Ali Reza Jalali
Il dato numerico delle elezioni
politiche turche non lascia molto spazio alla fantasia: Erdogan e il suo
partito islamico conservatore-moderato si vedono ridimensionati rispetto alla
situazione della legislatura precedente, perdendo non solo l’opportunità di
raggiungere quei famosi 330 seggi grazie ai quali essi potevano aspirare a
mettere mano alla Carta costituzionale della Repubblica di Turchia,
traghettando così il paese da una forma di governo parlamentare a un presidenzialismo
fatto su misura per il sultano dell’AKP e la sua apparentemente
insaziabile sete di potere, ma col risultato di 258 seggi, frutto di quel 40
percento di consensi riscossi nella giornata di domenica 7 giugno, Erdogan e
Davutoglu devono dire addio anche al progetto, forse l’obiettivo minimo per gl’islamisti
anatolici, di creare ancora un governo monocolore, visto che con quella
quantità di seggi non ottengono la maggioranza assoluta del 50 percento più uno
dei banchi del Parlamento monocamerale di Ankara.
Anche i motivi di questo
ridimensionamento per Erdogan sono abbastanza facili da intuire: in primo l’uomo
l’ingresso in Parlamento del partito cosiddetto filo-curdo (HDP) ha portato via
moti consensi al partito di governo, inoltre vi è anche da considerare un calo
fisiologico di consenso per una formazione, quella di Erdogan, che si afferma
come primo partito ormai da diversi anni e che nelle precedenti consultazioni
politiche aveva raggiunto, col 50 percento dei consensi, un dato tanto
importante quanto raro nel panorama politico turco, abituato a governi di
coalizione a all’instabilità dell’esecutivo. Tutto ciò, ribadisco, è abbastanza
scontato e non c’era bisogno di particolare genio o intuito politico per
arrivare ad esternare tali punti di vista. Quello che sembra sfuggire a molti
però è un altro dato fondamentale. E’ pur vero che l’AKP non sfonda, ma stiamo
sempre parlando di un partito che ha portato a casa una vittoria elettorale, l’ennesima
della sua storia poco più che decennale, in un contesto dove tra il primo e il
secondo partito, quello dei socialdemocratici del CHP, vi è un abisso (40
percento contro 24 percento).
L’analista acuto, a mio modesto parere, più che
chiedersi il perché del ridimensionamento, secondo me anche abbastanza
fisiologico, di un partito al potere da più di dieci anni, che ha raggiunto
negli anni passati delle punte di consenso inconcepibili per qualsivoglia
partito turco, di destra o di sinistra, dovrebbe chiedersi il perché del
costante successo, nonostante alti e bassi, di un partito islamico del Vicino
Oriente, a fronte di altre situazioni, come nei paesi arabi scossi dai tumulti
degli ultimi anni, dove l’Islam politico ha dimostrato incapacità e molti
difetti nell’azione di governo, dalla Tunisia all’Egitto. In questi paesi
infatti, le formazioni ideologicamente affini all’AKP, come Ennadha e i
Fratelli Musulmani, dopo un breve periodo di governo, sono stati spazzati via e
ridimensionati tramite un processo elettorale (Tunisia) o attraverso un golpe
militare (Egitto), che però ha avuto indubbiamente un certo consenso anche
nella popolazione, stufa di vedere il proprio paese nel caos. Ciò è ancora più
paradossale se si pensa al fatto che in realtà la madre di questa impostazione
politica nel mondo islamico, ovvero una ideologia islamica-conservatrice, è
stata proprio la Fratellanza Musulmana, nata in Egitto negli anni ’20 del XX secolo,
e poi diffusasi in altre zone del Vicino Oriente.
In fondo, l’esperienza dell’AKP
oggi, e del suo genitore, il partito islamico turco di Erbakan, dichiarato
fuorilegge nonostante la sua breve esperienza di governo negli anni ’90, è
basata sul modello fondato da Hassan Al-Banna, fondatore della Fratellanza
Musulmana, e non viceversa. L’AKP è il figlio turco della Fratellanza Musulmana
e il partito di Erdogan tutto sommato ha una storia molto più recente rispetto
ai suoi omologhi nel mondo arabo. Se doveva esserci un modello con meno
esperienza e meno vincente, doveva essere proprio quello erdoganiano, non
quello della galassia islamica moderata e conservatrice dei paesi arabi,
considerando anche il contesto laico della Turchia rispetto a quello degli Stati
confessionali, parafrasando De Vergottini e il suo manuale di diritto
costituzionale comparato, del mondo arabo-mediterraneo, come l’Egitto o altri
ancora, dove in ogni caso l’Islam ha una valenza istituzionale importante.
Insomma, era più logico pensare a un successo dell’Islam politico nei paesi
arabi che non in Turchia; invece, nonostante la poca esperienza dell’Islam
politico anatolico in epoca contemporanea rispetto ad altri paesi musulmani, il
partito di Erdogan, tra alti e bassi, continua a essere il partito ampiamente
più votato dai turchi negli ultimi anni.
Potrebbe essere molto difficile
spiegare il perché di queste continue affermazioni elettorali – mi sembra che
in termini assoluti definire sconfitto un partito che porta a casa il 40
percento dei consensi sia abbastanza azzardato – ma in questa sede, molto
brevemente, proporrei una chiave di lettura di questo tipo: la Turchia è,
rarissimo caso nel mondo musulmano, un paese retto da un modello istituzionale
repubblicano e fortemente laico. Spesso accade che i giovani turchi che
provengono da famiglie tradizionaliste, soprattutto femmine, debbano emigrare
in occidente per poter continuare i propri studi all’università, e questo è
veramente paradossale: esse, musulmane, trovano più libertà religiosa in
contesti cristiani che non nella musulmana Turchia. In Europa, a parte qualche
eccezione, possono portare il velo nelle aule universitarie, in Turchia no.
Questo è solo un piccolo esempio di cosa voglia dire, oltre tutti gli aspetti
che possiamo ritenere importanti, come l’economia, la giustizia sociale, la
politica estera (chi scrive è ovviamente un forte critico delle mire
neo-ottomane di Erdogan), per il ceto medio e per la popolazione delle
province, ovvero gli ambienti più legati alla tradizione religiosa del paese,
votare per una DC islamica.
E’ un voto di appartenenza culturale e identitaria,
un voto non certo contro i valori della Turchia moderna o per l’imposizione
della sharia - è noto a tutti che l’Islam turco, a parte l’emergere del
problema salafita, tristemente comune all’attualità di non pochi paesi dell’area,
è particolarmente moderato e tollerante rispetto ad altri paesi – è un voto per
ammorbidire un sistema istituzionale, a ragione o a torto, visto come troppo
stretto alla storia di quello che fu il più importante paese musulmano per
diversi secoli. Il segreto di Erdogan è forse solo e semplicemente questo:
essere a capo di un partito islamico moderato, in un paese dove il sentimento
di adesione ai valori di una forma islamica compatibile con taluni aspetti del
pluralismo e della democrazia è forte, e paradossalmente è stato rafforzato
negli ultimi decenni da un sistema istituzionale troppo in antitesi con la forma
mentis di una ampia maggioranza di turchi. Aver stretto eccessivamente,
dalla nascita della Turchia contemporanea fino agli ultimi anni, le redini del
laicismo, ha provocato nella popolazione una reazione concretizzatasi negli
ultimi dieci anni con una egemonia dell’AKP che, nonostante la battuta d’arresto
di domenica scorsa, sembra ancora lontana dalla via del tramonto; in fondo,
proprio il diverso contesto istituzionale del mondo arabo, molto meno laico
della Turchia, è una ulteriore prova dell’assenza da parte di quelle
popolazioni di un bisogno a una maggiore islamizzazione della società, dove, tutto
sommato, lo Stato, guidato da elite militari secolarizzate, non impone una
visione riconducibile al fondamentalismo laico, come invece è avvenuto in
passato in Turchia, portando in ultima istanza al fallimento di quelle istanze
islamiste ritenute in ogni caso non all’ordine del giorno da parte dei
cittadini arabi, necessità invece più impellente nel contesto ultra-laico
anatolico.
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