Intervista con Claudio Moffa: sionismo, talmudismo, 'logica di razza', diritto
internazionale
L’attacco
israeliano contro Gaza appare sempre più sconvolgente: dal punto di
vista umano, perché sono morte oltre 1.000 persone, tanti bambini, malati,
persone deboli; poi perché la comunità internazionale non interviene a tutela
della popolazione indifesa; infine -punto importante (condiviso da molti
sopravvissuti alla Shoah)- come è possibile che coloro che hanno subito la
Shoah (ebrei) possano riservare a un altro popolo (arabi) un trattamento
per molti aspetti analogo? Parliamo di due popoli che appartengono
allo stesso ceppo linguistico, quello semita.
È scomodo, ma difficile da negare, dire che il comportamento di Israele
nei confronti di Gaza sia umanamente e storicamente inspiegabile ed è facile
sentire sulla bocca 'dell’uomo della strada' il ricorso a metafore
apparentemente poco corrette. Eppure, anche cercando di motivarle, le
argomentazioni che cercano di approfondire la posizione israeliana rischiano di
evocare ignobili pogrom, persecuzioni ai danni del popolo ebraico che nella
storia ha sofferto molto. Quanto abbia sofferto, quali siano le motivazioni di
un passato così pesante, non è tema di questo servizio. Ma ha sofferto -e
continua a soffrire- anche il popolo palestinese. Che nemmeno un essere umano
debba morire nei campi di sterminio o in una prigione a cielo aperto è un
valore irrinunciabile; contare le vittime e determinare le ragioni che
hanno portato a tante morti è una questione di fonti storiche. Infine, ciò che
decidono i governanti non necessariamente rappresenta la volontà di un popolo.
Claudio Moffa è professore ordinario di
Storia delle Relazioni Internazionali e di Storia del Diritto Internazionale
all’Università di Teramo, e membro dell’ASDIE - Associazione degli Studiosi del
Diritto Internazionale e Europeo.
Professor Moffa, Lei ha scritto
«un cognome non fa l’ebreo, un ebreo non fa il sionista, un sionista
non fa il talmudista»; sembra significare che contano i
comportamenti, non le parole. È così? Ci spiega meglio questa frase?
Certo i comportamenti contano, ma la frase vuol dire soprattutto 'mai
generalizzare'; scavare nelle differenze; cercare di capire se sono sostanziali
o di facciata. Tutto ciò nella prospettiva di un superamento dei conflitti sulla
base dei principi di fratellanza, di eguaglianza e di rispetto dei diritti di
tutti. La generalizzazione porta al rischio razzismo, l’autocensura della
critica a Israele porta al razzismo contrario, l’intoccabilità degli Ebrei, la
soccombenza al dogma religioso del 'Popolo eletto' anche quando i suoi leaders
si macchiano di crimini terribili. L’esempio che mi ha portato a distinguere non
solo tra Ebrei e Sionismo
-distinzione comunque difficile negli ultimi decenni, tranne che per alcuni
coraggiosi intellettuali come Gilad Atzmon, Norman Finkelstein, Ilan Pappe e
altri- ma anche tra sionismo e talmudismo è stato l’assassinio di
Yitzhak Rabin nel 1995. Rabin aveva condiviso tutte le scelte dello Stato
ebraico, dalla pulizia etnica del 1948 fino agli anni ’90. Poi, a un certo
punto, ha optato per la pace e per il riconoscimento di fatto di Yasser Arafat e dei
diritti palestinesi. Ma è stato ucciso, da un gruppo di suoi connazionali che
non accettava compromessi con gli Arabi, con i Gojm (quelli
che il Talmud definisce 'bestie'). E dunque la distinzione è d’obbligo, anche
senza dare patenti ‘rivoluzionarie’ a chi rompe il tabù della guerra di
annientamento del Popolo palestinese.
Lei pensa che questa distinzione vada colta
anche oggi, in questa nuova guerra di Gaza?Sì e no. Sì, perché è
possibile leggere quel che è accaduto e sta accadendo, come una reazione
all’incontro di pace tra Abu
Mazen e Shimon Peres dello scorso 8 giugno a Roma, mèntore Papa Francesco.
Appena si muove qualcosa in direzione di una normalizzazione dei rapporti
israelo-palestinesi, il mostro riappare improvviso con la sua logica di guerra
continua e totale. Ma si può rispondere anche ‘no’, perché al Governo di
Israele non c’è un Rabin, e nel Paese non si leva alcuna forte voce di dissenso
contro la guerra in atto: Shimon Peres tace,
Netanyahu non ha opposizioni, e questo 'sembra' indicare che tutto il popolo
ebraico è d’accordo con i massacri in atto. Stragi nate da un curioso rapporto
matematico: 3 ragazzi ebrei uccisi -peraltro, ormai è accertato, non
per mano di Hamas- contro 1.000 palestinesi, compresi tantissimi bambini,
ragazzini innocenti che giocavano a calcio sulla spiaggia. È una logica di razza
quella che emerge da questa ennesima invasione, qualcosa di assolutamente
intollerabile.
Ci spiega cosa intende con 'logica di razza'?
In fondo, ebrei e arabi sono entrambi semiti, in quanto parlano lingue derivanti
dal ceppo linguistico semita. Perciò i due popoli sono più vicini di quanto
possa apparire …È una logica che risponde a due principi: il primo è che
per la legge ebraica -l’Halakhà-
è ebreo, quale che sia la sua ideologia o addirittura religione, chi discende da
madre ebrea. Si possono trovare contraddizioni in questa narrazione -la
discendenza abramitica per via materna, anche se per il tramite di Sara e non di
Agar; o l’assurdità di pretendere una continuità razziale per le generazioni
succedutesi in tre millenni, senza contaminazioni e meticciamenti sia pure
‘casuali’- ma questa è l’ideologia che sorregge l’ultranazionalismo ebraico.
Un nazionalismo che aborre ogni contaminazione, ogni tipo di integrazione e di
coinvolgimento dell’ 'altro': non a caso la parola 'ebreo' accomuna sia
l’identità religiosa che quella nazionale e nella storia dell’ebraismo le
conversioni sono una eccezione rara, dettate non da un sentimento universalista,
ma da esigenze economiche o di autodifesa e promozione della comunità di
appartenenza. L’identità ebraica così concepita non si distingue -nella
sostanza- da quella tedesca disegnata da Herder nell’800 e ripresa da Hitler: il
‘sangue’ come fattore discriminante. Ed ecco il secondo principio: il fattore
genetico come base dell’identità nazionale non solo distingue, ma diventa
anche il vettore della presunta ‘superiorità’ della ‘razza ebraica’ su tutti
gli altri popoli del mondo. In termini religiosi, il 'Popolo eletto' che mai ha
accettato di condividere il suo dio con i Gentili; in termini geopolitici,
l’espansionismo sionista.
Quanto c’entra l’economia, anzi, da quando il
fatto economico e geopolitico hanno cominciato a pesare più di un sentimento di
vicinanza? Mi sono fatto l’idea che nel caso del sionismo e di Israele
il fattore economico sia più di natura finanziaria che produttiva, più banche
che petrolio; ed inoltre che esiste una molla anche religiosa nell’espansionismo
e nella finanza del sionismo. È vero che il sostegno allo 'JudenStaat' (NdR:
è il titolo di un saggio di Theodor
Herzl, il fondatore del sionismo, e risale al 1896) garantito dai grandi
banchieri ebrei già alla fine dell’Ottocento può essere interpretato alla luce
della necessità storica delle minoranze ebraiche europee di avere nella 'Terra
promessa' una sorta di ‘santuario’, di retrovia sicuro contro le discriminazioni
in Occidente (vere o presunte): un principio e una pratica che ancor oggi
sopravvive con il doppio passaporto per molti ebrei della diaspora, compresi
quelli perseguiti dalle leggi degli Stati ‘gojm’: vedi quell’hacker
ebreo-americano accusato di incursioni nel sito della NASA, o certi finanzieri
russo-israeliani dopo l’ascesa di Vladimir Putin. Questo è possibile, ma è anche
vero che il tunnel scavato da Sharon sotto la spianata delle Moschee di
Gerusalemme non ha nulla a che vedere con la logica del profitto e con criteri
economici. Ricorda piuttosto quel che scriveva Marx
del banchiere Pereire, 'profeta e ciarlatano', o quello 'zelo
religioso' di cui parlava Baruch Spinoza a
proposito del totalizzante ‘amor patrio’ degli Ebrei del suo tempo. Uno zelo che
oggi porta gli israeliani a negare il fatto storico della sovrapposizione
plurimillenaria in terra di Palestina di più culture e civiltà, e in
particolare di tutte e tre le religioni del Libro, non solo il Giudaismo ma
anche il Cristianesimo e l’Islam. Il dramma nel dramma di Gerusalemme nasce da
qui.
Una minoranza cristiana, e due altre presenze
maggioritarie, musulmana e ebraica. Ma lo Stato è uno solo, quello di Israele,
perché la Palestina non è uno Stato riconosciuto in senso giuridico. Ma allora
che cosa è esattamente, cioè giuridicamente, la Striscia di Gaza, e come si
definisce, geopoliticamente? E l'assenza di uno Stato riconosciuto a livello
internazionale è un requisito formale capace di impedire alla comunità
internazionale di intervenire?Non esistono motivi giuridici perché la
comunità internazionale non possa, anzi non debba intervenire. Israele è lo
Stato che ha più violato il diritto internazionale da quando è nato ad oggi:
diciamo pure, non l’ha mai rispettato, sono centinaia
le risoluzioni ONU disattese dalla leadership sionista. E la violazione
continua in queste settimane, con l’invasione di un territorio che comunque
-quale che sia lo status giuridico di Gaza- è segnato da confini, e dunque non è
suo. Israele è perciò in questo momento più che mai, non solo una potenza
occupante, ma una potenza genocida, che sta uccidendo centinaia e centinaia di
civili, da cui la necessità di un intervento internazionale: una forza di
interposizione ONU lungo il confine con Gaza, e una no-fly zone almeno sulla
Striscia. Da qualsiasi punto di vista giuridico-internazionalista si voglia
leggere l’attacco in corso, l’ONU ha il diritto-dovere di intervenire: la
violazione dell’art. 2 della Carta
di San Francisco c’è («3. I Membri devono risolvere le loro controversie
internazionali con mezzi pacifici …. 4. I Membri devono astenersi nelle loro
relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro
l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia
in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite».).
Ma anche adagiandosi sulle ambiguità del nuovo diritto internazionale
postbipolare -una serie di nuovi istituti giuridici che ledono il principio
cardine della sovranità e integrità degli Stati che formalmente hanno retto i
rapporti internazionali dal 1945 fino al dissolvimento del blocco
sovietico- esistono motivazioni fortissime perché Ban Ki-moo e il Consiglio
di Sicurezza si muovano in questa direzione. Prendiamo la cosiddetta R2P, la
'responsabilità
di proteggere i civili', di cui alcuni autori -cito il belga Jean Bricmont e in Italia
il magistrato Luca Baiada, autore di un
eccellente saggio sull’argomento su Jura Gentium- hanno denunciato
a ragione la funzione di supporto all’oltranzismo e all’espansionismo
occidentale in tutte le crisi dell’ultimo quarto di secolo: ebbene, questo
principio sbagliato, che adesso venga applicato contro gli arbitrii del
principale Paese che ne ha beneficiato negli ultimi decenni, Israele. Sono ormai
mille i morti a Gaza: donne vecchi, bambini. Questo orrore va fermato, via
libera dunque alla R2P contro Israele. È scandaloso che il Papa taccia su questo
punto, e parli genericamente di pace, dopo aver subito l’affronto alla sua
iniziativa diplomatica, l’incontro dell’8 giugno a Roma. Il Papa e il Vaticano,
che in nome del solito buonismo cattolico hanno elogiato ripetutamente -vedi
ancora il saggio di Baiada- la cosiddetta 'Responsabilità di proteggere i
civili', apparentemente senza rendersi conto di quanto questo principio fosse
funzionale alle guerre contro i Paesi sovrani extraeuropei, dovrebbero levare la
loro protesta e invocare un intervento immediato della comunità internazionale
contro Israele.
Dunque siamo al nodo del rapporto tra Israele
e comunità internazionale: non c’è solo il Vaticano, ma anche gli Stati Uniti,
la Russia, l’Europa. Come è possibile che Israele possa opporsi a così tante
superpotenze mondiali? Perché nessuno reagisce secondo misura?Le
risposte possono essere tante, ma una le comprende tutte. Come ho scritto anche
in occasione della guerra del Libano, il sionismo non riguarda solo i
Palestinesi, le sue vittime principali, in prima linea. Né solo i Paesi del
vicino e medio Oriente. Il sionismo è un fenomeno globale, in senso sia
geografico che funzionale. Le lobbies di cui al libro di Walt
e Meirsheimer per quel che attiene agli Stati Uniti, sono un anello
fondamentale di questa catena, ma non il solo. È un discorso ampio e che va
approfondito.
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