Prendere un gelato a Teheran tra Corano e grattacieli


Teocrazia in equilibrio fra rigore dei precetti islamici e moltitudini di giovani che si comportano alla occidentale. Il segreto dei guardiani dell'ortodossia è chiudere un occhio. Il reportage dall'Iran del giornalista Pietrangelo Buttafuoco per Il Fatto Quotidiano.
DI PIETRANGELO BUTTAFUOCO - 31 MAGGIO 2015

Ci sono più giardinieri che poliziotti per le strade e – a meno che Dio non ci metta lo zampino – qui, in Iran, la transizione è in atto. Nei bookshop, lo dico a beneficio degli esagitati vogliosi di scontro di civiltà, si vendono anche i libri di Oriana Fallaci (che pure si tolse il velo davanti a Imam Khomeini, intervistandolo), non c’è verso di fare il Paradiso in terra e qui, in Iran, si fa esperienza di contraddizioni. Jason Rezain, inviato del Washington Post, è alla sbarra: spionaggio. Il processo ha, però, tutto un retroscena. E’ il gioco della parti tra Usa e Iran nel match in corso: l’intesa sul nucleare. Sarà di certo stato lo Stato anzi, la Repubblica Islamica, a issare in piazza Jihad, a Teheran, la statua di un placido pescatore con tanto di berretta da scampagnata. Certo, il ritratto di Qasem Soleimani, il generale comandante delle milizie sciite, è stampato sui quaderni scolastici in vendita nelle cartolerie ma è un benemerito quel soldato: stana i terroristi dell’Isis in Iraq, è atteso in Siria, e ha avuto anche la copertina di Newsweek. Ecco il reticolo di Teheran: il realismo nazionalistico – retaggio di propaganda – è limitato alle didascalie; l’azan, ossia la chiamata alla preghiera, non sconfina oltre i cortili delle moschee e la memoria dei martiri – le donne e gli uomini, i bambini e le bambine spazzati dalla guerra scatenata da Saddam Husseyn  – è affidata alla preghiera e alla coscienza collettiva di tutto un popolo devastato da un conflitto neppure troppo remoto.
Non c’è famiglia, in Iran, che non pianga un caduto di quella guerra consumatasi dall’estate del 1980 all’agosto del 1988 e tutto quel dolore – coi ragazzini che si lanciavano all’assalto brandendo le chiavi del Paradiso (di plastica, prodotte in Cina) – non è diventato odio perché gli iracheni oggi non sono considerati nemici ma fratelli della grande alleanza sciita. Ecco il giardino persiano. L’arte contemporanea altrimenti detta “degenerata” è spalmata dappertutto, le facciate dei palazzi – secondo la lezione di Mehdi Ghadyanloo – sono disegnate al modo del pop up. Trionfa ovunque il museo a cielo aperto voluto dalla municipalità di Teheran (le gigantografie di opere d’arte di tutto il mondo, a costo di non rispettare il copyright) e la città – una metropoli di 14.000.000 di abitanti – è stata ribattezzata Teherangeles per via dei grattacieli, delle lussuose vetrine e dello struscio di ragazze e ragazzi desiderosi di far “giardino”, persiano va da sé. Stanno in macchina, giovanotti e giovanotte, ascoltano i Barobax, un gruppo pop molto amato, e si danno appuntamento davanti alla vetrina diBurgerland. Il rimorchio tra di loro funziona col bluetooth e i mullah – e con loro i guardiani della rivoluzione – già conoscono l’esito di questa situazione: una sorta di “state buoni, se potete”. Lo Stato come entità istituzionale religiosa, in tutto questo volteggiare di turbanti, ha un precedente che fa scuola. La teologia è assai curiosa di Roma è la Repubblica Islamica d’Iran è, infatti, uno Stato Pontificio prossimo già a mutarsi – e senza traumi, a detta degli analisti – in un ovvio Vaticano. La messa è finita per il Papa Re e al clero iraniano, infatti, tocca risolvere il più urgente degli ingorghi: quello di una società che se ne va per un verso mentre le istituzioni – rodate nell’esercizio del potere – fanno proprie tutte le contraddizioni. La messa è finita. Anche nella chiesa di Santa Maria, nel quartiere Taleqani, da dove escono bambini accorsi un’ora prima per “la dottrina”. Nel mese di giugno ci saranno le cerimonie della prima Comunione ma la presenza della grande croce sulla facciata dell’edificio (in questo caso, cristiani di confessione assira) più che una liberalità, svela la realtà di un mondo cosmopolita. Un nipote dell’Imam Sadr (nota: in età contemporanea solo Khomeini e Sadr godono del titolo di Imam) che vive in Iran, ha sempre cura di intonare con i calzini il colore del suo tasbeeh, ossia il rosario musulmano. Nella vetrina del suo studio privato, coi suoi bellissimi rosari dai grani preziosi, custodisce due icone della Vergine Maria.
E non si può certo dire che egli sia un laico, anzi. La famiglia di Mehdi Firouzan, editore, proprietario della catena di bookcity il cui catalogo contempla Les fleurs du Mal ma anche i Fioretti di San Francesco è imparentata con quelle di Imam Khomeini e di Khatami e Mehdi – elegante nel suo stile da bibliomane – è il nipote diretto di Imam Sadr, il religioso misteriosamente scomparso in Libia nell’agosto 1978, una delle figure più venerate dalla devozione popolare di cui in tutto il mondo islamico si ricorda l’apologo del gelato. Più che un’allegoria, un esempio: a Beirut, dove Imam Sadr ebbe a stabilirsi prima del suo occultamento, c’era un gelataio assai rinomato, un cristiano, al cui negozio andavano tutti. Un giorno, un musulmano, seguace di Imam Sadr, volle farsi gelataio e per strappare la clientela al cristiano, non potendo argomentare in qualità, si dedicò alla malevolenza: “Il gelato del cristiano è impuro, non è halal”. L’odio si nutre della pochezza. I compratori, fomentati dal fanatismo, abbandonarono il vecchio gelataio ma Imam Sadr, un venerdì, dopo la preghiera, a conclusione del sermone disse: “Adesso andiamo a prenderci un gelato”. Dalla moschea, allora – e con grande sorpresa di tutti – Imam Sadr portò la gran folla dal cristiano scelse per sé una coppa di pistacchio e in forza di quell’esempio disinnescò il verme della discordia.

Più che la religione è l’identità a far da collante 

È la geografia a fare la storia, non viceversa, se il ritratto di Imam Alì, in molti taxi, coabita con quello di Zoroastro. Alì, genero di Maometto – nonchè padre di Hosseyn, il martire di Karbala – nella catena dei dodici apostoli del Profeta è il primo degli imam (per i sunniti, invece, è il quarto dei “Califfi ben guidati) mentre Zoroastro è Zarathustra, il sacerdote di quel fuoco eterno il cui tempio, in Iran, oltre ad essere la dimora dei Re Magi, custodisce la memoria di Persia. Più che la religione, è l’identità a far da collante. Non si dice “Golfo” né tantomeno “Golfo Arabico”, bensì “Golfo Persico”. Non esiste il Giardino islamico ma solo il Giardino persiano e Ferdousi – il Dante Alighieri dei persiani, autore dello Shahnameh – ha una sorta di sfrontato svolazzo sul turbante che sta a significare un altolà alla barbarie fondamentalista.
Le statue del poeta (nato a Tus nel 935 e morto nella stessa città nel 1020) sono ovunque. Il poeta si trova ai piedi della Milad Tower (alta 435 metri, inaugurata nell’ottobre 2008) e la statua al centro della piazza è stata scolpita da Abdolhassan Khan Sadighi, vissuto a lungo in Europa e autore anche della statua collocata a Roma, a Villa Borghese. Nella riproducibilità tecnica del mito, poi, ce ne sono dappertutto e così, il poeta, è presente fin negli scaffali delle drogherie. “C’è solo un argomento che, ancora oggi” – mi dice Masoud Ghasir, ingegnere – “mette d’accordo un iraniano, un ebreo e un turco: ed è l’avversione verso gli arabi. E l’iraniano avrà sempre un verso di Ferdowsi su cui argomentare.” La lingua – il persiano, ovvero il farsi – è un codice indoeuropeo e nella scrittura ufficiale, nel parlato dei telegiornali e nei discorsi, accuratamente aulici, gli iraniani tendono a marcare il genitivo plurale, come a voler de-arabizzare la loro lingua. Più che l’identità, pur nelle contraddizioni di molteplici maschere, è la religione quella che il mondo intero cerca nel volto dell’Iran. Il velo delle donne, col caldo, diventa sempre più pesante da portare. Ancor più che coprirsi il capo, infatti, è quel dover avvolgere il collo a sfinire di afa le signore e le ragazze. Ed è in questa stagione che si mobilitano gli agenti di polizia incaricati della vigilanza sulla morale. Le pattuglie femminili poi, particolarmente severe, controllano che neppure uno spicchio di braccio o una caviglia possa sbucare dagli abiti. Ancora una volta, alle istituzioni, spetta una fatica: fare propria la contraddizione. Assisto a questa scena: una poliziotta ferma una donna, ha la caviglia scoperta. La donna, comunque, non è sola.
E’ in compagnia del marito. Discutono perfino rabbiosamente ma in punto di sharia la poliziotta nulla può. “La moglie deve onorare il marito”, dice l’uomo. “Lei mi deve obbedienza, e se a me piace che vada così, può andare in questo modo: con il bel piede e con la scarpa nuova”. La poliziotta chiede i documenti, controlla che siano marito e moglie, nulla può e li lascia andare. State buoni, se potete. C’è il guardiano all’ingresso della moschea di Imamazadeh Saleh. Il luogo è sacrissimo, accoglie la tomba in marmo verde di Saleh, il figlio di Musa al-Kazim, il settimo Imam. Accanto al sepolcro, a tre metri di profondità, c’è una sorgente d’acqua, mentre dai terreni circostanti si ricava la sabbia da compattare in dischetti, i turbah. Sono quelli su cui si appoggia la fronte nella prosternazione, questi di Imamazadeh Saleh – di forma quadrata – sono un’eccezione perché solitamente i turbah sono fatti con la terra di Karbal e sono richiesti dai pellegrini, ricercati per portare con sé – nel mondo – un pezzo di quel luogo santo. Nel cortile esterno, rivestite di porfido nero su cui, con i ritratti, sono incisi i nomi, ci sono le sepolture di giovani martiri. Le madri, le figlie, le sorelle, vi recano il loro pianto. Da piazza Tajrish, nel distretto di Shemiran, vi avanza una giovane signora. In chador, dalla falcata avvolta nel drappo, sfoggia una scarpa vezzosa se non viziosa.
Il guardiano è armato di piumino (quello per spolverare i mobili), gli serve per segnalare eventuali sconvenienze senza doverle toccare le donne. La signora entra, staglia se stessa contro il mosaico blu e bianco della moschea, passa avanti e lui non la ferma. Lei si toglie le scarpe, si accoccola all’ingresso – quello delle donne – e lì, elegante mistero del creato qual è, aspetta la chiamata alla preghiera. E’ un luogo comune ma fa d’uopo: in Iran c’è il primato nella rinoplastica e il mercato dei cosmetici è tra i più floridi, più che in Occidente. La metropolitana, bella e moderna, prevede vagoni separati ma negli autobus delle linee urbane maschi e femmine stanno insieme. Appunto: state buoni, se potete. Anche l’amministrare tutte queste contraddizioni sta diventando un luogo comune: l’Iran, giorno dopo giorno, perde il primo pretesto, il nemico. Tutti, in Iran, attendono l’accordo con gli Usa per il nucleare. E non per fare guerra. “L’Iran non muove guerra a nessuno” – mi spiega l’architetto Mohammad Bahari Razari – “da più di quattrocento anni. Ci siamo ritrovati a essere aggrediti, ci siamo difesi ma troppo vicino è il ricordo del conflitto”. Dice così, l’architetto Bahari Razari, toccandosi la gamba, offesa. E’ un ricordo dei giorni in cui i missili di Saddam arrivano fin dentro Teheran. La società iraniana – intesa come bazar, luogo aperto dei commerci e degli scambi – è già proiettata all’appuntamento col mondo e il celebre murale dove la bandiera americana svela nella scia delle strisce, le bombe – e, nelle stelle, i teschi – è ormai un feticcio alla Andy Warhol. Nessuna meraviglia se, domani, il Peggy Guggenheim se ne facesse carico del restauro.

Via “Martire Edoardo Agnelli”, che si è battuto contro il padre

Le contraddizioni fanno l’identità dell’Iran. Ed è di un incredibile chic che la strada su cui si affaccia l’ambasciata inglese sia intitolata a Bobby Sands, l’eroe della lotta per l’indipendenza d’Irlanda. Se solo l’Italia inciampa in qualche gaffe c’è la possibilità di una ritorsione toponomastica, l’intitolazione a Teheran di una strada a “Martire Edoardo Agnelli” che, nella convinzione degli iraniani, non ha cercato la morte suicidandosi ma l’ha trovata, giusto per mano assassina, per non aver assecondato i progetti mondialisti del papà suo, Gianni, “odiatore del popolo italiano e colonna portante della finanza internazionale”. Non allineato a linea alcuna, l’Iran. Visto da dentro, non corrisponde al pregiudizio positivo. “Non è il Paradiso”. Figurarsi se collima con quello negativo. “Ma non è neanche un inferno”, mi spiega il signor Hamze. Lui è un ex attore di film in costume, costretto a fuggire all’indomani della Rivoluzione per via dei troppi fotogrammi a torso nudo, adesso rientrato a Qazvin, titolare di una bottega di vasellame in rame nel bazar. Beviamo un bicchiere di non so che meraviglia. Dentro vi galleggiano pistilli color rubino e il locandiere – come nelle Mille e una Notte, giuro, ma è così – ci porta lamine di fogliame immerse nello yogurt e poi fatte asciugare dove ogni avventore deve scrivervi dei versi di amore. Il taverniere – come in una scena di Quartine di Umar Khayyam, giuro, ma è così – si riprende le pagine su cui ognuno ha scritto e li chiude dentro degli scrigni in legno. In attesa che i viandanti di Sa’d al-Saltaneh, il caravanserraglio sulla Via della Seta (ma meglio ancora i turisti) trovando questi fogli, prima o poi leggeranno, declameranno e canteranno tutta questa furiosa fantasmagoria. “Sa che Qazvin”, mi dice con aria divertita l’ex attore, e me lo racconta mentre un uomo dona una rosa a un altro uomo, “è la città degli amori improvvisi?”. Alle solite: state buoni, se potete.
Non è una Cuba d’Oriente, l’Iran. Le gru, sparse ovunque nello skyline dei grattacieli, spiegano il bene – una galoppante frenesia edilizia – e il male. Le guardo e non posso non cancellare l’altro uso: forche improvvisate per le esecuzioni capitali. C’è Mastro Titta, il boia. E, ancora una volta, il “state buoni, se potete”. Non è la Corea del Nord, l’Iran e non è – teocrazia o meno – una replica in chiave sciita di una qualunque monarchia saudita. Nulla, dello straccionismo esotico e pittoresco, alberga qui dove la contraddizione fa certamente contrasto – un idolo assoluto per cui si barricano in casa è Googoosh, una sorte di Iva Zanicchi, star di un talent seguitissimo – ma non arabesco. Le leggi proibiscono alle donne di cantare da soliste, in coro però sì, e negli spot di celebrazione della patria – uno dove un bimbo segna un gol e poi un fabbro batte sul ferro e le bambine cantano – non c’è ombra di bang-bang, di parate, di truppe schierate e quel sottintendere Dio, in ogni istante della giornata, assume le sfumature di viraggio cromatico più che un effetto speciale. Con un’idea continua: “State buoni, se potete”. Mosallah Imam Khomeini, la più grande moschea, ancora oggi incompleta, è la loro “Salerno-Reggio Calabria”. Non finiscono mai i lavori ma è già in uso. Si prega col sottofondo dei martelli pneumatici. Non è solo un monumento in omaggio alla Guida della Rivoluzione, è anche la loro agorà e lì, per esempio, il mese scorso – dal 6 al 15 maggio, cinque milioni di visitatori – ha avuto luogo la Fiera del Libro. Sono gran consumatori di libri, gli iraniani. Tra gli stand, oltre a quello dedicato all’imponente Enciclopedia Islamica, c’è quello italiano e lo stand è assai frequentato anche per via dell’irresistibile richiamo di un’altra enciclopedia, la Treccani (Massimo Bray, attuale presidente, è molto amato in Iran). Il colonnato di Mosallah Imam Khomeini è tutto un ribollire di carta, calligrafie e stranezze. Come il poster di Friedrich Nietzsche: è impegnato a chiacchierare con lo smartphone. In ogni tappa i visitatori – prevalentemente famiglie, con grandi vendite per la letteratura dell’infanzia – vengono accolti da thè e dolci. La bevanda, calda, si gusta intingendo la zolletta per poi tenerla tra le labbra sorseggiandola. Una delizia è il caffè dello stand yemenita, dopo di che una gelatina di datteri squisita e la kermesse è un rimandare al Tajrish, l’affollarsi del bazar dove il tutto, e il contrario di tutto,  inevitabilmente costringe ognuno a fare esperienza di contraddizione.
Non è certo una contraddizione lo stand della comunità ebraica dove sono esposti i Libri della tradizione sacra ma una incoerenza, rispetto alle informazioni avute prima della partenza, c’è, ed è notevole. Ci sono i libri di Mahmoud Dowlatabadi ma soprattutto ce n’è uno, Il Colonnello, dato per inedito in patria e mai approvato dalla censura. Evidentemente è stato pubblicato. Come pure Dante Alighieri, La Divina Commedia, col canto dove Maometto è dannato agli inferi, tra gli eretici, opportunamente glossato ma, ebbene sì, espunto. La transizione non è un pranzo di gala. La Società Dante Alighieri, qualche tempo fa stava per arrivare in Iran per una serata in onore del poeta ma non ci fu “verso”. Da Qom, dalla città santa degli studi di teologia, arrivò il no e però i libri di Italo Calvino, di Natalia Ginzburg, di Umberto Eco e di Leonardo Sciascia – il fior da fiore del pensiero laico, a volte anche ateo e materialista – non incontrano ostacoli. L’Italia – se si pensa che l’italiano e il persiano erano le lingue franche della Via della Seta – è un racconto che affascina non poco gli iraniani e sta per uscire, pubblicato dalla casa editrice Hermes, La storia della letteratura contemporanea di Giulio Ferroni.

Il rito del thè nell’affollato bazar della moschea Khomenei

La transizione è un bagno di realtà. E’ il potere delle cose. I pasdaran, riconoscibili nell’affollarsi di segni tra i quali il berretto da baseball però grigioverde e una certa barba (inevitabilmente sale e pepe), sono addestrati alle discipline dell’amministrazione, del management e degli studi di giurisprudenza. I figli della Rivoluzione Islamica abitano un Iran parallelo dove accanto ai combattimenti, in Iraq, in Siria – agli ordini di Qasem Soleimani – affrontano la transizione ma proprio il fronte aperto contro l’Isis, giorno dopo giorno, diventa per il governo di Hassan Rouhani il tramite per posizionare la scacchiera ancor prima che i pezzi in gioco. Il futuro è in questo preciso punto della carta geografica e la storia avanza con le mappe più che con i droni. La transizione è uno smottamento di faglia che rasenta il precipizio, non lo insegue. Ho visto Mahmud Ahmadinejad con il tasbeeh in mano. Recitava le sue preghiere e ascoltava la Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamanei, durante il discorso alla nazione iraniana del 16 maggio scorso. Un duro proclama di mobilitazione contro il terrorismo. Quando il telegiornale ha poi fatto il servizio, la prima notizia in scaletta, Ahmadinejad – pur sempre ex presidente della Repubblica – non compariva. C’erano le riprese con continui zoom sulle delegazioni dell’Africa nera, sui deputati venezuelani, sugli ammiragli, gli ospiti indiani, pachistani, russi e sulle signore in chador e i membri del governo.
La telecronista parlava dal desk addobbato coi fiori purtroppo finti. Anche nell’ufficio dell’imam del santuario di Saleh erano di plastica le rose ed è un dettaglio proprio curioso se si considerano due fatti: il primo è che non esiste zolla in Iran dove non si faccia giardino – bellissime poi, le composizioni, come il gigantesco pennello di Teheran infilzato nel prato per gocciare vernice fatta di fiori freschi, gialli – la seconda, infine, è l’estrema raffinatezza di questo popolo il cui abito mentale è la civiltà. A essere pignoli c’è un altro dettaglio. Vestono capi in materiale sintetico, proprio loro che nella seta e nell’arte dei tessuti hanno celebrato la finezza fino a intossicare di charme le suggestioni oggi recuperate nelle case d’arte; proprio loro che sono europei col tappeto, viaggiatori cosmopoliti la cui vocazione è la nostalgia di Persepoli, al punto di mettersi l’Occidente dentro casa se poi occorre mettere mano a The Great Gamecon l’unico azzardo che tutti, qui, in Iran, vogliono: aprirsi. Lo zampino di Dio, infine. Quella del cinema è un’industria di pregio in Iran. Ovunque campeggia la locandina di un film atteso: Volevo essere Maradona. A differenza del sosia di Youth di Paolo Sorrentino qui arriverà il Maradona vero ed è la Mano dei Dios.
Lo zampino di Dio, però. Al 33° Fajr International Film Festival, a fine aprile, è stato presentato “Muhammad, the Messanger of God”. E’ un film di Majid Majidi, il direttore della fotografia è Vittorio Storaro, vincitore di tre premi Oscar e, prossimamente, arriverà nel circuito internazionale. E’ solo un primo capitolo, ne seguiranno altri due e – nel far seguito alla tradizione consolidata delle biografie scritte – racconta la vita del Profeta dell’Islam. Il film è solo l’episodio di Maometto ancora bambino, descritto dalla nascita ai dodici anni. Voluta da Khamanei, corredata dall’infinita mole di riferimenti storici e filologici, la pellicola – la seconda prova dopo The Messange di Mustapha Akkad, con Anthony Quenn e Irene Papas – sfida con spericolata delicatezza la proibizione di rappresentare, attraverso le immagini, l’idea stessa di Dio e del Suo Profeta.
Il set, chiuso al pubblico, ma non smontato in attesa delle prossime produzioni, ricostruisce alla perfezione e in ogni dettaglio Mecca e Medina, le città sante. Tutto è visibile nel film: c’è l’episodio del monaco Bahira, il santo cristiano che per primo riconosce i segni della profezia nell’orfano portato al seguito di una carovana; c’è la scena delle palme, chinate per dare ombra al passaggio del piccolo; c’è un primo piano sulle dita, appena dischiuse, di Maometto bambino. Tutto è nell’invisibile. Si scorge per un istante l’occhio del Profeta ma è come se nel metterci quello zampino tutto di tenerezza, il regista, rispettoso del divieto al punto di sfiorare l’invisibile, con la fotografia di Storaro abbia saputo spiegare la commozione di Dio, il dono di quel messaggio di pura luce, puro perdersi nell’abbandono a Dio. A conclusione della proiezione, piangevano tutti. Tutto è visibile nell’invisibile. Tutto cerca un segno. Un mullah si asciuga le lacrime, sorride: “Andiamo a prenderci un gelato”. Più che un’esperienza di contraddizione, un’armonia.

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