Obama non interverrà in Iraq perché ha un “Piano B”: sperare negli ayatollah

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No, gli Stati Uniti non interverranno massicciamente in difesa del governo iracheno di Al Maliki sotto assedio, tutt’al più faranno l’indispensabile perché lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) non vinca completamente la partita. Per una ragione che pochi sono disposti a confessare e che la retorica anti-jihadista dell’amministrazione americana occulta accuratamente: l’avanzata dei terroristi sunniti è funzionale alla politica degli Stati Uniti in Medio Oriente dopo il ritiro delle loro truppe dall’Iraq, concluso nel dicembre 2011. Sul posto sarebbero dovute restare alcune migliaia di unità a garantire la stabilità del paese e a far progredire l’addestramento delle forze locali, ma il primo ministro sciita, anche per le pressioni di Teheran, non raggiunse alcun accordo con Obama e l’esodo americano fu totale. Otto anni di occupazione militare, una guerra costata 139 mila morti (di cui 4.400 americani) e 130 miliardi di dollari spesi per armare e addestrare l’esercito iracheno post-Saddam hanno prodotto l’ascesa al potere a Baghdad di un governo amico dell’Iran e molto freddo nei confronti di Washington.

 Da qui la necessità di cambiare strategia: piuttosto che lasciar scivolare l’Iraq, con tutte le sue armi e il suo petrolio, nella sfera d’influenza iraniana, per l’America è molto meglio veder realizzato quel “piano B” di cui molti parlarono negli anni più caldi della crisi interna irachena, quelli fra il 2005 il 2007. Cioè la spartizione del paese fra sunniti, sciiti e curdi, le tre componenti etno-religiose tenute insieme con la forza da Saddam Hussein. Non essendo più possibile esercitare sull’Iraq la propria influenza, gli Stati Uniti puntano sul piano B per assestare all’Iran un doppio colpo: non solo sottraggono agli ayatollah un alleato strategico, ma li spingono verso un intervento militare diretto per salvare tale alleato, con tutti i rischi di impantanamento che gli americani ben conoscono.
 
Obama non può dire queste cose ad alta voce, ma le dicono per lui gli editorialisti del New York Times. Scrive Thomas Friedman: «È stato l’Iran ad armare le milizie sciite con gli ordigni esplosivi che hanno ucciso e ferito tanti soldati americani. L’Iran voleva che ce ne andassimo. Ed è stato ancora l’Iran a fare pressioni su Maliki perché non firmasse l’accordo che avrebbe dato copertura legale alla presenza delle nostre truppe. L’Iran voleva essere l’egemone regionale. Bene, generale Suleimani (il comandante delle truppe speciali iraniane, ndr), “Questa birra è per te”. Ora sono le tue forze a essere sovraesposte in Siria, Libano e Iraq, mentre le nostre sono tornate a casa. Buona fortuna. Con l’Iran ancora sottoposto a sanzioni e le sue forze impegnate a combattere insieme a quelle di Hezbollah in Siria, Libano e Iraq, beh, diciamolo: vantaggio per l’America».
 
Le strategie di Washington
Dall’Ucraina alla Siria all’Iraq, la politica estera americana appare sempre più basata sulla lezione imparata dagli errori del passato: impantana i tuoi nemici (Russia, Iran) come tu fosti impantanato (Vietnam, Afghanistan, Iraq). Che Isil non sia isolato come si vuol far credere lo si può capire da molti indizi. Mentre si scontrano sanguinosamente con le truppe di Baghdad, i suoi uomini hanno solo scaramucce minori coi curdi, che grazie all’offensiva in corso si sono impadroniti di Kirkuk e di altre posizioni strategiche da mettere al servizio di un Kurdistan indipendente. Gli ostaggi turchi sono stati rilasciati e Ankara non ha nessuna intenzione di intervenire, mentre i ribelli del vecchio Baath e alcune milizie tribali sunnite combattono a fianco degli uomini dell’Isil. Su Washington splende il sole.


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