Ali Reza Jalali
La vittoria di Erdogan alle elezioni presidenziali turche
conferma la linea politica del Sultano, la stessa che ha portato la Turchia
negli ultimi tempi a porsi al centro dell’attenzione internazionale per via
delle politiche di potenza messe in atto dal governo di Ankara basate sui
seguenti dettami: porsi al comando del mondo musulmano sunnita, dai Balcani al
nord Africa sino all’Asia centrale e al Medio Oriente; porsi al comando dell’area
di lingua turca, anche oltre il fattore sunnita (vedi l’influenza sui musulmani
del Caucaso meridionale, prevalentemente sciiti); ergersi come potenza in fase
di ascesa per tutto il sud del mondo, soprattutto in Asia e Africa, con
relazioni economiche in costante crescita con vari paesi del globo, fuori dal
mondo islamico; presentarsi ai vari attori internazionali, sia grandi potenze che
potenze regionali, come intermediario e risolutore di controversie tra Est e
Ovest del mondo (vedi il ruolo da mediatore nella crisi ucraina).
Gli avversari di Erdogan in caso di vittoria avrebbero
probabilmente riabilitato lo slogan di Ataturk “pace in patria, pace nel mondo”;
in caso di sconfitta del fronte conservatore la Turchia probabilmente avrebbe
avuto una politica estera più cauta e meno espansionistica, più allineata alle
politiche occidentali e meno disponibile nei confronti delle potenze orientali;
non a caso Kılıçdaroğlu durante la campagna
elettorale aveva accusato Erdogan di essere una marionetta in mano ai russi. Ovviamente
tale accusa non è vera, ma ci fa comprendere come la pensava in politica estera
il candidato progressista anatolico.
Erdogan dal canto suo ha vinto delle elezioni fortemente
polarizzate, una sorta di referendum sul suo dominio ventennale. La risposta
dei turchi è stata chiara; nonostante i problemi economici e l’alta inflazione,
il nazionalismo espansionista turco è vivo e vegeto e gli altri attori internazionali,
dall’Occidente a Russia e Cina, fino ai competitori regionali della Turchia
ovvero Iran e Paesi arabi in primis sono avvisati, le politiche espansinistiche
e di potenza di Ankara continueranno e dovremo assistere nel futuro prossimo ad
ulteriori ambivalenze turche: da un lato alleanza formale con la NATO, dall’altro
buone relazioni con Mosca, da un lato riconoscimento e vicinanza con Tel Aviv,
d’altro canto amicizia con l’Iran e così via...
Queste politiche ambivalenti hanno il vantaggio di
presentare la Turchia come partner a tutte le parti in contesa, sia a livello
globale sia a livello regionale, ma hanno anche il difetto di porre la Turchia
al centro di gravi crisi come i conflitti in Siria e Iraq, dove gli interessi
dei vari nazionalismi sono in forte contrasto.
L’ambivalenza turca è un pregio per il ruolo
internazionale anatolico quando si tratta di stipulare la pace, ma è un difetto
quando si tratta di mettere in atto la guerra, in quanto in questo modo la Turchia
rischia di farsi coinvolgere direttamente (anche sul proprio suolo) in
conflitti su larga scala (vedi la crisi siriana, non ancora del tutto risolta
vista la presenza militare turca nel nord del paese arabo).
D’altronde questo è il prezzo che devono pagare le
potenze che applicano una politica estera basata sull’espansionismo e sulla
potenza militare. La Turchia di Erdogan sembra aver ribaltato l’ideale del
kemalismo: da “pace in patria, pace nel mondo” a “conflittulità in patria, conflittualità
nel mondo”.
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