di Ali Reza Jalali*
Secondo una parte del mondo
musulmano, il movimento di protesta del mondo arabofono sorto tra il
2010 e il 2011 in nazioni quali la Tunisia e l’Egitto, poi espansosi a
macchia d’olio dal Nord Africa alla Penisola araba, passando per il
Vicino Oriente, doveva in qualche modo, oltre a far coniugare a livello
istituzionale l’islam politico e la democrazia, rinvigorire il senso
della fratellanza arabo-islamica, portando ad un rafforzamento del
sostegno per quella che in teoria dovrebbe essere la madre di tutte le
cause arabe, ovvero la causa dell’oppresso popolo di Palestina.
Non sappiamo con certezza matematica se
negli interpreti principali di questi moti vi fosse l’intenzione
effettiva di approdare a questa conclusione, quello che conta è che
molti analisti o attivisti politici avevano interpretato in questi
termini le rivolte arabe, o almeno alcuni avevano sperato che la
cosiddetta primavera araba – secondo alcuni “risveglio islamico” –
potesse portare ad un più forte sostegno per la causa palestinese
rispetto ai precedenti trent’anni tra i governi musulmani.
A distanza di qualche anno dalla
rivoluzioni in Tunisia contro Ben Ali e in Egitto contro Mubarak –
rivoluzioni che è bene sottolineare, nei due paesi, sono state
sovvertite in modi diversi; in Tunisia il popolo ha voluto il ritorno
della classe dirigente egemone ai tempi di Ben Ali, tramite delle libere
elezioni che hanno punito ed estromesso dal potere il partito islamico
Ennada, mentre in Egitto vi è stato un golpe – possiamo chiaramente dire
che non solo le rivolte arabe non hanno favorito la causa palestinese,
ma esse hanno causato un disinteresse generale per la Palestina in tutto
il mondo arabo, visto che oggi, guardando un qualsiasi notiziario, sono
rare le notizie da Gaza e dalla Cisgiordania, mentre l’attenzione
mediatica è ricondotta su paesi come la Siria o l’Iraq, per via della
guerra al terrorismo e all’Isis.
Infatti, fino a prova contraria, il più
importante frutto della primavera araba è stato l’affermarsi del gruppo
guidato da Al Baghdadi, che ha fatto della guerra contro alcuni governi e
alcune minoranze del Medio Oriente, e in misura minore, dell’Occidente,
il proprio cavallo di battaglia. Strada però, è importante dirlo, è
stata tracciata dai movimenti popolari dell’islam politico. Prima che
l’Isis diventasse famoso, gli slogan contro il governo siriano,
iracheno, contro alcuni gruppi libanesi ecc. era all’ordine del giorno
sui siti legati alla Fratellanza Musulmana, principale sponsor della
primavera araba o del risveglio islamico che dir si voglia.
Nella propaganda della primavera araba,
come dell’Isis, la causa palestinese è il grande assente. Il risultato è
stato che i palestinesi stessi, invece di cercare di dirottare i propri
fratelli arabi verso la causa di Gerusalemme, sono stati essi stessi
coinvolti in una causa che con la loro aveva poco a che fare, anzi, era
in antitesi con il loro interesse nazionale, ovvero la causa per la
conquista di Damasco e di Baghdad. Errore strategico che oggi i
palestinesi pagano a caro prezzo, soprattutto a livello mediatico e
attraverso il disinteresse diffuso che in alcuni casi si è ormai
trasformato in aperto scontro inter arabo, ad esempio con l’Arabia
saudita, la quale se in passato aveva contatti con Tel Aviv in modo
celato, ora ha manifestato tali legami alla luce del sole, dichiarando
di fatto la propria avversione alla causa Gazawi.
Ormai i palestinesi, ammesso e non
concesso che almeno loro siano interessati alla causa per Gerusalemme,
sono rimasti completamente isolati a livello regionale, senza governi o
movimenti che siano disposti a sostenere nei fatti i loro sforzi per
continuare la resistenza. Non è un caso quindi che anche Hamas abbia di
fatto e implicitamente alzato bandiera bianca, riconoscendo i confini
del 1967, esattamente come aveva fatto in passato Al Fatah. Tale resa è
la conseguenza diretta della fiducia eccessiva riposta nella Fratellanza
Musulmana, in Erdogan e nel Qatar, i veri sconfitti della primavera
araba.
Ormai ai palestinesi rimangono come
alleati a livello governativo solo l’Iran e la Siria, con la differenza
che prima dei fatti del 2011 la Siria, soprattutto sotto il governo di
Assad junior, era una roccaforte per la dirigenza di Hamas, mentre oggi
una ricomposizione tra Assad e Hamas è assolutamente da escludere;
rimane solo Teheran e il governo iraniano, il quale mantiene, nonostante
le inquietanti sbandate della dirigenza palestinese negli ultimi anni,
l’unico stato della regione a cercare di tenere in vita i rimasugli
della causa palestinese.
Non è un caso quindi che come da copione,
l’ultimo venerdi del mese di Ramadan, il popolo iraniano scenda in
piazza per ricordare al mondo la giornata mondiale di Gerusalemme, Al
Quds, ricorrenza indetta dall’Imam Khomeini dopo la vittoria della
rivoluzione islamica a Teheran nel ’79. Allora uno slogan in voga tra i
rivoluzionari iraniani era “l’Iran ha vinto, la Palestina vincerà” –
slogan che si sentiva anche per le strade delle città italiane durante
le manifestazioni per Al Quds indette dagli studenti iraniani residenti
in Italia negli anni ’80 e ’90 – ma oggi in che misura i governi arabi
abbiano ancora a cuore tale causa è un punto interrogativo al quale
preferiamo non dare una risposta. Dal Nord Africa alla Pensiola araba i
paesi musulmani sembrano troppo impegnati nella guerra ad altri paesi
musulmani che non alla liberazione della terra araba dall’occupazione
sionista.
Per l’asse della resistenza sconfiggere
il terrorismo oggi, terrorismo nato dalla primavera araba, potrebbe
essere anche un modo per far tornare indietro le lancette dell’orologio
del Medio Oriente, quando la sfida non era quella degli arabi contro
altri arabi, come accade oggi in Siria o Iraq, ma quella degli arabi
contro i sionisti, come nel 2006 in Libano e nel 2008-2009 a Gaza.
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