Cibo, kalashnikov e milizie sciite Amerli liberata (con l’aiuto dell’Iran)

 
 
(Amerli si trova tra Baghdad e Mousul)

Nella città assediata dall’Isis per 74 giorni. Lo Stato Islamico costretto al ritiro dai bombardamenti degli Usa, strani alleati di Teheran in questa offensiva

di Lorenzo Cremonesi, inviato ad Amerli (Iraq)

 
La luce verde per superare le linee delle trincee e le casematte dello Stato Islamico arriva verso le due del pomeriggio. «Andiamo, l’assedio è rotto dall’alba. Le nostre pattuglie stanno facendo saltare le mine. I cecchini sono spariti. La strada per Amerli è sicura, i turcomanni ci aspettano. Yallah, si parte», esclama Shallal Abdal, il governatore di Tuz Khurmatu, la cittadina che per 81 giorni è stata l’avamposto dei soldati curdi di fronte alle brigate jihadiste. Appena un paio di chilometri più avanti comincia la terra di nessuno. Alte colonne di fumo nero segnano l’orizzonte. La pianura è segnata da cumuli di terra smossa, macchie di carburante, aloni scuri di automezzi bruciati. Sull’asfalto le tracce consuete della battaglia: rottami, crateri di esplosioni, immondizia, segni di cingoli. A lato della strada alcuni uomini stanno seppellendo l’autista di un’utilitaria sventrata da colpi di mitragliatrice pesante. «Gli hanno sparato mentre scappavano», dice una delle guardie del nostro convoglio.
 
Ogni quattro o cinque minuti ci sorpassano gipponi carichi di giovani armati che agitano verso il cielo Kalashnikov e lanciagranate in segno di vittoria. Tanti sparano in aria, inneggiano ad Allah, al premier Nouri Al Maliki, al leader estremista Muqtada Al Sadr. Le loro bandiere e le scritte verdi sulle bandane nere attorno al capo rivelano che sono combattenti delle «Brigate Badr», assieme a «sadristi» e volontari dell’«Hezbollah», la milizia del sud Iraq che ha poco da spartire con il gruppo omonimo più famoso in Libano, se non che sono tutti rigorosamente sciiti e hanno ottimi rapporti con Teheran. Sono armati sino ai denti. Le bandoliere cariche di proiettili, alle cinture grappoli di bombe a mano. Ma dove diavolo erano tutti questi giorni?, viene da domandare. Come mai hanno avuto bisogno dei bombardamenti americani nelle ultime 48 ore per liberare Amerli? Lo chiedo al governatore. Lui fa una smorfia. «I terroristi dello Stato Islamico sono ottimi combattenti, pronti a morire e hanno ottime armi», risponde elusivo. Pochi secondi dopo, osservando una trentina di miliziani che hanno sfondato alcune autorimesse, rubato i mezzi all’interno e dato fuoco agli edifici, si lascia scappare un commento: «Però non mi piace affatto che stiano saccheggiando. Noi curdi non lo facciamo». Improvvisamente tornano alla mente le immagini delle brigate libiche di tre anni fa, arroganti e aggressive dopo i bombardamenti Nato contro Gheddafi, molto più caute e militarmente poco efficaci quando dovevano agire da sole.

Comunque, oggi è festa grande. La fine dell’assedio di Amerli segna una svolta importante dopo le strabilianti vittorie degli estremisti sunniti negli ultimi tre mesi. «Ora possiamo organizzarci per liberare Mosul e quindi puntare verso Tikrit», osserva entusiasta Hassan Degali, 50enne colonnello peshmerga che ha il compito di assicurare che il nemico non tenti sortite improvvise. Prima di raggiungere la città assediata sino a ieri mattina superiamo il villaggio sunnita di Suliman Beg. Era la roccaforte dello Stato Islamico. Adesso praticamente tutti i suoi 24 mila abitanti sono fuggiti verso sud. Qui i caccia americani hanno pestato duro. Lungo la provinciale si contano una ventina di abitazioni sventrate. Diversi edifici sono in ancora in fiamme. Un paio di negozi vengono saccheggiati. La stessa sorte tocca al villaggio (sempre sunnita) di Habash. Dicono avesse 800 abitanti. Adesso, oltre ai miliziani di sentinella alla periferia, non si vede anima viva. La palazzina bassa dell’infermeria locale ha porte e finestre divelte dagli spostamenti d’aria. Anche la piccola moschea appare devastata. Sino a ieri tremavamo per la sorte degli sciiti, cristiani, yazidi, curdi, turcomanni, drusi, minacciati dallo Stato Islamico. Adesso viene quasi spontaneo chiedersi cosa avverrà dei sunniti. I persecutori vincenti di ieri potrebbero diventare le vittime di domani in questo Paese squassato dalla violenza senza fine, dove la memoria dei torti subiti diventa la molla delle vendette a venire.

Amerli infine ci accoglie con gruppi di ragazzini e uomini adulti festanti, i mitra in mano, corrono ai lati della strada. Una bambina offre acqua fresca. Sono i veri eroi del giorno. Sono stati in grado di reggere un assedio continuo e pressante da parte di gruppi molto meglio organizzati di loro e certo più forti. Hanno combattuto tra le loro case povere, praticamente nessuna è a due piani. Hanno piazzato barricate tra i viottoli, tra le stalle, lungo i canali asciutti, hanno razionato tutto ciò che possedevano. «Non avevamo scelta. Se ci fossimo arresi saremmo stati uccisi tutti. Le nostre donne prese come schiave, i bambini piccoli convertiti alla loro fede», sostiene Ahmad Adnan Aziz, un 28enne incontrato nel centro di fronte all’abitazione del sindaco. Mostra fiero il suo mitra e i caricatori pronti all’uso. «Le munizioni non ci sono mai mancate. Ogni due o tre giorni gli elicotteri militari dell’esercito iracheno venivano da Bagdad e ci lanciavano tonnellate di proiettili e bombe. Però era finito il cibo e anche l’acqua potabile. Tutti noi abbiamo dovuto fare ricorso ai pozzi nei nostri giardini. Ma l’acqua è di cattiva qualità. I nostri bambini sono stati spesso malati», racconta. Ma cosa avete mangiato? «Riso, pane, talvolta datteri. Abbiamo sofferto la fame», risponde mostrando lo stomaco incavato. Un altro volontario, Ahmad Hassan di 23 anni, ricorda la genesi della battaglia: «A metà giugno lo Stato Islamico ha cominciato a bombardare il villaggio con mortai pesanti. Qui vivono circa 17 mila persone. Siamo tutti turcomanni sciiti. I primi giorni ci siamo nascosti in casa. Non sapevamo cosa fare. Le vie di fuga erano chiuse. E’ stato allora che circa 2 mila dei nostri giovani si sono organizzati per combattere. Ci siamo parlati con i telefoni cellulari alimentati dai pochi generatori rimasti». Dalle sue parole non traspare che i jihadisti abbiano mai cercato un attacco frontale, preferivano stringere progressivamente l’assedio. Spiega: «In tutto una quindicina di civili ha perduto la vita sotto le bombe. I nostri morti nei combattimenti sono stati quattro o cinque». Mentre racconta tra i vicoli non asfaltati del villaggio arrivano alcuni camioncini carichi di aiuti. Vicino se ne fermano due con le donazioni di riso, farina, salsa di pomodoro, olio e frutta fatte giungere dalla moglie dell’ex presidente dell’Iraq, il curdo Jalal Talabani. Una folla fitta si raduna spintonando per prendere ciò che può. L’Unicef ha inviato ieri sette camion carichi di provviste e altrettanti ne arriveranno oggi. Sembra davvero che il peggio sia passato.

Uscendo verso le 17 dal villaggio incontriamo una lunga colonna di gipponi armati con a bordo centinaia di miliziani sciiti. Tra loro i nostri accompagnatori curdi segnalano una forte presenza di pasdaran iraniani. Sono ben equipaggiati, palestrati, appaiono freschi, pronti a lanciare l’offensiva verso sud. «Dall’Iran vanno a Bagdad, si affiancano nelle milizie sciite e vengono a combattere anche al nord», sottolineano. Poche ore fa qui è arrivato in elicottero anche Nouri Al Maliki. Per il premier iracheno, che dovrebbe essere dimissionario, questa è una giornata di gloria e di rilancio politico. Formalmente qui opera l’esercito iracheno, in realtà questi soldati costituiscono il fior fiore delle sue brigate sciite che però sono state tra le cause principali dell’adesione sunnita alla causa dello Stato Islamico. Li lasciamo alle nostre spalle avvolti in una nube di polvere. Ma una domanda torna insistente: cosa penseranno a Washington di questa strana alleanza con Teheran? Per la prima volta gli Stati Uniti hanno utilizzato i loro jet e droni per aiutare i pasdaran e sostenere quello stesso Maliki che considerano tra le cause prime dello sfascio iracheno. Quale sarà la prossima mossa di Barack Obama?
 

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