Ali Reza Jalali
Il caso di Reyhaneh Jabbari,
giovane iraniana di 26 anni condannata nel suo paese alla pena capitale per il
reato di omicidio, sentenza eseguita negli ultimi giorni, ha nuovamente acceso
le luci dei riflettori sulla questione dei diritti umani in Iran, tema caro al
giornalismo e alla politica occidentale. In questo breve articolo voglio
esporre quelle che sono le verità emerse dal processo, insieme a qualche
considerazione su vicende simili a questa. Il lettore si farà l’opinione che
vuole. Il caso è abbastanza complesso; la vicenda nasce da un incontro
occasionale tra Reyhaneh e la sua vittima in una gelateria. Il dott. Morteza,
medico di 47 anni, sposato con figli, casualmente sente la ragazza parlare al
telefono con qualcuno. Reyhaneh discute del suo lavoro, ovvero quello di
designer d’interni; guarda caso Morteza sta cercando proprio un designer in
quanto è intenzionato a modificare l’arredamento del suo studio privato. A quel
punto Morteza si presenta alla sconosciuta Reyhaneh ed espone il suo caso alla
ragazza, chiedendole una consulenza in loco. Durante uno degli incontri tra i
due, avviene l’omicidio. Reyhaneh racconta la vicenda nel seguente modo: “Sono
entrata nella sua stanza. Io avevo tenuto la porta semiaperta, ma Morteza mi ha
invitata a chiudere la porta e a togliermi il velo. Io mi sono rifiutata e al
mio rifiuto il medico si è precipitato a chiudere la porta. Poi si è avvicinato
a me tentando un approccio sessuale, ma io ho nuovamente rifiutato. Non appena
Morteza si era girato ho preso un coltello che avevo nella borsa e l’ho
accoltellato da dietro.” L’accusa formulata dalla magistratura nei confronti di
Reyhaneh fu da subito omicidio intenzionale premeditato, scartando la scusante
della legittima difesa. In Iran il reato di omicidio intenzionale è punito con
la pena capitale a meno che la famiglia della vittima non perdoni il reo,
commutando così la pena nell’ergastolo. Reyhaneh e i suoi avvocati – nel caso
il reo ha avuto due difensori che si sono succeduti – hanno chiesto di ottenere
come scusante la legittima difesa da uno stupro. I legali hanno chiesto
l’assoluzione di Reyhaneh oppure quantomeno uno sconto sulla pena, ammettendo
la possibilità che vi possa essere stata una reazione eccessiva del reo
rispetto al pericolo potenziale di una violenza sessuale. La magistratura nei
vari gradi di giudizio ha sempre rigettato questa interpretazione, condannando
la giovane alla pena di morte per omicidio intenzionale, non essendoci prove
del tentativo di stupro. In tutto ciò si nota come una normale vicenda
giudiziaria come ce ne sono molte in tutto il mondo, e probabilmente anche
nello stesso Iran, con le sue complicazioni sia concernenti il fatto che il
processo, sia stata trasformata in un’arma politica sulla tutela dei diritti
delle donne in Iran. Vi ricordate di Sakineh? Fu montato un caso mediatico per
una donna che, detto sinteticamente, aveva ucciso il marito con la complicità
dell’amante di lei. Insomma, si era riusciti a far passare una assassina,
perché di questo si trattava, in una vittima dell’oppressivo regime maschilista
dei fondamentalisti islamici iraniani. Alla fine dopo alcuni anni di carcere,
una lapidazione mai avvenuta – la donna aveva ammesso una relazione extraconiugale
che in Iran per una persona sposata comporta la pena capitale, ma il problema è
che anche l’amante, se sposato, rischiava la stessa cosa; per Sakineh una
campagna mediatica mondiale, per l’amante nulla, un caso evidentemente di
discriminazione mediatica occidentale contro gli uomini – la donna fu
rilasciata e ora è una persona libera. Una assassina dichiarata, ma libera. Il
caso di Reyhaneh, che ovviamente non ha nulla a che vedere con quello di
Sakineh sia dal punto di vista fattuale che legale, sembra una riedizione delle
solite campagne mediatiche volte a vilipendere la reputazione internazionale
della Repubblica Islamica dell’Iran. Per carità, non entro nelle discussioni
concernenti la violazione dei diritti umani laggiù, visto che è evidente la
sconnessione del sistema iraniano da quelli che sono gli standard
internazionali stabiliti da varie convenzioni e trattati internazionali, tutti
comunque riconducibili in qualche modo alla Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo dell’ONU – ovviamente anche qui ci si potrebbe chiedere il
perché di una dichiarazione universale risultato sostanziale della visione del
mondo solo di una parte del globo, quindi tutt’altro che universale; o per
meglio dire universale dal punto di vista passivo (tutti devono sottostare a
quei principi) e non da quello attivo (solo una parte della presunta
“universalità”, ovvero il mondo occidentale e la sua visione dell’esistente, è
alla base di questa Dichiarazione) – però rimane il fatto che un caso
“normale”, un omicidio che secondo il reo è frutto di una legittima difesa, ma
secondo l’accusa no e i giudici hanno dato ragione all’accusa, una vicenda come
ce ne potrebbero essere a miriadi nel mondo, è sbattuta sulle prime pagine dei
giornali senza alcun riferimento ai fatti e alla dinamica processuale, ma solo
con nozioni emozionali per far presa sul lettore. Reyhaneh è stata giustiziata
dopo un processo con vari gradi di giudizio e con la possibilità di avvalersi
di difensori, ma nessuno dice nulla su come siano andati effettivamente i fatti
(è normale girare con un coltello nella borsa? Se è andata all’appuntamento con
un coltello nella borsa perché aveva paura che potesse succedergli qualcosa,
perché ci è andata da sola? Solo per accennare ad alcuni punti oscuri della ricostruzione
fatta dal reo). Questo giornalismo approssimativo è veramente disgustoso, con
notizie false (addirittura su alcuni giornali c’è la notizia riguardante il
fatto che le autorità avrebbero impedito alla ragazza di avere un avvocato),
per non dire dell’unilateralità (sembra quasi che essendo Reyhaneh una donna in
un “regime islamico maschilista” abbia ragione a prescindere) della versione
dei fatti: mai un accenno alla versione dei fatti emersa dal processo, ma solo
presunzioni che hanno come fonte le famigerate ONG. Alla fine la mobilitazione
del mondo e gli appelli per fermare l’esecuzione non sono bastati. Reyhaneh
Jabbari è stata impiccata. Tutti i principali media italiani hanno riportato
menzogne clamorose, ad esempio: Reyhaneh sarebbe stata stuprata, non avrebbe
avuto dei legali e altre sciocchezze simili. Ma come detto prima, ella non solo
aveva avuto due avvocati, ma non c’è stata la minima prova di un eventuale
stupro da parte della vittima. Insomma, un ennesimo caso mediatico di propaganda
anti-iraniana, proprio alla vigilia di un importante round negoziale tra l’Iran
e le potenze mondiali sulla questione nucleare, il prossimo novembre. Non so se
le due cose hanno una qualche connessione, ma certo ora raggiungere un accordo
potrebbe essere più difficile. Negli ultimi mesi alcuni governi nel mondo hanno
dimostrato molto allarmismo per un’eventuale soluzione pacifica della questione
tra gli iraniani e gli occidentali, soprattutto il governo israeliano guidato
dai falchi della destra di Tel Aviv. E’ del tutto presumibile che una
macchinazione del genere, basata sulla menzogna pura, possa trovare le proprie
fonti proprio presso quell’entità, così influente nei media internazionali.
Ovviamente è solo una supposizione, ma visto che il sistema mediatico italiano
si basa su supposizioni e non sulla realtà dei fatti, se si crede alla versione
mediatica sulla vicenda di Reyhaneh, non vedo un buon motivo per cui non si
possa credere anche a questa mia supposizione… Ma forse mi sbaglio, in fondo,
tutte le supposizioni sono eguali, ma alcune sono più eguali delle altre…
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