di Walter Russell Mead - Analista
politico nordamericano, tra i principali studiosi della politica estera
statunitense, ricercatore presso il prestigioso ed influente “Council on
Foreign Relations” di New York.
Il saggio che segue è un sunto
tratto da http://www.foreignaffairs.com/articles/141211/walter-russell-mead/the-return-of-geopolitics
Finora il 2014 è stato un anno tumultuoso,
come dimostrano le rivalità geopolitiche che hanno preso piede e sono tornate
al centro della scena. Che si tratti della Russia che si prende la Crimea, o
della Cina che promuove un approccio aggressivo nelle sue acque territoriali, o
del Giappone che risponde con una strategia sempre più improntata ai propri
interessi, o dell’Iran che cerca di utilizzare le sue alleanze con la Siria e
Hezbollah per dominare il Medio Oriente, i giochi di potere vecchio stile sono
tornati all’ordine del giorno nelle relazioni internazionali. Tutto ciò, almeno
agli occhi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, sono tendenze inquietanti.
Entrambi preferiscono abbandonare le questioni geopolitiche legate alle
diatribe sui territori e sulla potenza militare e concentrarsi invece su
vicende legate all’ordine mondiale e alla governance globale: la
liberalizzazione del commercio, la non proliferazione nucleare, i diritti
umani, lo stato di diritto, il cambiamento climatico e così via. Infatti, dalla
fine della Guerra Fredda, l’obiettivo più importante della politica estera
degli Stati Uniti e dell’UE è stato quello di spostare i rapporti
internazionali lontano dai problemi a “somma zero” verso quelli in cui le parti
della contesa possono considerarsi entrambi vincenti. Essere trascinati di
nuovo in scontri di vecchia scuola come quello in atto in Ucraina non si limita
a far perdere tempo ed energia e allontanare dalle questioni importanti; cambia
anche il carattere della politica internazionale. Mentre l’atmosfera diventa più
cupa, il compito di promuovere e mantenere l’ordine mondiale diventa più
scoraggiante.
Ma gli occidentali hanno
sbagliato nel pensare che la geopolitica vecchio stile potesse sparire. Lo
hanno fatto solo perché fondamentalmente avevano frainteso ciò che il crollo
dell’Unione Sovietica ha significato: il trionfo ideologico della democrazia
capitalistica liberale sul comunismo, ma ciò non implicava la fine dell’uso del
hard power. Cina, Iran e Russia non hanno mai abdicato al tentativo di
modificare gli equilibri geopolitici che hanno seguito la fine della Guerra Fredda,
e stanno facendo tentativi sempre più forti per rovesciarlo. Tale processo non
sarà pacifico, e a prescindere dal successo eventuale o meno dei revisionisti,
i loro sforzi hanno già scosso gli equilibri di potere e hanno cambiato le
dinamiche della politica internazionale.
Quando la Guerra Fredda era
finita, molti americani ed europei sembravano pensare che le questioni
geopolitiche più fastidiose erano state in gran parte risolte. Con l’eccezione
di una manciata di problemi relativamente minori, come i mali della ex
Jugoslavia e la disputa israelo-palestinese, le grandi questioni della politica
mondiale, si pensava, non sarebbero più riguardate i confini, le basi militari,
l’autodeterminazione nazionale o le sfere di influenza. Non si può biasimare la
gente perché nutre una speranza. L'approccio occidentale alla realtà del mondo
post-Guerra Fredda ha avuto un importante impatto emozionale, ma è difficile pensare
come la pace nel mondo possa mai essere raggiunta senza sostituire la
competizione geopolitica con la costruzione di un ordine mondiale liberale.
Eppure gli occidentali spesso dimenticano che questo progetto si basa su
particolari fondamenta geopolitiche dei primi anni ‘90.
In Europa, l'insediamento
dell’ordine post-Guerra Fredda ha comportato l’unificazione della Germania, lo
smembramento dell'Unione Sovietica e l'integrazione degli ex Stati del Patto di
Varsavia e le repubbliche baltiche nella NATO e nell’UE. In Medio Oriente, ha
comportato il predominio delle potenze sunnite che erano alleate con gli Stati
Uniti (Arabia Saudita , i suoi alleati del Golfo, Egitto e Turchia) e il doppio
contenimento dell’Iran e dell’Iraq. In Asia, significava il dominio incontrastato
degli Stati Uniti, incorporato in una serie di relazioni di sicurezza con il
Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, l’Indonesia ed altri alleati. Questo
ordine rifletteva la realtà del potere di quell’epoca, ed era stabile solo
grazie alle relazioni che si intrattenevano. Purtroppo, molti osservatori
fusero le condizioni geopolitiche temporanee del mondo post-Guerra Fredda con
l’esito finale della lotta ideologica tra democrazia liberale e comunismo sovietico.
Il celebre politologo Francis Fukuyama che alla fine della Guerra Fredda ha
parlato della “fine della storia”, esprimeva una posizione ideologica. Ma per
molte persone, il crollo dell'Unione Sovietica non ha solo significato che la
lotta ideologica dell’umanità era finita per sempre; essi hanno pensato che
anche la geopolitica fosse finita.
A prima vista, questa conclusione
appare come una estrapolazione della tesi di Fukuyama, piuttosto che una
distorsione di essa. Dopo tutto, l’idea della fine della storia basata sulle
conseguenze geopolitiche delle lotte ideologiche è riscontrabile fin dai tempi
di Hegel all'inizio del XIX secolo. Per Hegel, fu la battaglia di Jena, nel
1806, che aprì le danze della guerra delle idee. Agli occhi di Hegel, la
vittoria di Napoleone Bonaparte sull’esercito prussiano in quella breve
campagna rappresentava il trionfo della Rivoluzione francese sul miglior
esercito che l'Europa pre-rivoluzionaria poteva produrre. Hegel di fatto
sosteneva la fine della storia, perché in futuro, solo gli Stati che avrebbero
adottato i principi e le tecniche della Francia rivoluzionaria sarebbero stati
in grado di competere e sopravvivere.
Adattato per il mondo post-Guerra
Fredda, ciò vuol dire che in futuro, gli stati dovrebbero adottare i principi
del capitalismo liberista per tenere il passo. Le società comuniste chiuse,
come l'Unione Sovietica, si erano dimostrate essere troppo statiche e
improduttive per poter competere economicamente e militarmente con gli stati
liberali. I loro regimi politici erano anche traballanti, dal momento che
nessuna forma sociale diversa da quella della democrazia liberale forniva
abbastanza libertà e dignità affinché una società contemporanea potesse
rimanere stabile. Per combattere l’Occidente con successo, si doveva diventare
come l’Occidente, e se questo fosse accaduto ci si sarebbe trovati con una
società annacquata, una società pacifista che non avrebbe voluto combattere per
alcuna cosa. I restanti pericoli per la pace mondiale sarebbero venuti da stati
canaglia come la Corea del Nord, e sebbene tali paesi potevano avere la volontà
di sfidare l’Occidente, sarebbero stati troppo paralizzati dalle loro strutture
politiche e sociali obsolete per poter dare fastidio (a meno che riescano a
sviluppare armi nucleari, ovviamente). E così stati ex comunisti, come la
Russia, si trovarono difronte a una scelta. Potevano saltare sul carro della
modernizzazione e diventare liberali, aperti e pacifisti, o potevano
aggrapparsi amaramente alle loro armi e alla loro cultura.
In un primo momento, tutto sembrava
funzionare. Con la storia finita, l’attenzione si è spostata dalla geopolitica
all’economia dello sviluppo, e il grosso della politica estera è venuta a concentrarsi
su questioni come il cambiamento climatico e il commercio. La fusione della
fine della geopolitica e la fine della storia ha offerto una prospettiva
particolarmente allettante per gli Stati Uniti: l’idea che il paese potesse
cominciare a rimetterci meno nel sistema internazionale, ma prendendo e
guadagnando di più. Si pensava di poter ridurre la sua spesa per la difesa,
tagliare gli stanziamenti del Dipartimento di Stato, avere un profilo più
defilato negli incontri internazionali - e il mondo poteva così evolvere verso
la prosperità e maggiore libertà. Questa visione univa sia i liberal che
i conservatori negli Stati Uniti. L'amministrazione del presidente Bill
Clinton, per esempio, tagliò sia le spese del Dipartimento della Difesa che
quelle del Dipartimento di Stato e riuscì a malapena a convincere il Congresso
a continuare a pagare le quote degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. Allo
stesso tempo, i politici presumevano che il sistema internazionale sarebbe
diventato più forte, pur continuando ad essere favorevole agli interessi
statunitensi. I repubblicani neo-isolazionisti, come Ron Paul, hanno sostenuto
che, data l’assenza di gravi sfide geopolitiche, gli Stati Uniti potrebbero
tagliare drasticamente le spese militari e gli aiuti esteri, pur continuando a
beneficiare del sistema economico globale.
Dopo l’undici settembre 2001,
Bush basò la sua politica estera sul fatto che I terroristi del Medio Oriente
erano l’unica grande minaccia e scatenò, come disse, una lunga guerra contro di
loro. Per certi aspetti, parve che il mondo fosse tornato nell’ambito della
storia. Ma l’amministrazione Bush pensava che la democrazia potesse essere
impiantata rapidamente nel Medio Oriente arabo, cominciando dall’Iraq,
implementando quindi una serie di eventi che potenzialmente avrebbero favorito
gli interessi americani.
Il presidente Obama ha costruito
la propria politica estera sul fatto che la “guerra al terrore” fosse finita,
la storia fosse realmente finita, e come nell’era Clinton, la priorità era edificare
un mondo liberale, non la geopolitica. Obama compilò un’agenda ambiziosa:
fermare le ambizioni nucleari dell’Iran, risolvere il conflitto
israelo-palestinese, negoziare un trattato sui cambiamenti climatici, promuovere
trattati di libero scambio nel Pacifico e nell’Atlantico, siglare intese sullo
smantellamento militare con la Russia, riallacciare le relazioni col mondo
islamico, promuovere i diritti degli omosessuali, ristabilire relazioni
fiduciarie con gli europei e terminare il conflitto in Afghanistan. Allo stesso
tempo, Obama voleva tagliare le spese militari e ridurre la presenza in teatri
chiave del mondo, ovvero Europa e Medio Oriente.
Tutte queste belle convinzioni
ora sono state testate. In diversi modi, paesi come Cina, Iran e Russia hanno
perseguito l’obiettivo di ribaltare questo status quo. Dopo 25 anni
dalla caduta del Muro di Berlino, se uno volesse vedere e analizzare la
rivalità tra UE e Russia in Ucraina, con l’annessione della Crimea a Mosca,
l’intensificarsi della diatriba tra Cina e Giappone nell’Asia orientale o
l’emergere di uno scontro settario internazionale in Medio Oriente, dovrebbe
ammettere che siamo entrati in un’era post-fine della storia. In modi diversi e
con obiettivi diversi, Cina, Iran e Russia stanno spingendo verso il ritorno di
un ordine simile a quello della Guerra Fredda. Le relazioni tra questi tre
paesi, tra queste tre potenze revisioniste dell’ordine mondiale post-Guerra
Fredda sono complesse. Nel lungo periodo, la Russia teme la crescita cinese. La
visione del mondo di Tehran è in una piccola misura in comune con Pechino e
Mosca. L’Iran e la Russia sono esportatori di greggio e hanno interesse che il
prezzo del petrolio sia alto, mentre la Cina importa greggio e ha un interesse
antitetico. L’instabilità politica del Medio Oriente avvantaggia Iran e Russia,
ma è una minaccia per la Cina. Non si può parlare di alleanza strategia tra i
tre, e prossimamente, soprattutto se il contenimento dell’influenza degli USA
in Eurasia avrà successo, le tensioni tra loro emergeranno.
Ciò che lega queste potenze
tuttavia, è il loro accordo sul fatto che lo status quo deve essere
rivisto. La Russia vuole ricomporre l’Unione Sovietica. La Cina non ha alcuna
intenzione di accontentarsi di un ruolo secondario negli affari mondiali, né
potrà accettare l’attuale grado di influenza degli Stati Uniti in Asia. L’Iran
intende sostituire l'attuale ordine in Medio Oriente - guidato da Arabia
Saudita e dominato dagli stati arabi sunniti - con un ordine regionale centrato
su Tehran.
I leader in tutti e tre i paesi
concordano inoltre sul fatto che il potere degli Stati Uniti è il principale
ostacolo per raggiungere i loro obiettivi revisionisti. La loro ostilità verso
Washington e il suo ordine mondiale è di tipo offensivo e difensivo: non solo
sperano che il declino del potere statunitense renderà più facile riordinare le
loro rispettive regioni, ma temono anche che Washington potrebbe tentare di
creare problemi all’interno di Cina, Iran e Russia, fomentando le discordie.
Eppure i revisionisti vogliono evitare scontri diretti con gli Stati Uniti,
tranne in rare circostanze in cui le probabilità di successo sono fortemente a
loro favore (come per la Russia nel 2008, con l’invasione della Georgia e la
sua occupazione e l’annessione della Crimea quest'anno). Invece di attaccare
direttamente lo status quo, cercano di sgretolare le norme e le
relazioni che lo sostengono.
Da quando Obama è presidente,
ognuna di queste tre potenze ha perseguito una strategia distinta alla luce dei
suoi punti di forza e di debolezza. La Cina, che ha le maggiori capacità dei
tre, è stata paradossalmente la più frustrata. I suoi sforzi per affermarsi
nella sua regione hanno portato solo ad un più stretto legame tra gli Stati
Uniti e i suoi alleati asiatici, e hanno intensificato il nazionalismo in
Giappone. Più Pechino cresce, più aumenta il suo senso di frustrazione. La
crescita della Cina sarà accompagnata da un aumento della risoluzione del Giappone,
e le tensioni in Asia si abbatteranno sull’economia e politica globale.
L’Iran è il più debole dei tre
stati, ma ha avuto il record dei successi. La combinazione dell’invasione degli
Stati Uniti in Iraq e il suo ritiro prematuro ha permesso a Tehran di cementare
legami profondi e duraturi con i centri di potere importanti al di là del
confine iracheno, uno sviluppo che ha cambiato sia il potere confessionale che
l’equilibrio politico nella regione. In Siria, l’Iran, con l’aiuto del suo
alleato di lunga data, Hezbollah, è stato in grado di invertire la tendenza
militare e sostenere il governo di Bashar al-Assad di fronte alla forte
opposizione da parte del governo degli Stati Uniti. Questo trionfo della realpolitik
ha aggiunto notevole potere e prestigio all’Iran. In tutta la regione, la
primavera araba ha indebolito i regimi sunniti, inclinando ulteriormente la
bilancia a favore dell’Iran. Così è evidente la crescente divisione tra i
governi sunniti su cosa fare per i Fratelli Musulmani e le sue varie succursali
in giro per il Medio Oriente.
La Russia, nel frattempo, è
emersa come il revisionista “mezzano”: più potente dell’Iran, ma più debole
della Cina, ha avuto più successo rispetto alla Cina in geopolitica, ma meno
successo dell’Iran. La Russia è stata moderatamente efficace a incunearsi tra
la Germania e gli Stati Uniti, ma la politica del presidente russo Vladimir
Putin di ricostruire l’Unione Sovietica è al momento debole, per via delle
difficoltà economiche. Per costruire un vero e proprio blocco eurasiatico, come
Putin sogna di fare, la Russia avrebbe dovuto sottoscrivere le “bollette
energetiche” delle ex repubbliche sovietiche - cosa che non può permettersi di
fare.
Tuttavia Putin, nonostante la sua
mano debole, è stato fautore di un notevole successo fronteggiando i progetti
occidentali sul territorio ex sovietico. Ha fermato l’espansione della NATO, ha
smembrato la Georgia, l’Armenia è entrata nella sua orbita, ha stretto la sua
presa sulla Crimea e con la sua avventura ucraina, ha messo l’Occidente
dinnanzi a una sorpresa umiliante. Dal punto di vista occidentale, Putin sembra
condannare il suo paese verso un futuro sempre più oscuro di povertà e di
emarginazione. Ma Putin non crede che la storia è finita, e dal suo punto di vista,
ha consolidato la sua potenza in casa e ha ricordato alle potenze straniere
ostili che l’orso russo ha ancora artigli affilati.
Obama quindi ora si ritrova impantanato
esattamente nel tipo di rivalità geopolitica che aveva sperato di trascendere. Le
potenze revisioniste hanno degli ordini del giorno e delle capacità in base
alle quali nessuno di essi può fornire il tipo di opposizione sistematica e
globale che l’Unione Sovietica faceva a suo tempo. Come risultato di ciò, gli
americani hanno tardato a rendersi conto che questi stati hanno minato l'ordine
geopolitico eurasiatico in modo da complicare gli sforzi statunitensi ed
europei per la costruzione di un mondo post-fine della storia, basato sul
concetto di vittorie condivise tra vari attori internazionali.
Eppure, si possono vedere gli
effetti di questa attività revisionista in molti luoghi. In Asia orientale, la
posizione della Cina deve ancora produrre molti progressi concreti da un punto
di vista geopolitico, ma già ora ha radicalmente modificato le dinamiche
politiche nella regione con la più rapida crescita economica nel mondo. La politica
asiatica oggi ruota attorno a rivalità nazionali, contrastanti rivendicazioni
territoriali, dispute navali e questioni storiche. Il sentimento nazionalista
in Giappone è una risposta diretta alla agenda della Cina; ormai Pechino e
Tokio stanno aumentando la loro retorica, aumentando i loro bilanci militari e
procedono verso un tipo di confronto a somma zero.
Anche l’UE ha vissuto in un’epoca
post-fine della storia, ma i paesi dell’ex blocco sovietico, nel continente
europeo, hanno vissuto in un’altra epoca. Negli ultimi anni il sogno di
trasformare le ex repubbliche sovietiche è fallito. L’occupazione russa dell’Ucraina
è stato solo l’ultimo passo che ha portato la regione in una zona di confronto
geopolitico a scapito dell’effettiva stabilizzazione e democratizzazione dell’area,
tranne che per la Polonia e i paesi balitici.
In Medio Oriente la situazione è
ancora più grave; il sogno di vedere la democrazia nel mondo arabo, sogno che
ha accomunato sia Bush che Obama, è fallito. Ciò è dovuto al fatto che gli USA
hanno dovuto confrontarsi con una regione nata da divisioni arbitrarie delle
zone arabe in mano agli ottomani con l’accordo Sykes-Picot del 1916, aprendo la
strada alla creazione di stati come la Siria, l’Iraq e il Libano. Obama ha
fatto del suo meglio per separare le dispute geopolitiche rispetto all’emergere
dell’Iran nella regione, questione complicata dalla vicenda nucleare. Ma
Israele e Arabia saudita sono troppo preoccupati dall’Iran e la Russia ha
giocato la carta del diritto di veto all’ONU per sostenere la Siria di Assad. La
Russia vede lo scontro in Medio Oriente come una parte importante della sfida
agli USA. Se queste potenze revisioniste hanno avuto dei successi, ciò ha
portato a minare lo status quo dell’ordine globale. In tutto ciò notiamo
che la capacità dell’Europa di agire fuori dai propri confini si sia molto
ridimensionata, in quanto con la crisi dell’Euro l’attenzione europea è
concentrata sugli affari interni.
Gli Stati Uniti non hanno
sofferto qualcosa di simile al dolore economico dell’Europa, ma con il paese di
fronte alla sbornia di politica estera indotta dalle guerre dell’era Bush, c’è
stato un netto calo di interesse dell’opinione pubblica per le crisi
internazionali.
Obama ha deciso di tagliare le
spese militari e di ridurre l’importanza della politica estera nella politica
americana, rafforzando l’ordine del mondo liberale. Ormai nella fase finale del
suo mandato di otto anni, si ritrova sempre più impantanato esattamente nel
tipo di rivalità geopolitiche che aveva sperato di non vedere. I cinesi, gli
iraniani e i russi col loro revanscismo non hanno ancora ribaltato l’ordine
post-Guerra Fredda in Eurasia, e non potranno mai farlo, ma hanno trasformato
uno status quo non contestato in uno contestato. Il presidente degli
Stati Uniti non ha più mano libera per far crescere il sistema liberale; ormai
anche lui deve ripassare le fondamenta della geopolitica.
Fukuyama pubblicò “La fine della
storia e l’ultimo uomo” più di 20 anni fa, e si è tentati di vedere il ritorno
della geopolitica come una confutazione definitiva della sua tesi. La realtà è
più complicata. La fine della storia, come Fukuyama aveva ricordato ai lettori,
è stata un’idea di Hegel, e anche se lo stato rivoluzionario aveva trionfato
sopra il vecchio tipo di regime, Hegel sosteneva che la concorrenza e il
conflitto continueranno.
Una visione hegeliana del
processo storico oggi ci porterebbe a ritenere che sostanzialmente poco è
cambiato dall’inizio del XIX secolo. Per essere potenti, gli Stati devono
sviluppare le idee e le istituzioni che consentono loro di sfruttare le forze
titaniche del capitalismo industriale e informatico. Non c'è alternativa;
società incapaci o non disposte ad abbracciare questo percorso finiranno fuori
dalla storia.
Ma la strada per la postmodernità
rimane difficile. Al fine di aumentare la sua potenza, la Cina, per esempio,
dovrà chiaramente passare attraverso un processo di sviluppo economico e
politico che porterà il paese a confrontarsi con dei problemi simili a quelli
dei paesi occidentali oggi. La seconda parte del libro di Fukuyama ha ricevuto
meno attenzione, forse perché è meno lusinghiero per l’Occidente. In quella
parte del lavoro emerge quanto segue: in un’epoca di liberalismo e democrazia
dove la geopolitica cede il passo allo sviluppo economico, gli esseri umani di
queste società post-fine della storia diventano nichilisti; in ciò Fukuyama
riprende Nietzsche, quando egli descrive la necessità dell’”oltre-uomo”, dell’”uomo
nuovo”, da contrapporre all’uomo vecchio, che non ha più niente da chiedere
alla storia. Per Fukuyama l’uomo tipico della società liberale globale è un
consumatore narcisistica senza grandi aspirazioni al di là del prossimo viaggio
da fare, magari in qualche isola tropicale.
In altre parole, queste persone
sarebbero molto simili ai burocrati europei di oggi e ai lobbisti di
Washington. Sono abbastanza competenti per gestire i loro affari tra le persone
della società post-storica, ma capire le motivazioni e contrastare le strategie
dei politici di vecchio stampo è difficile per loro. A differenza dei loro
rivali meno produttivi e meno stabili, la gente della società post-storica è meno
disposta a fare sacrifici, si concentra sul breve termine, è facilmente
distraibile ed è priva di coraggio.
Le realtà della vita personale e
politica nelle società post-storiche è molto diversa da quelle in paesi come la
Cina, l’Iran e la Russia, dove splende ancora il sole della storia.
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