Il divano occidentale orientale

Il divano occidentale orientale



Goethe compose "Il divano occidentale orientale" tra il 1814 e il 1827, mentre affrontava la poesia persiana, la mistica islamica e la fluida ispirazione dell'Oriente. Lo definì "Incondizionato abbandono all'insondabile volontà di Dio, contemplazione serena della mobile attività terrena, che si ripete sempre in cerchio o a spirale, amore, inclinazione che ondeggia tra due mondi, tutto il reale spiegato e risolto nel simbolo." In apparenza nessun libro è più legato a questo mondo, ma poi tutto si perde nell'infinito e la storia si moltiplica nel bazar di un continuo presente. Testo originale a fronte.

Non so quale spettacolo mi affascini di più: se quello di un bambino che lasci già trasparire la sua futura personalità o quello di un uomo anziano che rifiorisca e si rinnovi. Per gli amanti di questa seconda emozione esiste un libro straordinario: il Divano occidentale-orientale di Goethe, tradotto, introdotto, curato da Giorgio Cusatelli, con la collaborazione di Donatella Mazzi e di Maria Teresa Granata. Diciamo subito che, come operazione filologica ed esito traduttorio, l' edizione (1) è di molto pregio, con l' unica menda di un indice che ha strani singhiozzi di omissione. Goethe, nel 1814, aveva sessantacinque anni. Pareva, come uomo e come scrittore, assestato: una parola dal suono sinistro, con un rintocco di fossilizzazione e di morte. Ma il genio, sapete dirmi che cos' è? Per Buffon è un lungo esercizio di pazienza, per Flaubert è nevrosi, per Nabokov è non conformismo, per Foscolo è istinto ispirato dall' alto, per Cocteau è l' acme del senso pratico, per Fontane è laboriosità, per Lamartine è dolore, per... Hanno ragione tutti, e proprio perché il genio è quanto di più ricco e vario si possa immaginare. Ma il genio è anche fortuna; talvolta sfacciata. Constatiamolo in questo caso. Nella primavera del 1814 l' editore Cotta manda a Goethe il canzoniere del poeta persiano Hafiz (sec. XIV), da lui pubblicato nella traduzione dell' orientalista Hammer-Purgstall. Goethe legge il libro e prende fuoco: ah, che bisogno aveva di una boccata di aria poetica nuova, dopo tanto Occidente! Par di tornare alla giovinezza, quando si appassionava alle storie dei patriarchi biblici o si documentava, per una tragedia poi rimasta in tronco, sulla vita e i tempi di Maometto. Colpo di fortuna numero uno. La fantasia infatti si mette in moto: perché non rivaleggiare, a modo suo, con quel fratello iranico? Ma non solo con lo spirito: Goethe vuole evadere anche col corpo, farsi un bel viaggio, tornare lungo il Reno, il Meno, il Neckar, rivedere la sua natia Francoforte, dopo tanti anni di piccoli spostamenti tra Weimar e la Boemia. Fino a poco prima sarebbe stato impossibile, le guerre napoleoniche non davano pace. Ma ora Napoleone sta all' Elba e le strade sono sgombre. Goethe si mette dunque in viaggio. Il ritorno alla Germania della sua infanzia e giovinezza gli fa un bene indicibile, spronando la sua fantasia di poeta. Colpo di fortuna numero due. Ma Hafiz insegna (e del resto Goethe queste cose non ha mai avuto bisogno di farsele insegnare da nessuno) che la creazione poetica, e soprattutto il canto lirico, difficilmente possono nascere senza un' accensione amorosa. Però, a metà della sessantina... Non ha importanza. Goethe, puntualmente, s' innamora: di Marianne Jung, prima amica poi moglie di un suo amico banchiere, von Willemer. Se ne innamora e ne è fervidamente riamato. La fonte del canto sgorga abbondante, in deliziosa forma orientale con note di acuta occidentalità autobiografica. Colpo di fortuna numero tre. Non solo. Marianne, che è piena d' ingegno e di estro, risponde a Goethe in poesia. Lo sappiamo solo dal 1869, quando il grande Hermann Grimm (uno dei fratelli Grimm delle fiabe) ne ebbe le prove: alcuni dei più bei componimenti della raccolta sono stati scritti da lei, con minimi ritocchi di Goethe. Colpo di fortuna numero quattro. E' già un romanzo: uno dei più belli di quell' età prodigiosa che va dal Settecento maturo all' Ottocento non ancora adagiatosi nel filisteismo. Ma un romanzo più prezioso è il libro stesso. Che ha, certo, la struttura di un canzoniere lirico diviso in dodici parti con altrettanti titoli persiani (Moganni Nameh o Libro del cantore, Uschk Nameh o Libro dell' amore, ecc.); che si diletta, certo, di calligrafismi di uno squisito orientalismo europeizzante; che ricalca, certo, costumanze e immagini, cortigianerie e stilemi di quell' esotico mondo fiabesco: ma che è, soprattutto, un' avvampante confessione, che non ci brucia solo perché rinfrescata da una suprema eleganza; un giornale di bordo che ci rende conto, porto per porto, d' una navigazione della coscienza e della sensibilità che credo, nell' Europa di allora, non abbia avuto confronto. LA GEMMA dell' opera è il Libro di Suleika, la donna hafiziana che impersona Marianne von Willemer, ed è amata da Hatem, la controfigura persiana di Goethe. E' lì che il canto d' amore lirico raggiunge alcuni dei suoi punti insuperati. Ma il Divan (cioè la Raccolta) non è solo un canzoniere d' amore. Ripensando a Hafiz, Goethe ci mette anche il vino (che lui stesso amava non poco), la politica (parla di Timur, cioè di Tamerlano, ma sotto quel despota si riconosce la faccia romana di Napoleone), il coppiere (il bellissimo efebo che Hafiz amava anche sensualmente, Goethe invece più con un eros di tipo pedagogico), dà sfogo ai malumori (contro pedanti, moralisti, nazionalisti, politicastri), indulge alla vena gnomica in meditazioni sentenze parabole, si spalanca a raggianti avventure mistiche, vagheggiando il culto solare di Zoroastro o, nel Libro del paradiso, esplicitando quella trasfigurazione nell' assoluto e nell' eterno che però è presente - e spesso in forma poetica più felice - in tutto il volume, tanto un ricciolo della sua bella, il canto dell' usignolo (orientalmente bulbul) o dell' upupa (hudhud), l' occhio della luna, un umile asinello, un riflesso di luce sull' acqua travalicano la loro limitatezza e si fanno cifratura dell' infinito. Talvolta, specie nelle parti sentenziose, fa capolino anche il Goethe un po' pedante e con venature di banalità. Ma non è raro l' assolutamente perfetto (poesie come Desiderio beato, Confessione, Senza confini, Mistero palese, Cenno d' occhi, Segreto, Possibile, bella, Dei ben trascritti, Ma voi, ciocche, Che la tua bocca, Ma quanti sensi, Anche lontano, Come restar sereno, Guarda quei rami, Non appena, Abituarmi alla tua occhiata, Ritrovarsi, Notte di luna piena... e salto fino ai versi postumi, dove brilla solitaria Che io pianga lasciate). Tuttavia, insieme con questi esiti di fresco cristallo, parla molto alla nostra sensibilità il gusto giocoso della sperimentazione, della mascherata, della stilizzazione, che fanno del vecchio Goethe un poeta-ragazzo in vena di rovesciare altarini, di gettar luce su angoli bui, di stabilire contatti elettrici tra poli assai distanti e che scoccano abbaglianti scintille. Un' avanguardia di questo tipo (perché, non c' inganni l' anno 1819, che vide la pubblicazione del Divan: qui ci troviamo di fronte a un libro di schietta avanguardia) non solo ha tutti i numeri per sbalordire e magari scandalizzare i contemporanei, ma possiede anche la carica necessaria per durare a lungo, o addirittura per restare un sempreverde. E questo, di quali e quanti prodotti delle nostre più recenti avanguardie si può dire? E' USCENDO da questa tenda orientale piena di gemme luccicanti e di profumi che vorremmo restar soli con noi stessi, col nostro turbamento e i nostri pensieri. Invece Goethe ci fa, a posteriori, da cicerone, con Note e saggi in prosa che dovrebbero servire a una migliore comprensione del Divan. Non c' è dubbio, sono pagine preziose; e, va da sé, sovranamente ben scritte. Per di più dottissime, anche se - ci fa notare l' esperta Maria Teresa Granata - con vistose lacune o errori di giudizio. Tuttavia, dopo la pinacoteca smagliante dei versi, queste prose sanno un po' di lezione universitaria, anche se tenuta da un uomo di gran fascino e dalla bellissima voce. Se proprio dovessi scegliere una chicca da portare a casa, opterei per un brano un po' fuori tema e scritto da Goethe parecchio tempo prima: la sua ricostruzione alla Sherlock Holmes del reale esodo degli Ebrei dall' Egitto e della vera figura di Mosè. Ma torniamo a Suleika, divenuta una beniamina d' ogni lettore di gusto. La donna che la ispirò, Marianne, era moglie di un buon amico di Goethe, come si è detto; e Goethe stesso aveva a casa una consorte, anche se non più per molto (sarebbe morta nel 1816). Da tempo Goethe non amava le passioni che creassero drammi. Perciò, dopo l' estate del 1814 e quella del 1815, nel 1816 non tornò più sui luoghi occidentali di Marianne. Questo pagano, del resto, era diventato da tempo uno dei più convinti predicatori della rinuncia come mezzo di sublimazione morale. (Pochi anni prima, nel 1809, era uscito il suo libro che, della rinuncia, aveva fatto un valore laico che nulla aveva da invidiare alla più severa ascesi religiosa: Le affinità elettive). Così, nel Divan, anche l' apertura all' islamismo delle urì non impedisce a Goethe di far professione finale di rinuncia, chiudendo per sempre un' avventura che, come tante altre della sua vita, doveva rivelarsi post factum soprattutto provvidenziale per aver acceso in lui una nuova fiammata poetica. Marianne accettò, in silenzio: sempre innamorata di lui, ma anche fedele al marito. Colpo di fortuna numero cinque. O cento? O mille? Con Goethe, quanto a colpi di fortuna, si perde il numero.

(1)Il divano occidentale orientale

Goethe J. Wolfgang



1997, 732 p.

Koch L.; Porena I.; Borio F.

BUR Biblioteca Univ. Rizzoli  (collana Classici)


http://www.ibs.it/code/9788817171632/goethe-j--wolfgang/divano-occidentale-orientale.html

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/10/28/quando-goethe-divenne-persiano.html

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