La guerra privata di Giuliano Ferrara

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T. Sforzin
 
Ferrara non lo sa ma in questa periferia occidentale del mondo, ci si è abituati un po’ a tutto, anche al sangue. Lui è un uomo del suo tempo, perciò crede di dire qualcosa di sconcertante quando chiama l’Occidente alla guerra di religione. Invoca “una violenza incomparabilmente superiore”, da contrapporre alla sfida islamista e alla sua brutalità, accantonando lo stato di diritto, la polizia internazionale e la denuncia della violenza. Queste, per lui, sono risposte insufficienti e noi concordiamo. Noi vogliamo la guerra. 
 
Nell’angoscia cronica ci siamo cresciuti ed abbiamo ormai perso il conto delle guerre e delle rivoluzioni che abbiamo seguito dal 2001 con la radiolina a transistor, poi su YouTube dal 2005 ad oggi. I documentari sulla Shoah ci hanno resi insensibili, Oskar Schindler ci pare oggi il responsabile di un’agenzia interinale ed è per questo che ci siamo spinti a parteggiare per chiunque, persino per i palestinesi. Ne avevamo piene le palle. Ma questa è una promessa, rimedieremo al più presto e già che ci siamo, ringraziamo subito la CEI per la sua verticalizzazione: quella in corso in Medio Oriente è una Shoah cristiana e molto presto, ce lo suggerisce Abd Allāh bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd (testimone privo di doppiezza e sommamente attendibile), arriverà anche da noi.
 
Armiamoci di furore scoutistico e facciamo un autodafè dei nostri innamoramenti, gettiamo la kefiah ma ci venga concessa la parziale scusante – per noi, la generazione perduta- della santa dedizione quotidiana a palliativi e/o eccitanti come GTA. Abbiamo fatto di necessità virtù ed ora possiamo affermare, coralmente, di aver maturato competenze bastevoli perché ci possa essere messo tra le mani un joystick e farci pilotare, alla bisogna, un drone. Ammettiamolo, a volte ci siamo sentiti un po’ frastornati e alla fine della fiera, siamo finiti con l’accontentarci dei selfie col morto. Ora è tutto cambiato, lo abbiamo capito: schiantarci alle cinque di mattina sulla riviera romagnola è una prassi piuttosto banale, ci è venuta a noia come tutto il resto, così come ci sono venute a noia le descrizioni giornalistiche di quelli che sull’asfalto ci sono rimasti sdraiati. Ma il problema è un altro: il kebab di Youssuf non è stato sufficiente ad asciugarci i long island: siamo andati solamente fuori strada e questo non ci basta. Adesso facciamo sul serio, noi i morti li vogliamo vedere veri, che sappiano di trincea olfattiva ma con tanto di algor mortis, rigor mortis e livor mortis. E inizieremo proprio da lui, dal kebabbaro Youssouf.
 
Tutti dentro, nessuno fuori e nel tritacarne ci metteremo pure Robert Smith dei The Cure. Killing an arab poteva essere il nostro inno, ma il vigliacco zazzeruto ha inteso variare le parole: kissing an arab, killing another. No, noi non siamo i figli di John Lennon e non baciamo proprio nessuno, non vogliamo uccidere un russo o un cinese ma ogni arabo che non sia Abd Allāh bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd o Magdi Cristiano Allam, perché noi vogliamo la guerra, la guerra di religione: vogliamo vedere gli arabi stesi al suolo, con la bocca aperta, senza sentire alcun suono. Chi se ne frega di Camus e delle buone intenzioni di Robert Smith. Ce ne facciamo tanto quanto quelle di Bernardo Valli, “commentatore corretto e di sinistra”, come ammonisce Ferrara. Noi adesso vogliamo la guerra di religione, benedetti da un Papa vero, e chi se ne frega delle preghiere biascicate delle nonnette per far laureare i nipoti, sotto le cupole orientali della Basilica di Sant’Antonio, a Padova. O di San Marco a Venezia… Oh Venezia! La Serenissima baldracca cosmopolita che ci ricorda istintivamente Istanbul e proprio per questo c’è solo da augurarsi che si inabissi definitivamente. Con la cultura non si mangia e lo abbiamo assodato, si faccia quindi un fuoco campale con le paturnie di Leopardi e Pasolini, non ci servono più: è di un modello che abbiamo bisogno per darci un tono ed “ogni modello di vita è in nome di Dio” e “il nostro Dio è incarnato, crocifisso, umile e grande”, mentre il loro “è profezia, è mistica, è politica, è scisma”. 
 
Diciamolo. Profezia, mistica e politica ci puzzano di alghe sotto zero e ça va sans dire, di Serenissima. Ci par quasi di “baloccarci con il poetico”, sotto quel leone che poi è il leone di Mithra. Forse questo lo dovremmo considerare, prima di oliare i fucili ed andare alla guerra. Forse la guerra di religione è la guerra contro noi stessi, perché quel leone alato ci spalanca l’abisso di un’identità poliedrica. E che è al contempo ellenica, cristiana e orientale. Giove e Apollo, Osiride, Mithra e Serapi e ancora, Bel Mithra, Apollo Belenus e Manete, e infine, solo alla fine, Cristo. Che con Marco rivivifica il leone alato, lo stesso leone che ritroviamo tra le rovine di Persepolis e sull’antica bandiera degli eredi degli Arya. Ma non sono certo i leoni a rappresentare questo Occidente crepuscolare, tuttalpiù i somari che, lo sappiamo per esperienza, sono piuttosto difficili da scolarizzare. Abbiamo cambiato idea, non seguiremo Ferrara nella sua guerra. Ci fermiamo qui, a baloccarci con il poetico, senza pretendere di spiegare alcunché a chi si ostina a non voler capire. D’altronde, ben lo si sa di là dell’acqua: a l‘e inutil insegnà al mus, si piart timp e in plui si infastidis la bestie.
 
 

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