La Siria a nudo: resoconto dell’inviato della TV pubblica della Repubblica Islamica dell’Iran

Di seguito riportiamo la traduzione dal persiano dell’intervista rilasciata al quotidiano di Mashad (Iran) “Khorassan” – del 25 maggio 2015 – da parte di Hassan Shemshadi, inviato della TV pubblica iraniana in Siria negli ultimi anni, con una esperienza anche in Iraq, recentemente tornato stabilmente in patria.

 

L’intervista è a cura di Adib Rahimpour e la traduzione in italiano è di Ali Reza Jalali.






 

 

Quando è partito per la Siria?

 

Sono partito nell’autunno del 2010 e i disordini sono iniziati all’inizio del 2011, in inverno.

 

Quando è partito per Damasco avrebbe mai pensato a una situazione critica di questo tipo?

 

No, assolutamente. Avevo previsto un attacco americano contro l’Iraq, sei mesi prima delle operazioni avevo avuto modo di parlarne coi nostri dirigenti politici, ma nessuno poteva prevedere una situazione così per la Siria e la regione. Vi erano dei problemi, ma non si poteva prevedere una situazione del genere.

 

Dopo essere stato in Iraq, dove ha continuato la sua esperienza?

 

Sono stato tre anni in Iraq, dopo quella esperienza mi sono state fatte diverse offerte di lavoro in altri paesi, come corrispondente stabile, ma ho accettato solo l’ipotesi siriana. Nel 2008 sono stato lì per 45 giorni e mi era piaciuto molto, allora c’era molta sicurezza.

 

Come sono iniziati i disordini in Siria?

 

La prima scintilla fu una manifestazione di protesta contro la polizia in un mercato a Damasco. Poi vi furono i fatti di Der’a, dove alcuni ragazzi fecero dei murales contro il governo, subendo la reazione dei sostenitori di Assad. Poi vi fu una manifestazione in sostengo del governo che fu seguita da manifestazioni di oppositori, i quali chiedevano il rilascio di alcuni prigionieri e la rimozione dei capi della sicurezza locale.   

 

Queste richieste della società civile non potevano essere esaudite dalle autorità?

 

In Siria non aveva senso parlare di rivolta della società civile; dall’inizio dei fatti gli esponenti politici come il Ministro dell’Interno promisero riforme e una severa punizione per i trasgressori governativi, ma col passare del tempo le richieste degli oppositori aumentavano. Siamo arrivati al punto che lo stesso Assad volle incontrare 50 oppositori di Der’a, in un meeting di più di tre ore. In ogni caso Der’à fu il cuore della rivolta: gli oppositori presentarono 60 punti al governo, ad esempio chiesero il ritiro delle forze di sicurezza dalla città. Il governo acconsentì e la prima cosa che fecero gli oppositori come risposta, fu la messa a ferro e fuoco della città con azioni di rappresaglia contro i sostenitori del governo.

 

Perché Der’a fu il centro della rivolta? Che caratteristiche aveva questa città?

 

Der’a è una città sunnita al confine con la Giordania. I salafiti qui erano molto attivi. Lo Sceicco Ahmad, l’imam della moschea principale di tale località ha proclamato il jihad dal pulpito. D’altro canto gli oppositori hanno ricevuto sostegno dalla Giordania; in Siria il governo ha cercato di rispondere in modo ragionevole agli oppositori, riformando la legge elettorale, la legge sui partiti, sono stati ammessi alle elezioni i partiti delle opposizioni, è stata modificata la Costituzione e le opposizioni hanno eletto i loro rappresentanti in Parlamento. Tutto ciò non ha fermato le violenze, in quanto il piano per destabilizzare il paese era già partito e non si sarebbe fermato.

 

Secondo alcuni il governo di Assad ha promosso troppo tardi le riforme istituzionali e ha negato per lungo tempo i diritti civili. Cosa ne pensa?

 

Quando Bashar Assad arrivò al potere nel 2000, dopo la morte del padre, fu promotore di una serie di riforme senza precedenti nel mondo arabo: alcuni parlarono di una sorta di primavera politica siriana. Alcuni oppositori della Fratellanza Musulmana furono rilasciati, le opposizioni furono libere di creare i loro circoli politici e culturali, avevano dei media, potevano svolgere attività propagandistica. Alcuni movimenti politici vietati durante la precedente epoca furono riammessi. Successivamente però vi furono degli attentati e dei disordini; gli esponenti conservatori del Baath, partito egemone, accusarono Assad di aver promosso, con le sue riforme democratiche, il disordine e il caos, per cui il processo riformatore si bloccò parzialmente. Quindi il Presidente Assad è sempre stato a favore delle riforme, ma la situazione non lo ha favorito. Considerate i problemi interni e lo scacchiere regionale. Prima gli americani hanno attaccato l’Afghanistan, poi l’Iraq. Si potrebbe obiettare dicendo cosa c’entri l’attacco all’Iraq con la Siria. D’altronde la dirigenza siriana da quel momento in poi si è concentrata sui problemi securitari e sull’instabilità che dall’Iraq poteva influenzare negativamente Damasco. Più di due milioni di profughi iracheni si sono riversati in Siria e i confini sono diventati molto instabili, senza dimenticare che gli USA avevano inserito anche la Siria nell’asse del male regionale. Poi ci sono stati i conflitti in Libano e a Gaza (2006 e 2008-2009), l’attento a Hariri e altri episodi che hanno costretto i siriani a pensare prima alla sicurezza nazionale anziché alle riforme politiche. Anche l’ex premier inglese aveva ammesso che Assad è il più riformatore tra i leader arabi, ma ciò non è bastato agli oppositori per scatenare i disordini. La Guida iraniana dopo lo scoppio delle rivolte aveva detto chiaramente che il popolo siriano ha delle pretese legittime e che il governo doveva rispondere in modo propositivo alle richieste della popolazione, e anche il governo di Damasco si era mosso in questo senso; ma qui abbiamo a che fare con un ampio complotto contro la Siria, non a semplici istante riformatrici.

 

L’esercito siriano era uno dei migliori in Medio Oriente. Come è stato possibile che esso abbia perso il controllo di molte zone? Non avevano previsto un conflitto di questo tipo? O si erano concentrati su altre situazioni di belligeranza e avevano sottovalutato il pericolo di una insurrezione interna?

 

Effettivamente l’esercito siriano era uno dei migliori della regione; però era stato progettato per una guerra classica, non per la guerra partigiana, casa per casa, quartiere per quartiere. Un grande punto debole della famiglia Assad in questi ultimi 40 anni è stato il fatto di aver creato un sistema di sicurezza improntato a due fattori: esercito regolare e servizi segreti. Non esisteva un vero e proprio corpo di polizia specializzato nella repressione delle ribellioni urbane. Per questo, quando ci furono i primi disordini, a intervenire è stato l’esercito e non come normalmente accade nel mondo la polizia dedita alla repressione delle sommosse cittadine.

 

Fino a poco fa l’opinione pubblica internazionale non sapeva nulla dell’esistenza dell’ISIS in Iraq, così come non si sapeva nulla sul fatto che un terzo del paese è in mano a tale gruppo. Nessuno è bene a conoscenza del fatto che metà della Siria soffre per la presenza dei terroristi. Il problema dell’informazione in tale alveo deriva dalla assenza di notizie attendibili, visto che non si hanno fonti indipendenti sul terreno e le notizie arrivano de relato. Ci può dire qualcosa di quello che ha visto direttamente in Siria?

 

Come sapete molte regioni sono in mano ai terroristi: Raqqa, Deir ez-Zor e Idlib sono occupate. I terroristi hanno conquistato la maggior parte del nord del paese, per via di quei 900 km di confine con la Turchia, paese che aiuta gli oppositori. Erdogan sostiene i ribelli ed essi si sono spinti fino a nord di Aleppo, per non parlare della loro roccaforte a Homs, così come hanno occupato Der’a. Ancora oggi alcune località nei pressi di Damasco sono in mano ai ribelli. Se guardiamo la cartina della Siria però dobbiamo ammettere che le zone curde vengono considerate in mano alla ribellione, mentre la realtà è ben diversa, in quanto esiste un accordo tacito e tattico tra Damasco e i curdi: il governo li aiuta, loro resistono agli oppositori, lottando per mantenere l’autonomia delle loro zone. Dal punto di vista della superfice, il 60 percento della Siria è in mano al governo, mentre nelle zone in cui le forze assadiste sono egemoni, il sostegno al governo raggiunge il 90 percento. Assad ha vinto le elezioni presidenziali dell’anno scorso, gode di un buon sostegno nella popolazione, che varia dal 60 al 70 percento dei consensi rispetto a tutta la popolazione del paese arabo. E’ stato proprio grazie a tale consenso che è rimasto al potere.

 

I ribelli in Siria proverrebbero da 83 paesi e ammonterebbero a 100 mila unità armate. Altri parlano di oltre 200 mila miliziani provenienti da 85 paesi. Altri ancora ritengono che l’ISIS abbia 200 mila uomini tra Iraq e Siria, 130 mila dei quali stranieri e i rimanenti autoctoni. Questa mole di miliziani ha messo a ferro e fuoco il paese, ma noi non abbiamo mai avuto notizie certe sui combattimenti e ci siamo resi conto della gravità dei fatti solo quando i ribelli furono alle porte di Damasco. Perché?       

 

Nel primo anno della guerra in Siria noi eravamo veramente stati spiazzati. Anche in Iran inizialmente ci sono stati dei problemi, in quanto noi spesso mandavamo le notizie dell’avanzata di questa mole imponente di ribelli, ma la TV pubblica evitava di mandare in onda gli aggiornamenti, in quanto la linea ufficiale era di sostegno al governo siriano. Si era innescata a livello internazionale una guerra mediatica: gli altri dicevano che Damasco stava per cadere e noi negavamo, loro dicevano che Assad era stato ucciso, e noi puntualmente negavamo.    

 

In ogni caso lei era il responsabile in Siria della TV pubblica iraniana; secondo lei questo era un modo corretto di dare le informazioni? Non vi è stata eccessiva censura, ad esempio non informando la gente delle trattative dirette tra Assad e i ribelli di Der’a?

 

Purtroppo quando la situazione si complica mantenere una certa stabilità è difficile: la propaganda dei media arabi, israeliani e occidentali era talmente martellante che spesso eravamo costretti a comportarci così. Anche i nostri governati sono responsabili però. Anche loro apprendono le notizie dai media stranieri e spesso non si fidavano dei nostri resoconti. Una volta mi hanno chiamato dal Ministero degli Esteri dicendomi che ero pazzo a rimanere a Damasco, visto che ormai la città era sull’orlo del tracollo.

 

Perché doveva essere così? Chi se non lei doveva dare le notizie in modo preciso?

 

Il problema principale è che, senza scendere nei dettaglia, alcuni nostri politici e alcuni enti, sono completamente passivi dinnanzi alla propaganda mediatica occidentale. Ad esempio nell’estate del 2012, quando molti parlavano della caduta imminente di Damasco, sono andato a fare un giro di diversi quartieri della città. Solo in alcuni punti vi erano degli scontri, mentre nella maggior parte della città vi era molta calma. Allora ho documentato il tutto e ho fatto un resoconto; ma alcuni politici e dirigenti iraniani, dinnanzi alle notizie che davo io, erano increduli. Preferivano fidarsi delle notizie provenienti da Al Jazeera, che tendenzialmente si riforniva di testimonianze fasulle provenienti da alcune persone che, chiuse nei loro appartamenti, davano notizie di combattimenti in alcuni quartieri, proclamando la conquista da parte degli oppositori di alcune zone strategiche della capitale.

 

Forse tutto ciò deriva solo dal fatto che molte zone del paese sono oggettivamente in mano ai terroristi e sono diversi anni che l’esercito siriano non riesce a riportare l’ordine. Lei cosa crede?

 

Hanno queste opinioni perché non conoscono i reali numeri dei belligeranti, non sanno cosa voglia dire una guerra casa per casa, quartiere per quartiere; tale situazione è la migliore per i media che vogliano fare disinformazione. Penso che un giornalista debba sempre dire la verità, nei limiti di alcune linee rosse sensibili dal punto di vista politico. Ormai la strategia di Al Jazeera è ovvia: se ad Aleppo ci sono dieci mila persone in piazza contro Assad, loro parlano di milioni di oppositori, mentre se ci sono milioni di sostenitori del governo, loro parlano di pochissime persone. Poi c’è il problema della generale sfiducia della nostra gente nei confronti dei media iraniani, in quanto lo strapotere dei media occidentali ha una grande influenza sull’opinione pubblica. Anche nei social network il loro impatto è migliore del nostro. Le nostre informazioni sono talmente inefficaci che nonostante le similitudini tra i fatti siriani con quelli iracheni, il pubblico in Iraq ha compreso la posizione di sostegno al governo di quel paese e la lotta contro l’ISIS, mentre molti in Siria, nonostante le atrocità degli oppositori, hanno contestato il nostro ruolo a sostegno del governo e addirittura anche dei luoghi sacri. Ma in realtà sono gli americani a dire che i terroristi in Iraq sono cattivi e in Siria buoni; in Iraq hanno cominciato poi a parlare di terroristi sono quando l’ISIS si è avvicinato alle zone curde e ai luoghi sensibili per gli occidentali, mentre prima anche lì non sembrava esserci alcun problema; questa visione dei fatti è stata puntualmente ripresa anche da molti in Iran, a dimostrazione del potere mediatico indiscutibile degli occidentali.

 

Dopo l’inizio della crisi siriana noi nel nostro quotidiano abbiamo cercato di dare le notizie da diverse fonti; a un certo punto ci siamo accorti che la gente sottolineava come effettivamente ci fossero notevoli differenze tra le informazioni derivanti dalla TV pubblica e dal nostro giornale. E’ mai successo che nel momento di dare le notizie dalla Siria ci fossero degli incontri o dei colloqui coi vostri colleghi per decidere come e quando dare certe notizie sensibili, magari riguardanti la caduta di una città in mano ai ribelli?

 

Da quello che so io no, non c’erano delle riunioni per decidere le modalità in base alle quali bisognava dare o non dare una certa notizia.

 

Però in Iraq questo è successo?

 

In Iraq la situazione era diversa perché in primo luogo questo paese confina con noi, inoltre lì ci sono molti luoghi sacri per la nostra gente. Inoltre venivamo dall’esperienza acquisita in questi anni in Siria. Poi devo dire che negli ultimi mesi c’è stato anche un cambio di strategia nella TV pubblica iraniana.       

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