapevo che si sarebbe solo preoccupato di più.
Non mi piace ricordare le due settimane che trascorsi a Dezful. Non mi piacquero per niente. Anche se trascorremmo periodi ben più difficili, non ho però bei ricordi di quelle due settimane.
Non possedevamo una casa dove alloggiare, quindi andammo presso uno dei fratelli basij. Beh, era tempo di guerra e ognuno cercava come poteva di mandare avanti la propria vita.
Io avevo l’impressione di essere di disturbo per questa famiglia. Un giorno andai al piano di sopra della loro casa e vidi che c’era una stanza che era utilizzata come pollaio. Poiché era zona di guerra e veniva sempre bombardata, nessuno utilizzava i piani superiori. Allora pulii il pavimento con acqua e grattai via la sporcizia con un coltello.
Haji portò un lenzuolo bianco per dividere la stanza in due. Comprammo un po’ di cianfrusaglie: due piatti, due cucchiai, due ciotole e una piccola tovaglia. Portammo anche una delle coperte dell’esercito. Mi ricordo che non avevamo nemmeno il fornello da picnic, cioè non potemmo comprarlo, quindi in quel periodo non mangiammo cibo da cuocere.
Questo era l’inizio della nostra vita, e fu difficile.
Io ebbi dei problemi ai polmoni, perché la stanza era malsana. Tossivo sempre. Quando si avvicinò il periodo delle operazioni militari, il padrone di casa se ne andò, io rimasi sola, non conoscevo neanche bene il paese e Haji non tornava da giorni.
Guardò l’orologio, erano le due di notte, aveva paura. Chiese: “Chi è?”, riconobbe la voce di Haji. Quando però aprì la porta e vide che non c’era nessuno, si spaventò.
Mise un piede fuori dalla porta e con l’altro tenne la porta affinché non le si chiudesse dietro.
Vide Haji dietro al muro, come se volesse nascondersi. Chiese: “Perché non vieni dentro?”, Haji rispose: “Mi vergogno! Mi faccio rivedere dopo così tanti giorni e in queste condizioni…” e venne sotto la luce. Sbatté gli stivali appesantiti dal fango sul pavimento, lo guardò dalla testa ai piedi: era pieno di terra.
Allontanò il suo sguardo da Haji e gli disse: “Non fa niente. Adesso vieni dentro…”, e tenne per sé il resto di quello che voleva dire. Nel suo cuore c’era così tanto orgoglio, affetto e tristezza, che aveva paura che dicendo un’altra parola sarebbe scoppiata a piangere.
Io vedevo tanti uomini, i mariti delle mie amiche, che vivevano nel benessere, però infastidivano le proprie mogli e i propri figli.
Haji era un gentiluomo, con tutte le difficoltà che doveva affrontare, aveva il diritto di venire a casa nervoso, ma tornava sempre con la testa bassa, umilmente. Quella sera per non dover sedersi in quelle condizioni, andò a fare una doccia con l’acqua fredda (non avevamo quella calda).
Passò un bel po’ di tempo e incominciai preoccuparmi, Haji aveva la sinusite e pensai che gli si fosse bloccata la respirazione per il freddo.
Andai a bussare alla porta del bagno e siccome non ci fu risposta, aprii un poco la porta e vidi l’acqua infangata scorrere.
Arrivò la sua voce: “Vuoi vedere quest’acqua infangata per farmi vergognare ancora di più?”.
Lui sopportava tutte le difficoltà, ma non poteva accettare che ne fossi partecipe anch’io.
Quando incominciarono a parlare di possibili operazioni militari nel Sud, Haji insistette sul fatto che io tornassi a casa. Disse: “Se dovessimo fallire, Allah non voglia, gli iracheni potranno distruggere molto facilmente Dezful”. Risposi: “Beh, anch’io sono come gli altri, qualsiasi cosa succeda a loro, gli sono accanto {non è giusto che io fugga, mentre gli altri restano qui}”.
Haji disse: “Tu devi tornare ad Isfahan. Le persone qui sono native di questo paese. Se hanno delle difficoltà possono andare con le proprie famiglie nelle zone vicine. In ogni caso, tu devi andare per l’Islam, se rimani qua, io non posso stare tranquillo”.
Quando disse così, accettai. A volte l’essere umano si accontenta anche di queste motivazioni, anche se da quando salii sull’autobus per Isfahan, piansi tutto il tempo. Avevo come l’impressione che non avrei più visto Haji, però, dopo un mese, quando finirono le operazioni, tornò sano e salvo.
Non andai più in un campo militare con Haji, fino a quando Mahdi, il nostro primogenito, non venne al mondo.
La mattina che Mahdi stava per venire al mondo, Haji chiamò ed era molto agitato: “Posso star sicuro che sia tutto a posto? Che non ci siano problemi?”, risposi: “E’ tutto in ordine”. Sua madre insistette perché gli dicessi che il bambino stava per nascere, però non me la sentii.
Quello stesso pomeriggio Mahdi nacque e ci vollero tre giorni affinché Haji ne venisse informato.
Venne il quarto giorno, alle tre di mattina. Era Muharram e Haji indossava una sciarpa nera. Mi sembrava così bello. Gli avevamo preparato un posto dove dormire, invece lui venne a sedersi accanto a me e Mahdi. Disse: “Voglio starvi accanto”. Era così stanco che si addormentò seduto.
Era quasi mattina, prese in braccio Mahdi e disse: “Ho tante cose da dire a mio figlio, forse non avrò più la possibilità di parlargli”. Era strano. Sembrava che stesse parlando con un adulto. A volte sento la mancanza di quel momento.
Scostò con delicatezza la cuffietta e avvicinò le labbra al suo orecchio, poi sussurrò: “Sai perché ti ho chiamato Mahdi?”, piangendo. Lei vide scendere le lacrime di Haji sul viso di Mahdi e pensò: “Adesso scoppia a piangere”, invece il bambino era tranquillo e si addormentò nelle braccia di Haji.
Dissi: “Io voglio venire con te”. Haji guardò il bambino e disse: “Io non sono d’accordo che voi veniate, la cosa mi preoccupa”. Stavolta insistetti: “Fino ad ora ho tralasciato solo quello che era mio diritto, ma non farò la stessa cosa con mio figlio. Nessuno sa fino a quando tu ci sarai, e io voglio che fino ad allora mio figlio possa assaporare la presenza del proprio padre” .
Mahdi non aveva ancora quaranta giorni che Haji venne a prenderci e ci portò con lui al Sud, ci stabilimmo nella casa di suo zio. Anche loro avevano due bambini piccoli e con tutto quello che facevano per noi, io mi vergognavo molto. Pensavo che in fondo eravamo un peso per loro.
Un giorno che Haji venne a casa, qualsiasi cosa dicesse non gli rispondevo. Ero arrabbiata e sapevo che se avessi aperto bocca sarei scoppiata a piangere. Lui comprese subito la situazione, uscì di casa e tornò due ore dopo con un furgoncino. Caricammo le nostre cose che riempivano a malapena metà del furgoncino, salimmo e ci dirigemmo verso Andimeshk, dove c’erano le case dell’ospedale “Martire Kalantari”.
Quando arrivammo, Haji mi disse: “E’ quasi un mese che ho le chiavi di questa casa, però pensavo che era meglio venissero ad abitarci quelli che ne avevano più bisogno. Noi potevamo rimanere a casa di mio zio. È stato il tuo comportamento a farmi fare una scelta di cui non sono contento”.
Io non dissi niente, cioè non avevo niente da dire. Avevo capito che Haji era diverso da noi, secondo le parole di uno dei suoi amici, lui non voleva nemmeno il Paradiso da solo.
Mi diceva sempre: “Se vuoi che io sia fiero di te cerca di frequentare quelli che hanno più problemi degli altri, in modo che io ne venga informato e possa aiutarli”.
A volte, quando gli dicevo di stare di più con noi, rispondeva: “Stai sicura che la nostra vita è migliore di quella degli altri! Non tutti possono vedere le proprie famiglie quanto io vedo la mia, alcuni sono undici mesi che non possono andare a trovare le proprie mogli e i propri figli!”.
Però quelle case ad Andimeshk erano fuori dalla città, più o meno nel deserto. Anche noi eravamo estranei là.
Una notte che Haji venne a casa, io insistetti perché rimanesse, lui rispose: “Oggi ho molto da fare, devo andare”. Dissi: “Quando feci l’istikharah per il matrimonio, la risposta fu una ayat che prometteva bene però annunciava tante difficoltà. Credo che queste difficoltà siano proprio il fatto di non poter vederti mai, di dover affrontare tutto da sola, di sentire la tua mancanza”. Mi ricordo che quando dissi ciò, Haji alzò la testa e mi guardò in uno strano modo.
I suoi occhi erano luminosi e vi si leggeva la preoccupazione causata dalle sue parole. Voleva infastidire un po’ Haji e dire: “Mi guardi così per cambiare argomento?” e invece disse: “Alla fine con questi tuoi occhi diventerai martire!”. I suoi occhi si illuminarono ancora di più e chiese: “Perché?” e nei suoi occhi c’era una tale attesa che non riuscì a dire: “Lascia perdere, cambiamo argomento!” o “Io prego sempre che tu rimanga, che tu non divenga martire”. Fece un sospiro e disse: “Perché Allah ha donato sia bellezza sia perfezione a questi occhi. Questi occhi sono rimasti svegli tanto per Allah, hanno pianto tanto per Lui”.
Però in fondo al mio cuore non pensavo che Haji diventasse martire. Perché avrei dovuto dire una bugia? Pensavo che le mie preghiere sarebbero state un ostacolo sulla via del suo martirio. A volte, quando tornava a casa, mi sedevo e involontariamente piangevo per mezz’ora. Haji chiedeva: “Cosa è successo?”, rispondevo: “Niente! Ho solo sentito la tua mancanza!”. Poi diceva: “Non sei contenta che io vada al fronte?”, rispondevo: “No, sento la tua mancanza perché tu sei un soldato, se non lo fossi stato non la sentirei. È la tua bontà la causa”.
Quasi tutti i basij provavano gli stessi sentimenti per Haji. Lui non diceva niente, però portava sempre con sé un quaderno degli appunti. Una sera venne a trovarci, eravamo ancora ad Andimeshk ed io insistetti molto perché rimanesse, ma non accettò.
Proprio in quel momento dalla portineria riferirono che c’era una telefonata urgente per Haji. Si vestì e andò a rispondere al telefono, dimenticando il suo quaderno. Intanto io non avevo niente da fare e aprii il suo quaderno, dove c’erano alcune lettere di giovani soldati dell’esercito. Uno aveva scritto: “Io il Giorno del Giudizio ti farò causa!11 Sono tre mesi che aspetto di rivederti…” e altre lettere simili.
Quando Haji tornò esclamai: “Tu devi andare proprio adesso!”, lui disse: “No, tra l’altro la telefonata era dei miei compagni e ho detto loro che stasera non vado”, invece io affermai: “No! Devi andare adesso, subito!”. Haji incominciò a scherzare con me dicendo: “Io alla fine non ho capito se devo andare o devo rimanere? Cosa devo fare? Cosa vuoi che faccia?”, risposi: “A dir la verità, io ho letto queste lettere”. Haji si arrabbiò: “Questi erano segreti fra me e loro, non volevo che tu li scoprissi”, scosse la testa: “Non pensare che io sia degno di tutte queste attenzioni. Io ho fatto un peccato e adesso devo espiarlo attraverso l’affetto per loro”. Incominciò a piangere: “Altrimenti io chi sono per meritare che loro mi scrivano?”. Era molto sensibile, io penso fosse per via della sua forte fede.
Voleva dire la verità da subito, però non ci riuscì, pensò che fosse maleducazione.
Così disse: “Adesso che la mia facoltà è stata riaperta, se presento un altro paio di esami posso prendere il post-diploma, dammi il permesso di tornare a Isfahan”. Haji la guardò di traverso, un sorriso gli fece tremare le labbra, e disse: “Tu devi rimanere qua con me, non eri tu che dicevi che volevi venire con me fino in Libano e Palestina, a liberare Gerusalemme? Allora lascia perdere l’università! E poi non eri tu che volevi diventare martire?!”.
Quando capì che Haji non avrebbe accettato, disse: “Ascolta! In realtà il problema non è l’università o lo studio, il problema è che qui è pieno di scorpioni, e non sono solo un paio. Ieri notte io stessa ne ho ucciso uno nel lettino di Mahdi. Da quella notte non posso dormire per paura che venga punto. Inoltre, adesso fa freddo, quando verrà la primavera diventeranno belli grossi, allora usciranno da tutte le parti”.
Haji rimase in silenzio, sembrava che le sue dita si fossero bloccate tra i capelli di Mahdi. Alla fine disse: “Mi vuoi lasciare da solo per un paio di scorpioni?”. Anche se Haji aveva la testa bassa, le sembrò che i suoi occhi si fossero illuminati per un secondo. Rispose: “Solo il tempo di dare gli ultimi esami, quando poi saranno finiti ci verrai a prendere”.
Quando tornai all’università scoprii che c’era ben peggio degli scorpioni ad aspettarmi. Scoprii che quegli stessi giovani che prima della Rivoluzione si dichiaravano rivoluzionari e religiosi, adesso erano seduti tranquilli in classe, con giacca e pantaloni {mentre la gente combatteva al fronte}. Allora mi vedevo davanti Haji con gli occhi rossi e sporco di fango. Tutte le volte che tornava da un’operazione militare insistevo perché si pesasse e poi scoprivo che aveva perso sette o otto chili. Durante le operazioni di Khoramsharh si era indebolito così tanto che un paio dei suoi compagni l’avevano preso in spalla e portato a casa. Quando pensavo a queste cose e vedevo anche quelle facce in classe, mi arrabbiavo, mi piangeva il cuore, lasciavo a metà le lezioni e tornavo a casa.
Quando Haji telefonava piangevo e gli dicevo: “Devi venire subito!”, mia madre insisteva: “Dille di rimanere qua a prendere la laurea, dice che non vuole più andare all’università!”. Haji rideva: “Io non ho problemi, però sembra che lei non possa sopportare la lontananza da me!”.
Poi mia madre disse: “Quando insistevo tanto perché venisse ad Isfahan, diceva:- Le uniche due volte che sono venuto ho fatto un incidente. Adesso lasci che finisca il quadrimestre, poi vengo a prenderla-”.
Il 9 luglio era il giorno del mio ultimo esame, Haji venne il giorno prima. Dopo aver fatto l’esame, uscii dall’università, riconobbi l’auto militare. Haji era in piedi accanto all’auto e quando mi vide sorrise. Allora capii quanto lui era importante per me. Se una persona vive sempre con i buoni, pensa che siano tutti così, deve vedere i cattivi per comprendere il valore dei buoni.
Pensava: E’ possibile che esistano donne più felici di lei? E uomini più nobili di suo marito? Così da poter sopportare tutto al suo fianco?
La sera prima voleva preparare la tavola, quando all’improvviso Haji le tolse la tovaglia dicendo: “Quando ci sono io a casa, tu devi riposare. Io voglio che tu non soffra per le difficoltà di questo mondo”. Lei lo guardò di traverso, dicendo: “Io non ho capito, alla fine come mi vuoi? All’inizio dicevi di volere una moglie partigiana, adesso mi chiedi di non toccar niente…”.
Haji si sedette e abbassò la testa ancora di più di quello che già era, con una voce quasi impercettibile disse: “Tu dovrai affrontare molte difficoltà dopo di me. Lascia che ti aiuti in questi pochi giorni che sono con te”.
Questi discorsi di Haji mi davano fastidio, non potevo sopportarli. Una volta lui era al fronte e io avevo ospiti. Ero occupata a cucinare quando ad un tratto mi si strinse il cuore. Lasciai tutto com’era e andai a pregare per lui.
Quando Haji tornò gli raccontai tutto, all’improvviso il suo viso cambiò di colore e disse: “Forse è stato quando stavamo attraversando un campo minato”, poi rise: “Tu non lasci che io diventi martire, sei tu l’ostacolo sulla via del mio martirio!”. Diceva sempre così quando doveva partire per un’operazione militare.
Prima che venisse al mondo Mustafa, vicino alle operazioni militare di “Kheibar”, Haji piangeva: “Stanotte mi vergogno davanti a Allah”, io pensavo si riferisse alla nascita di nostro figlio, ma non era solo quello, diceva: “Alla Mecca ho chiesto alcune cose ad Allah: di non abitare, anche solo per un solo istante, in un paese miscredente, te e due figli maschi. Alla fine ho anche pregato di non diventare mai prigioniero o mutilato”. Infatti, tutti si sorprendevano del fatto che Haji non si fosse ancora ferito gravemente in guerra, nonostante fosse sempre al fronte. Solo una volta perse un’unghia. Io glielo dicevo sempre e lui rideva.
Quella sera, dicendo così, pianse e disse: “Diventare prigionieri o mutilati richiede molta fede, che io non sento di avere. Io ho chiesto ad Allah di donarmi il martirio solo quando sarò tra i Suoi fedeli”.
Alzò la testa con orgoglio e disse: “E’ impossibile che tu diventi martire!”, Haji stava tirando giù le maniche della sua camicia. Alcuni dei suoi capelli bagnati dall’abluzione si erano appiccicati alla sua fronte e gli davano l’aspetto di un bambino. Chiese: “Perché?”. Lei rispose: “Perché tu sei tutto per me, una madre, un padre, un fratello…e Allah non toglie ad una persona tutto ciò che ha in una volta”.
Haji pregava per lasciare questo mondo e io perché rimanesse. Prima delle operazioni militari di “Kheibar” venne a trovarci. La nostra casa a Islamabad si era danneggiata e ci eravamo trasferiti a casa di Hajj Muhammad °Abadiat, che poi divenne martire. Quando Haji venne a prenderci, io gli spiegai cosa era successo alla nostra casa, che non si poteva più vivere là, faceva freddo ed era inverno.
Però Haji quando aprì la porta, disse: “Che cosa è successo qua?”, come se non avesse ascoltato nessuna delle mie parole.
La moglie di Hajj °Abbas Karimi insistette tanto perché andassimo a casa sua, però Haji rifiutò, dicendo: “Voglio rimanere a casa nostra”. Entrammo in casa e quando accese la luce mi accorsi di com’era invecchiato.
Haji aveva ventotto anni, però tutti pensavano n’avesse ventidue o meno. Invece quella sera, per la prima volta gli vidi una ruga sotto gli occhi e sulla fronte.
Incominciai a piangere, dissi: “Cosa ti è successo? Perché ti sei ridotto così?”, Haji rise e rispose: “Per ora lascia da parte questi discorsi che stasera sono venuto a casa di nascosto e se mi scoprono mi fanno la pelle!”. Poi aggiunse: “Vieni a sederti qui, voglio parlarti”. Mi sedetti. Allora chiese: “Sai cosa ho visto?”, risposi di no. Disse: “Ho visto che ci separavamo”. Scherzando gli risposi: “Tu stai parlando come un bambino viziato!”. Però lui rispose: “No, guarda la storia. Allah non ha mai lasciato rimanere insieme coloro che si amano molto”.
Cercai ancora di scherzare con lui e dissi: “Adesso siamo diventati come Romeo e Giulietta?”.
Ma Haji si arrabbiò: “Tutte le volte che io voglio parlare seriamente, tu mi prendi in giro! Io voglio parlare con te stasera. Da quando ci siamo sposati, o hai vissuto a casa di tua madre o a casa di mio padre: non voglio che sia così, dopo che me ne sarò andato. Dirò a mio fratello di preparare la casa a ShahreReza, di metterci la moquette, così non dovrete più camminare sul pavimento freddo”.
Io mi arrabbiai e dissi: “Tu mi hai chiesto di lasciare l’università per andare insieme in Libano, invece adesso…”. Sembrava che Haji avesse appena capito di come stava seriamente parlando di lasciare questo mondo e rispose: “No, non è così. Io sto solo cercando di pensare al vostro futuro”.
La mattina seguente, vennero a prenderlo con due ore di ritardo, dicendo: “L’auto è rotta, devo portarla dal meccanico”. Haji si arrabbiò molto, urlò: “Fratello! Tu non sai che quei poveretti al fronte stanno aspettando noi?! Io non devo farli aspettare!”.
D’altra parte, io ero contenta che Haji sarebbe rimasto una o due ore in più con noi, mentre l’auto era dal meccanico.
Ritornammo in casa insieme, però Haji mi sembrava diverso dalle volte precedenti. Diceva sempre: “L’unica cosa che impedisce che io diventi martire è il mio attaccamento a voi. Quando avrò risolto questo problema, allora puoi star sicura che sarà il momento che me ne andrò”.
Lo seguì con lo sguardo fino alla camera, ed era l’ennesima volta che pensava: “Come gli sta bene l’abito militare!”. Gli disse: “Così ti stanchi, vieni a sederti”. Haji si sedette a forza, appoggiandosi ai cuscini dietro di lui. Nella stanza c’era solo silenzio, a volte Mahdi alzava il coperchio della sua teiera giocattolo e la sbatteva sulla teiera stessa. Poi, andò verso Haji con la teiera in mano, però Haji non gli prestò attenzione, aveva girato la testa. Lei si arrabbiò: “Sei senza cuore!”, ma lui non rispose. Si alzò e lo guardò: i suoi occhi erano umidi e stringeva le labbra come se stesse provando un dolore insopportabile. Non disse niente, però le si strinse il cuore. Sentì che Haji si stava allontanando.
Quando vennero a prenderlo, Haji, per la prima volta, allacciò con calma gli stivali sulle scale di casa, cosa che di solito faceva sull’auto. Poi prese in braccio Mahdi ed io Mustafa. Sulla via verso l’auto rise ed a Mahdi disse: “Stai sempre diventando più grande, tua madre come farà a crescerti?”. Non diceva “io”, diceva “tua madre”. Quindi ringraziò la signora °Abadian, nella cui casa saremmo rimasti fino a quando le riparazioni della nostra casa sarebbero terminate.
Lo guardò mentre se ne andava: quando camminava così a testa alta metteva in risalto la sua statura e con che orgoglio camminava con quegli stivali vecchi e larghi! Sentiva già la sua mancanza. Voleva andare verso l’auto, però Haji era già salito. Si strinse il chador per il freddo e si asciugò gli occhi pieni di lacrime. L’auto di Haji ormai si vedeva a fatica.
Si diede forza: “Tornerà. Come sempre pregherò tanto affinché torni”.
Tutti telefonavano. Tutti chiedevano notizie della propria moglie e dei propri figli, tranne Haji.
Io ero molto preoccupata. Una volta gli dissi al telefono: “Potresti telefonare anche tu qualche volta per chiederci come stiamo. Islamabad è continuamente bombardata, non pensi che potrebbe esserci successo qualcosa?”. Haji rispose: “Ti ho detto tante volte che il primo ad andarmene sarò io, Allah non mi farà soffrire per la vostra perdita”. Dissi: “Mio padre è venuto per portarci ad Isfahan, posso andare con lui?”. Rispose: “Scegli tu”.
Quella sera insistetti molto perché venisse a casa. L’ultima volta che era venuto, la casa era mezza distrutta, la stavano ricostruendo. Adesso l’avevo ripulita da cima a fondo, avrei voluto che la vedesse. Però Haji non venne, disse: “E’ impossibile che possa venire”. Io non potei rifiutare all’invito di mio padre che era arrabbiato ed urlò: “Tu non sei solo sua moglie, sei anche mia figlia. Noi siamo preoccupati per te e i bambini”.
Tornai quindi ad Isfahan. Due settimane dopo Haji telefonò: “Sento molto la vostra mancanza”, e lo ripeté tante volte. Disse: “Se posso, vengo a trovarvi una giornata e poi torno, altrimenti mando qualcuno a prendervi”, s’interruppe un attimo: “Se mando qualcuno, vieni ad Ahvaz?”. Risposi: “Dovrei dire di no?!”. Quindi disse: “Con due bambini, sarà un viaggio difficile”. Risposi: “Io voglio venire a trovarti”.
Passò una settimana, però né Haji chiamò, né vennero a prenderci.
Una notte, mi alzai di colpo, mi sembrava che stesse per venire un temporale, a mia sorella dissi: “Stanotte verrà un brutto temporale”, lei rispose: “No, non soffia neanche un filo di vento”. Mi addormentai e mi svegliai di nuovo, piangevo. Mia sorella chiese: “Cos’è successo?”, risposi: “Ho paura della prima notte dopo la mia morte12”.
La notte seguente sognai di specchiarmi, tutti i miei capelli si erano ingrigiti, ero invecchiata.
La mattina andai con i bambini fuori Isfahan, avevo da fare.
Sentii la notizia dalla radio del minibus.
Gridò? Si lamentò? Urlò? Non lo capì. Mustafa incominciò a piangere e tutti la fissavano. Alcune donne del minibus la presero di forza, voleva scendere in mezzo alla strada, la fecero sedere, e lei si mise di nuovo a gridare. Piangeva anche e disse: “Fermate il minibus! Ma non avete sentito che mio marito è diventato martire?!”
Non era mio marito, in tutta la nostra vita assieme non l’avevo mai sentito come tale. L’avevo sempre sentito come un rivale che alla fine mi aveva anche sconfitto.
Quando andammo all’obitorio, non ci credevo ancora. Dicevo a tutti: “Io gli avevo giurato che non ci avrebbe mai lasciati”. Scherzavo sempre con lui, gli dicevo: “Se te ne vai senza di noi, vengo a tirarti le orecchie!”, poi andando all’obitorio scopri che non c’era più una testa a cui tirare le orecchie, quella persona che ti era così cara, che era tutto per te…
Abbassò lo sguardo e fissò i piedi di Haji: gli aveva comprato quelle calze proprio l’ultima volta che andava al fronte. Haji quando le vide nel suo borsone, gli piacquero e allora lei chiese: “Vado a comprartene altre due o tre paia?”. Rispose: “Adesso aspetta che queste si buchino, poi vedremo…”.
Non sopportava più il mondo, e nemmeno di vedere quel cadavere.
Disse: “Tu non potevi sopportare di vederci malati, però hai accettato che noi ti vedessimo in questo stato!” e pianse ad alta voce. Non tenne nemmeno conto dell’onore di Haji. Sapeva che tutti conoscevano Hemmat, e che per questo doveva essere forte. Però…Si piegò, strofinò le mani sulle ginocchia, come se stesse cercando qualcosa. A quelli che l’avevano accompagnata chiese: “Dove sono i miei piedi? Perché non posso camminare?” e si sedette per terra.
Esagerai molto nel mio comportamento e svenni alcune volte. Allah (SwT) mi perdoni…Era difficile da sopportare! Adesso, quando penso a quei giorni mi vergogno. Beh, in ogni caso Haji era pur sempre un servo di Allah (SwT), parte di questo mondo. Anche se le sensazioni che ho provato durante la nostra vita insieme non erano di questo mondo, erano dell’altro. Allah (SwT) benedica Haji!
Lo prendevo sempre in giro perché voleva assolutamente indossare la fede nuziale in qualsiasi momento. Gli chiedevo: “Adesso che scusa hai per questo?”. Lui rispondeva: “La fede nuziale è l’ombra della presenza di un uomo o donna nella vita di una persona. Io voglio che la tua ombra mi segua sempre. Io ho chiesto ad Allah che tu fossi la mia anima gemella in questo mondo e nell’altro”.

Note
1. Shahid Mostafa Chamran, comandante in capo delle operazioni di guerriglia e rappresentante dell’Imam Khomeyni (ra) nel parlamento iraniano.(N.d.T.)
2. (ra), abbreviazione di “Rahmat-Ullahi °aleyhi”, che la Clemenza di Allah (SwT) sia su di lui. (N.d.T.)
3. (as) abbreviazione di “°alayhi-hā-hum assalam”, “che la pace sia su di lui-lei-loro”, che viene utilizzato accanto ai nomi dei profeti, degli angeli, dei puri Imam e delle donne del Paradiso (Khadīja, Fatima, Maria, Asiah) e secondo alcuni pareri viene usato anche accanto a nomi di altre donne come Zeynab, Ruqayya, Oum Kulthum, Fatima Masuma…(N.d.T.)
4. (SwT) abbreviazione di “Subhana wa Ta°ala”, Lode a Colui che è privo di ogni imperfezione, l’Altissimo.(N.d.T.)
5. Si tratta della consultazione del Santo Corano per cercare la guida di Allah (SwT) nelle decisioni da prendere. Per approfondimenti, vedere ad esempio (in inglese): “Istikhara: Seeking the best from Allah (SwT)”, di Muhammad Baqir Haideri, disponibile anche su internet http://al-islam.org/istikhara/ (N.d.T.)
6. Per compiere il pellegrinaggio, il Hajj. (N.d.T.)
7. Shaikh al-Tūsi, nel suo libro Misbah, afferma che l’Imam Ĥasan al-°Askari scrisse questo du°ā’ per Abu Muĥammad che gli chiese di insegnarli il modo giusto di recitare la salawat. Ayatollah Majlisi afferma che non c’è problema che questo du°ā’ non possa risolvere. Allah Il Misericordioso è supplicato attraverso il Santo Profeta (S) e la sua Ahl ul-Bayt (as). Questo du°ā’ è anche conosciuto come la supplica per “la rapida soddisfazione di ogni desiderio legittimo”. (N.d.T.)
8. Il Basij è una forza volontaria che fu fondata nel 1980 dal defunto Imam Khomeyni (ra), l’anno successivo alla Rivoluzione Islamica. Il motivo principale della sua fondazione fu quello di sviluppare valori morali, unità e indipendenza nella Ummah islamica, in special modo fra i giovani. Il Basij ha svolto un ruolo fondamentale nel rafforzare il credo islamico e le sue tradizioni nella comunità. Con l’inizio della guerra imposta dell’Iraq contro l’Iran, che durò 8 anni, il gruppo diventò inoltre un gruppo di difesa civile, perché il paese ne aveva bisogno, e i giovani basij svolsero un ruolo fondamentale ed eroico di resistenza contro l’invasore iracheno. Attualmente il Basij è presente in ogni settore sociale di tutto il territorio iraniano. (N.d.T.)
9. Ja°far at-Tayar era il nipote del Profeta (S), fratello dell’Imam °Ali (as), che morì durante la guerra di Mu’tah, contro i romani, nell’attuale Giordania. Il Profeta (S) gli insegnò questa speciale preghiera per la sua devozione. Il tempo migliore per questa preghiera è dopo il levar del sole (Shuruq) e prima del mezzogiorno (Dhohor) del venerdì. Essa consiste in 4 raka’t, da realizzare in due serie. Durante la prima rak’ah, dopo la Sura al-Fatiha, si recita la Sura Zilzalah (99), durante la seconda rak’ah, dopo la Sura al-Fatiha, si recita la Sura al-°Adiyat (100), durante la terza rak’ah, dopo la Sura al-Fatiha, si recita la Sura an-Nasr (110), e infine, durante la quarta rak’at, dopo la Sura al-Fatiha, si recita la Sura al-Ikhlas (112). In ogni rak’at si deve recitare il Tasbihat al-Arba°ah: Subhaana-Allaahi wal-hamdu li-Allaahi wa laa ilaha illa-Allaah wa Allaahu Akbar (Gloria ad Allah e la Lode appartiene ad Allah e non esiste dio al di fuori di Allah e Allah è Grande) 15 volte dopo aver recitato le Sure, 10 volte in rukū°, 10 volte in qiyyam (dopo aver fatto il rukū° e prima di effettuare la sajdah, la prostrazione), 10 volte durante la prima sajdah, 10 volte stando seduti dopo la prima sajdah, 10 volte durante la seconda sajdah, e 10 volte stando seduti dopo la seconda sajda, per un totale di 75 volte per rak’ah, 300 volte contando tutti i 4 rak’at. (N.d.T.)
10. Tasbih” in arabo significa recitare i nomi di Allah (SwT) per un determinato numero di volte, ma in Farsi e in Urdu viene usato per chiamare i grani di preghiera o rosario, che in arabo si chiama Sibĥa. Nei primi tempi dell’Islam si usavano le falangi delle dita per contare il numero delle recitazioni. La prima persona che utilizzò un Tasbih o Sibĥa fu Fatima az-Zahrà (as), e nel Makarim al-Akhlaq è scritto che era fatto di un grosso filo di lana che aveva un numero di nodi pari al numero di volte che si deve recitare il Takbir (Allahu Akbar), e lo utilizzò fino alla morte di suo zio Hamza Ibn Abdal Muttalib, quando prese della terra dalla sua tomba e ne fece dei grani di preghiera che utilizzò da quel momento in poi. Dopo il martirio dell’Imam Husayn (as), la gente iniziò ad utilizzare la terra di Karbala per preparare i grani di preghiera, per via del grande beneficio che si ha nel solo tenere i rosari fatti di questa terra, in quanto si dice che essa è costantemente impegnata a glorificare Allah (SwT) e che faccia parte del Paradiso. (N.d.T.)
11. Si tratta di una tipica espressione iraniana, con la quale si intende dire che il Giorno del Giudizio si riferirà ad Allah (SwT) del cattivo comportamento di qualcuno. (N.d.T.)
12. A proposito del post mortem, Ayatullah Majlisi commenta che sebbene lo spirito sia separato dal corpo mantiene comunque un certo tipo di relazione, e sente tutto ciò che accade a quest’ultimo, come il senso di soffocamento e compressione per l’essere seppelliti nella terra. Il “Man la yahduruhul faqih” di Shaykh Saduq riporta che un cadavere non deve essere seppellito immediatamente perché la vista della tomba lo terrorizza. Quindi è bene dargli il tempo di prepararsi all’ “entrata”. Numerosi Ahādīth ci descrivono i difficili avvenimenti successivi alla morte, menzionano ad esempio la presenza di animali quali scorpioni e serpenti nella tomba al momento del seppellimento, o l’interrogatorio di Munkir e Nakir ecc. Per ulteriori approfondimenti al riguardo, cfr.: “Viaggio nel Mondo Invisibile” di Ayatullah Najafi Quchani e “Manazil ul-Akhirah”di Shaikh Abbas Qummi. (N.d.T.)

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