Erdoğan ha perso la battaglia. Non vuole perdere la guerra


Carta di Laura Canali
[Carta di Laura Canali]

Le elezioni parlamentari incoronano l’Hdp dell'”Obama curdo” Demirtaş come principale alternativa all’Akp del presidente. Quest’ultimo rimane l’arbitro del destino di Ankara e potrebbe tentare soluzioni estreme per conservare il potere.


Un tornado elettorale si è abbattuto sulla Turchia. Le elezioni parlamentari di domenica 7 giugno hanno infatti rivoluzionato il quadro politico, aprendo una fase colma di incertezze e gravida di rischi.

Il voto ha avuto un unico vero vincitore: il leader dell’Hdp Selahattin Demirtaş.

Il Partito democratico dei popoli (13%) ha non solo superato di slancio la soglia di sbarramento del 10%, principale incognita di queste elezioni, ma ha completato la trasformazione da “partito curdo” in partito nazionale. Senza dubbio buona parte del successo elettorale dell’Hdp è dovuto alle straordinarie performance nelle province della regione curda della Turchia (80% sfiorato a Diyarbakır, risultati sopra l’85% ad Hakkari e Şırnak), in alcune delle quali l’Hdp si è assicurato tutti i deputati in palio o comunque ha lasciato all’Akp solo le briciole. “Chi in campagna elettorale diceva che ‘il problema curdo non esiste’ è stato azzerato nel sud-est del paese”, ha tuonato Demirtaş nel discorso pronunciato domenica sera riferendosi al presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan.

I risultati delle grandi città, però, dimostrano che l’Hdp è riuscito nell’impresa di affermarsi come principale alternativa all’Akp anche nel resto del paese, diventando il punto di riferimento di parte della classe media. A Istanbul il partito di Demirtaş ha triplicato i propri voti rispetto al 2011 (quando presentò dei candidati indipendenti per aggirare la soglia di sbarramento), raggiungendo il 12%. Stessa dinamica a Izmir, dove l’Hdp è passato dal 3% a al 10% abbondante. Ancora più significativo il risultato di Ankara, nel cui distretto elettorale l’Hdp ha superato il 5%. Un salto clamoroso rispetto allo 0,7% ottenuto dai candidati indipendenti curdi nel 2011.

“L’Obama curdo”, come i media occidentali hanno preso a definire Demirtaş, ha vinto alla grande la sfida elettorale. Le previsioni più rosee davano l’Hdp all’11%: il 13% è un risultato straordinario, che secondo alcuni apre la strada a un processo che potrebbe portare il Partito democratico dei popoli ad affermarsi come principale forza della sinistra turca. La vera alternativa, anche in termini numerici, all’Akp.

Un’analisi obiettiva della performance elettorale dell’Hdp deve però tenere conto di un fattore fondamentale: molti dei voti ottenuti da Demirtaş sono “voti in prestito”. “L’Hdp ha passato la soglia con i voti del Chp”, ha lucidamente commentato il vice primo ministro Bülent Arınç. È infatti lecito supporre che, soprattutto nelle grandi città, la motivazione sottostante alla decisione di voto per l’Hdp sia stata il desiderio di arginare le ambizioni presidenzialiste di Erdoğan. Sarà interessante vedere se Demirtaş riuscirà a trasformare i voti contro Erdoğan in voti a favore dell’Hdp.

Erdoğan e l’Akp del primo ministro Ahmet Davutoğlu, d’altra parte, sono i grandi sconfitti delle elezioni. Per la prima volta dal 2002 il “partito di governo” non è più tale e ha perso la maggioranza assoluta in parlamento. Soprattutto, ha perso circa tre milioni di voti rispetto al 2011, franando dal 49,8% al 40,8%.

In campagna elettorale il presidente turco aveva chiesto agli elettori di consentire all’Akp di eleggere 400 deputati (su 550) per poter approvare la riforma super-presidenzialista della Costituzione, pietra angolare della Nuova Turchia immaginata da Erdoğan e vera propria ossessione del “sultano”. La risposta dei votanti ha avverato la profezia del capogruppo dell’Hdp İdris Baluken, secondo il quale l’8 giugno, anziché 400 deputati, Erdoğan avrebbe ricevuto “400 cocomeri di Diyarbakır (la “capitale” curda, nda)”.

Le cause di questo crollo sono molteplici. A giudicare dai risultati degli altri partiti, tuttavia, appare chiaro che Erdoğan sia rimasto soprattutto vittima di quello che avrebbe voluto fosse il successo più grande della sua carriera politica: il “processo di soluzione” della questione curda. È infatti piuttosto sorprendente che in presenza di un arretramento così marcato del partito al potere il principale partito di opposizione (Chp), che in teoria rappresentava l’unica alternativa di governo concreta all’Akp, non solo non abbia aumentato i propri voti rispetto alla precedente tornata elettorale ma abbia addirittura perso un punto percentuale (dal 26% del 2011 al 25%). Un’ulteriore dimostrazione del fatto che la sconfitta dell’Akp ha soprattutto ragioni ideologiche.

Erdoğan si è fatto schiacciare dalla tenaglia dei nazionalisti curdi e dei nazionalisti turchi dell’Mhp(passato dal 13% del 2011 al 16,4%). I primi non gli hanno perdonato il voltafaccia con il quale il presidente turco, negli ultimi tre mesi, ha cercato di recuperare i voti dell’elettorato nazionalista in uscita verso il partito di Devlet Bahçeli adottando un atteggiamento palesemente anticurdo. I secondi hanno confermato di non aver digerito, per usare un eufemismo, la legittimazione del “mangia bambini” Abdullah Öcalan. I risultati elettorali, soprattutto il travaso di voti dall’Akp all’Hdp, dimostrano inoltre come la scelta di incentrare la campagna elettorale sulla riforma presidenzialista della costituzione sia stato forse l’errore più grande commesso da Erdoğan negli ultimi tredici anni.

Detto ciò, è fondamentale bilanciare l’analisi dei trend elettorali con una valutazione dei valori assoluti. È possibile, come ha fatto notare Murat Yetkin, che le elezioni di domenica abbiano segnato “la fine della crescita di Erdoğan”, il cui partito aveva sempre aumentato i propri consensi nelle ultime due tornate elettorali. L’Akp, tuttavia, rimane nettamente il partito di maggioranza relativa. E lo è per la quarta volta consecutiva, un record nella storia della democrazia turca.

Il 41% ottenuto dall’Akp è un risultato piuttosto importante per un partito che avrebbe “perso” le elezioni. Il gap di circa 16 punti percentuali con il secondo partito, il Chp, autorizza inoltre a prevedere che l’Akp sia destinato a rimanere la principale forza politica turca anche nel prossimo futuro. A patto che, come suggeriscono anche i commentatori filo-governativi, si apra quanto prima una discussione interna al partito. Il messaggio che gli elettori hanno voluto lanciare al partito di Erdoğan e Davutoğlu, scrive ad esempioAbdülkadir Selvi, è che “per costruire la Nuova Turchia bisogna prima costruire un nuovo Akp”. Spiazzante, in tal senso, è stato il “discorso del balcone” pronunciato dal primo ministro uscente Davutoğlu poco prima della mezzanotte. Secondo Selvi i toni trionfalistici usati da Davutoğlu erano necessari per evitare un’ulteriore demoralizzazione della base del partito. Levent Gültekin, commentatore che segue da vicino le vicende dell’Akp, ha però fatto giustamente notare nel corso della maratona elettorale in onda sulla CNN Türk che in questo modo l’Akp rischia di essere trasformato in “un partito di fanatici del 10%”.

Il partito di Erdoğan, dunque, ha vinto le elezioni perdendole. O le ha perse vincendole. Uno stato di cose che apre scenari e dinamiche pressoché inesplorati. La partita iniziata nella notte tra il 7 e l’8 giugno si annuncia quanto mai complessa.

Come da costituzione, il presidente della Repubblica assegnerà a breve l’incarico di formare il governo al leader del partito di maggioranza relativa, cioè al primo ministro uscente Davutoğlu, il quale a sua volta inizierà verosimilmente colloqui esplorativi con i leader dei partiti di opposizione allo scopo di individuare un partner per un governo di coalizione. Le probabilità di successo di questa operazione sono tuttavia molto basse. Il leader del Chp Kemal Kılıçdaroğlu aveva escluso un’alleanza con l’Akp già in campagna elettorale e le dichiarazioni post-voto dei maggiorenti del partito social-democratico hanno confermato questa predisposizione. Più verosimile appare l’ipotesi di una coalizione Akp-Mhp. Nelle ultime settimane se ne è parlato molto. Il “discorso di mezzanotte” pronunciato dal leader del partito nazionalista Devlet Bahçeli ha tuttavia allontanato enormemente questa possibilità. Bahçeli ha infatti suggerito la nascita di un’alleanza Akp-Hdp, magari appoggiata anche dal Chp, dicendosi pronto a svolgere il ruolo di principale partito d’opposizione e chiedendo elezioni anticipate il prima possibile.

Altrettanto improbabile sembra l’opzione di un’alleanza tra Akp e Hdp. Nel discorso di domenica sera Demirtaş ha ribadito che il suo partito rispetterà le promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte quella di non allearsi con l’Akp. Ancor più irrealistica è l’eventualità che i tre partiti di opposizione raggiungano un accordo per la formazione di una “grande coalizione” che escluda l’Akp. La comune ostilità nei confronti del partito di Erdoğan e Davutoğlu difficilmente consentirà a Mhp e Hdp di superare le loro fortissime divergenze ideologiche.

Tutto ciò fa sì che la nascita di un governo di minoranza sia molto di più che una semplice ipotesi. Secondo molti commentatori interpellati domenica sera dalla CNN Türk, Davutoğlu potrebbe saltare la fase delle consultazioni con i leader dell’opposizione e presentarsi in parlamento per il voto di fiducia sperando nell’appoggio esterno dell’Hdp o dell’Mhp. Se questa operazione dovesse fallire, Erdoğan sarebbe costretto ad affidare un mandato esplorativo al leader del secondo partito per numero di voti ottenuti, Kılıçdaroğlu, il quale potrebbe tentare la formazione di un governo di minoranza Chp-Mhp con l’appoggio esterno dell’Hdp. Anche in questo caso, però, tra i commentatori prevale lo scetticismo.

Il rischio che entro i 45 giorni stabiliti dalla costituzione la Turchia sia ancora senza governo è molto alto. In questo caso, l’unica soluzione possibile è la nascita di un governo di transizione composto in misura proporzionale da esponenti di tutti i partiti rappresentati in parlamento, con Interni e Giustizia affidati a tecnici, che porterebbe il paese ad elezioni anticipate già a ottobre. Un’eventualità che il vice primo ministro uscente Numan Kurtulmuş ha provato a esorcizzare caldeggiando la nascita di un governo di coalizione purchessia. Dello stesso avviso sembra essere il presidente della Repubblica Erdoğan, che nel messaggiodiffuso all’indomani delle elezioni si è appellato alla “responsabilità” dei partiti politici. Erdoğan, come sempre, rimane l’arbitro della situazione. Al momento non è chiaro cosa passi per la testa del “sultano”, ma secondo alcuni, nonostante le dichiarazioni ufficiali, il capo di Stato starebbe seriamente valutando l’idea di indirizzare le dinamiche politiche in modo da rendere inevitabili le elezioni anticipate.

Erdoğan potrebbe infatti fare leva sulla paralisi politica delle prossime settimane, che avrebbe inevitabili conseguenze economiche, per dimostrare come senza un Akp forte il paese è destinato a precipitare nell’instabilità a causa dell’irresponsabilità dell’opposizione. Il commento del braccio destro di Erdoğan, Yiğit Bulut, secondo il quale i risultati elettorali dimostrano l’assoluta necessità dell’introduzione del sistema presidenziale, è in tal senso estremamente significativo.

L’incertezza determinata dal voto va inserita nel più ampio contesto economico e geopolitico. Ilcrollo della lira e della borsa di Istanbul conferma che nella fase attuale la Turchia non può permettersi una prolungata fase di stallo come quella che seguirebbe inevitabilmente al mancato raggiungimento di un accordo per la nascita di un governo di coalizione o di minoranza. Lo stesso vale per il “processo di soluzione” della questione curda. Demirtaş ha tenuto a sottolineare che votando per l’Hdp il popolo turco ha espresso un forte bisogno di pace. Poco prima delle elezioni il vice primo ministro Yalçın Akdoğan avevadichiarato che entro l’estate il “processo di soluzione” avrebbe raggiunto un punto di svolta, avvertendoperò che ciò sarebbe stato possibile solo in presenza di un Akp forte. Il partito di Erdoğan rimane infatti l’unica forza politica in grado di gestire le complesse dinamiche implicite nel dialogo con il Pkk e con il suo leader Abdullah Öcalan.

Il prezzo pagato dal presidente della Repubblica in questa tornata elettorale e l’apparente ostilità di Demirtaş a un accordo di coalizione con l’Akp gettano dunque una lunga ombra sul futuro del processo di pace con i curdi. Ancor più importante il fatto che la Turchia si trovi a dover gestire questa complessa crisi politica proprio quando la guerra civile siriana rischia di entrare in una nuova fase. Secondo fonti libanesi, infatti, Teheran si sta preparando a dispiegare 20 mila soldati iraniani, iracheni e libanesi nella provincia di Idlib allo scopo di lanciare un’offensiva contro i ribelli sostenuti da Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Si tratta di una mobilitazione militare senza precedenti nella storia del conflitto siriano, che avverrebbe a una trentina di chilometri dal confine con la Turchia.

Queste dinamiche potrebbero avverare la previsione fatta da Emre Uslu prima delle elezioni. “Dal momento che Öcalan e Erdoğan hanno bisogno l’uno dell’altro, Erdoğan manderà Hakan Fidan (direttore dell’intelligence turca, nda) da Öcalan e gli farà chiedere di convincere l’Hdp (ad appoggiare il governo di minoranza dell’Akp, nda). È dunque molto probabile che il nuovo governo verrà incoronato da Öcalan. Erdoğan è consapevole di questa possibilità e dunque non sta pronunciando neanche una sola critica nei confronti di Öcalan. Öcalan è senza dubbio il principale vincitore di queste elezioni. Sembra proprio che sarà Öcalan a essere incaricato di formare il nuovo governo dopo la tornata elettorale. Se questo governo di minoranza verrà formato, un pilastro sarà Öcalan e l’altro sarà Erdoğan”. L’ipotesi di un governo Erdoğan-Öcalan è stata presa in considerazione anche da Amberin Zaman, secondo la quale, tuttavia, il leader del Pkk non avrebbe alcun interesse a offrire una sponda al presidente.

Le cose potrebbero cambiare solo se al vertice dell’Akp arrivasse Abdullah Gül. L’ex presidente della Repubblica è stato infatti il convitato di pietra delle elezioni. Le mosse del fondatore dell’Akp sono oggetto di discussione ormai da mesi. A fine marzo Ahmet Takan ha lanciato una vera e propria bomba rivelando i piani di Gül per la formazione di un nuovo partito di centrodestra, che secondo İhsan Yılmaz avrebbe un potenziale elettorale del 20%. Più realisticamente, secondo diversi retroscena l’ex presidente avrebbe iniziato le manovre per riprendersi l’Akp. A una settimana dal voto il quotidiano Taraf ha rivelato che i fedelissimi di Gül, perlopiù deputati che non sono stati ricandidati a causa del limite dei tre mandati imposto dallo statuto dell’Akp, stanno organizzando incontri segreti con funzionari della Nato, dell’Ue e degli Stati Uniti.

L’obiettivo di queste manovre è formare una corrente “riformista” analoga a quella che nell’agosto del 2001 ha portato alla nascita dell’Akp e di approfittare della “sconfitta” del partito di governo per lanciare l’assalto alla sua leadership. Sempre secondo Taraf, il primo ministro Davutoğlu e il direttore del Mit Fidan sarebbero a favore dell’iniziativa, che ha fatto suonare parecchi campanelli d’allarme dalle parti dell’AK Saray (il palazzo presidenziale di Ankara). Non è un caso che a pochi giorni dalle elezioni sia uscita lanotizia di un’indagine fiscale nei confronti delle aziende del fratello di Gül.

Per il momento è solo un’ipotesi, ma il ritorno in scena dell’ex presidente della Repubblica sarebbe la soluzione ideale alla crisi generata dai risultati delle elezioni del 7 giugno. Gül è infatti l’unico leader in grado di poter unificare la nazione e, al contempo, rigenerare l’Akp. Che nonostante tutto rimane il centro di gravità della politica turca.


http://www.limesonline.com/turchia-elezioni-erdogan-hdp-battaglia/77940

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