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Come cambia lo scenario mediorientale con l’intervento russo

http://blog.ilgiornale.it/catto/2015/10/14/come-cambia-lo-scenario-mediorientale-con-lintervento-russo/



 

L’intervento russo in Siria ha disatteso i piani di chi pensava a Mosca come uno spettatore sostanzialmente passivo rispetto alle mosse geopolitiche del fondamentalismo islamico organizzato e della Nato. L’appoggio bellico di Putin allo storico alleato Assad va inteso in un panorama che è necessariamente più ampio di quello dei confini siriani, e per capirne i risvolti e le conseguenze di ampia portata rivolgiamo qualche domanda a Stefano Bonilauri, già conoscitore delle questioni mediorientali, iraniane e siriane in particolare, e segretario di “Socialismo Patriottico”, organizzazione che appoggia l’asse russo-sciita in Medioriente e che si occupa di tessere rapporti proficui con la Russia, nonostante le discutibili sanzioni che ancora oggi minano gli interessi economici e politici italiani.
Sig. Bonilauri, da cosa nasce l’intervento di Putin a fianco di Bashar al Assad in Siria?
La Federazione Russa ha deciso di intervenire direttamente in Siria per controbilanciare la politica estera americana, strategicamente allineata alla dottrina Brzezinski che identifica nella Russia il vero ed unico avversario degli USA. La caduta della Siria, per la Russia, rappresenterebbe un grave colpo perché implicherebbe la rinuncia al porto militare di Tartus. Mosca dovrebbe accettare la creazione della pipe-line qatariota destinata all’Europa, che inciderebbe negativamente sulla sua economia, ed infine darebbe slancio alla politica “neo-ottomana” di Erdogan che mira a creare una Turchia non solo gendarme del Medio-Oriente, ma anche punto di riferimento di tutte le etnie turcomanne dal Caucaso al Xinjiang Uiguro. Un altro elemento da non sottovalutare è la filosofia a cui è ispirata la politica estera russa: una nazione alleata non viene abbandonata mai alla mercé del nemico. Ecco perché i maggiori studiosi di geopolitica identificano nella politica estera russa un fattore di stabilità globale, al contrario di quanto accade con quella americana, che non solo concepisce il rapporto di alleanza unicamente come perenne stato di subalternità da parte dell’alleato, ma genera costantemente ondate di ‘caos’ per mantenere intere regioni geopolitiche in preda al travaglio, impedendo ai loro attori locali di avviarsi stabilmente sulla via del progresso e dello sviluppo.
Cosa rispondere a chi vede nel presidente siriano un dittatore, piuttosto che un leader violento e dispotico, o a chi gli imputa dei massacri verso i civili siriani? 
Quando si odono simili addebiti bisogna sempre fare molta attenzione a chi li lancia; molto spesso arrivano dal Dipartimento di Stato Usa, che, se ben ricordiamo, ha una nozione molto elastica di ‘dittatura’, che spesso emerge quando un leader internazionale non si piega ai ‘diktat’ della Casa Bianca, la stessa che, ricordiamo, non ravvisava alcun problema con leader indubitabilmente violenti, dispotici e dittatoriali quali Fulgencio Batista, Augusto Pinochet, Ansastasio Somoza, tanto per citarne alcuni. Se d’altra parte l’accusa di ‘dittatura’ arriva da organizzazioni non-governative autoproclamatesi guardiane di democrazia e libertà è bene ricordare a tali associazioni che non tutti i popoli e le culture del mondo hanno la medesima concezione di ‘libertà’ che vige a Londra, a New York, a Parigi o nella megalopoli occidentale in cui è situato il loro quartier generale. Vi sono popoli e culture disposti a combattere e anche a morire per poter scegliere un concetto di ‘Libertà’ diverso da quello angloamericano. Nei paladini liberal del progressismo invece è spesso presente il livello di bigottismo e chiusura mentale di un missionario ottocentesco animato dal fervore di ‘civilizzare’ i ‘selvaggi’. Quanto ai presunti massacri, vorrei far notare quante volte i media occidentali hanno cercato di incolpare l’Esercito Siriano e le forze governative di atti delittuosi quali la strage di Ghouta Est (estate 2013), in seguito rivelatasi un attentato compiuto dall’opposizione “moderata” al fine di creare il casus belli per l’intervento armato americano. Infine, giusto perché stiamo parlando di ‘Democrazia’, mi premerebbe anche ricordare che in Siria le modifiche costituzionali proposte da una commissione interparlamentare di saggi ed esperti sono state proposte al giudizio del popolo, che le ha approvate col referendum di febbraio 2012 e che in seguito a esse si sono tenute regolari elezioni parlamentari nel maggio 2012 e presidenziali a inizio giugno 2014; tanto per dire, attualmente in Italia il terzo Premier non eletto da nessun cittadino italiano a ricoprire la propria carica è impegnato a riscrivere la Costituzione del nostro paese insieme ad alleati disparati e occasionali. A questo punto chi ha un deficit di democrazia? La Repubblica Araba Siriana o quella Italiana?
Crede esista una opposizione “moderata” in Siria, credibile e affidabile in vista di un regime-change?
Non sussistono nemmeno minimi elementi per poter accettare una simile affermazione, che possiamo definire una menzogna tout court. Chi sarebbero gli oppositori moderati? Jabhat al-Nusra, ossia il braccio siriano di Al-Qaeda? Il Fronte Islamico, la cui natura ed agenda politica è ben identificabile solo dal nome? L’Esercito Libero Siriano ormai ridotto ad un branco di sbandati perennemente in bilico fra suggestioni islamiste e non meglio precisate posizioni “democratiche”? L’YPG curdo che a conti fatti sembra voler creare solo una nuova entità statuale autonoma? Siamo seri: non esiste nessuna opposizione moderata e laica. L’unico possibile regime-change in Siria potrebbe arrivare solo attraverso il Presidente Assad, che ha già mandato segnali in tal senso, mi riferisco al Referendum costituzionale del febbraio 2012 e alle successive elezioni politiche, tenute con il nuovo sistema elettorale. Contrariamente a ciò che immaginano i circoli atlantisti il cambio avverrà attraverso il partito Baa’th e sarà in ogni caso un cambio sovranista e laico, l’alternativa (Dio ce ne scampi) è l’afghanizzazione o la libizzazione del paese che diventerebbe un nuovo ‘buco nero’ alle porte dell’Europa.
Come valuta il ruolo dell’Iraq in questa guerra contro l’estremismo islamico, alla luce dei recenti accordi con Putin da parte di Baghdad?
Molto positivamente: è indubbio che l’asse Iraq-Iran-Russia-Siria darà la spallata definitiva all’ISIS. A questo punto non si tratta di stabilire se, ma quando il sedicente Califfato cadrà. Putin si sta dimostrando un vero statista: fino a pochi anni fa il Medio-Oriente era praticamente tutto schierato su posizioni filo-atlantiste, oggi dall’Iraq all’Iran, dalla Siria all’Egitto la Russia è un punto di riferimento e un partner strategico. Ormai anche la Giordania inizia ad accarezzare l’ipotesi che la via diplomatica ventilata da Putin sia la cosa migliore. Gli U.S.A. ne escono letteralmente a pezzi, politicamente, diplomaticamente e anche economicamente e militarmente, viste le risorse che hanno ‘buttato’ nel tentativo di facilitare la caduta di Assad.
Qual è il ruolo dell’Iran in questa guerra, e fino a che punto può spingersi la collaborazione tra Mosca e Teheran?
Senza l’Iran l’alleanza anti-ISIS risulterebbe poco efficace. L’Iran non è un semplice spettatore, ma un soggetto attivo nell’attuale situazione di crisi, poiché mira a creare una propria area di influenza stabile, che non corrisponde all’esportazione della Rivoluzione Khomeinista quanto piuttosto una vera e propria alleanza atta creare un cordone sanitario attorno alle petro-monarchie del Golfo, che sono per inciso i primi sponsor dello Stato Islamico.
Come ne uscirà l’islam da questa guerra, e quale può essere il suo rapporto con l’Occidente alla luce dell’esperienza del Califfato?
Mi sembra una domanda alquanto complessa, per cui tentare dare una risposta univoca sarebbe da parte mia superificale o riduttivo. Ma mi preme dissipare la fallacia logica con cui molti, in Occidente, tendono a confondere il Mondo Arabo con l’Islam e soprattutto a generalizzare l’Islam in una caricatura di sé stesso, falsata dalle interpretazioni salafite e wahabite che nascono solo nel tardo 18esimo secolo, e stanno alla fede musulmana come i Testimoni di Geova e i Televangelisti americani stanno al Cristianesimo Cattolico od Ortodosso. Io e il mio partito riteniamo che l’Islam politico eterodiretto dalle centrali di potere atlantiche (che a ben vedere di spirituale ha poco e nulla) debba essere decisamente avversato e combattuto, e che sia opportuno avviare un processo di separazione fra Stato e religione, con conseguente metabolizzazione del Principio della Reciprocità. È triste notare come l’Occidente invece di incoraggiare e supportare quella parte del Mondo Musulmano che ci tende una mano, preferisca l’alleanza con quelle nazioni come l’Arabia Saudita che promuovono un Islam integralista, che a conti fatti vuole il nostro annientamento: il sedicente ‘Califfato’ è solo l’ultimo esempio delle tante aberrazioni in tal senso. Ad ogni modo affinché l’Occidente possa rapportarsi proficuamente al Mondo Musulmano è indispensabile che esso stesso ricrei al suo interno una scala valoriale ed un’identità forti. Nessun interlocutore, che sia musulmano o altro, potrebbe prendere sul serio un Occidente preda delle pulsioni distruttive, nichiliste e sterili come quelle che lo stanno attraversando negli ultimi decenni.

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